domenica 8 giugno 2014

Cinecomix Overdose- Un giudizio


Il fenomeno dei fumetti al cinema ha sorpassato oramai anche la terza fase: si è passati dalla maturità all'ordinarietà; quelli che un tempo venivano considerati kolossal, opere importanti o blockbuster sono ora concepiti come semplici oggetti di consumo da dare in pasto ad un pubblico sempre più fidelizzato, al punto da essere diventato parte integrante del processo produttivo; e basti pensare al caso del licenziamento di Shailene Woodley da "The Amazing Spider-Man 2" per comprendere come il giudizio aprioristico dei fans sia essenziale per i produttori dietro ai film-fumetto.

Diffusa poco dopo l'inizio delle riprese, la prima foto ufficiale di "Batman v Superman: Dawn of Justice" è subito diventata oggetto di scherno nei fandom di tutto il mondo.
Produttori che fortunatamente non si fanno sempre coartare dal geek di turno, come nel caso della scelta (coraggiosa e contestatissima) di affidare a Ben Affleck il ruolo di nuovo Batman cinematografico. Ma l'ingerenza degli appassionati è innegabile e porta a tutta una serie di riflessioni su come la qualità dei film-fumetto sia andata via via modificandosi nel corso degli utlimi anni.

E' dunque ora di fare un bilancio della situazione, di comprendere davvero cosa i fumetti abbiano dato al cinema e come questo sia stato modificato dai decenni di ibridazione tra i due media.


KOLOSSAL E B-MOVIES

Quando Dino De Laurentiis decise di trasporre su pellicola il cult francese "Barbarella" di certo non badò a spese: riunì un cast d'eccezione e affidò il progetto ad un cineasta rinomato, quel Roger Vadim che si impose come un vero e proprio autore fin dagli inizi della Nouvelle Vague, pur senza mai raggiungere la fama o l'apprezzamento di Godard, Truffaut o Bresson; così come, una decina d'anni dopo, allestì una produzione faraonica per il suo "Flash Gordon"; stessa discorso può essere fatto per i Salkind e Spengler, che nel 1975 si imbarcarono nell'impresa di "Superman"; ma al di là dei meri valori produttivi, ciò che rendeva speciali quelle pellicole era il coinvolgimento di veri e propri artisti nella fase produttiva, come Mario Puzo o il mimo Marcel Marceau; vi era una considerazione maggiore verso il prodotto finito, il quale doveva essere un kolossal sul modello di David Lean piuttosto che un semplice film di cassetta; sopratutto i Salkind miravano a creare qualcosa di mai visto prima, che si imprimesse con forza nell'immaginario collettivo e fosse in grado, al contempo, di rendere giustizia al materiale di partenza.

Coinvolgere il più grande attore della storia in un film-fumetto è oggi un concetto impensabile.
I grandi nomi nei comic-movie tutt'oggi non mancano: si pensi ad Anthony Hopkins in "Thor" (2009) o a Michael Fassbender negli ultimi film sugli X-Men; eppure, la partecipazione di grandi attori in pellicole sciatte lascia intendere come il loro sia un mero "selling point", un valore aggiunto, un qualcosa in più volto unicamente a vendere il film piuttosto che ad aumentarne il valore; e la mente non può che correre al recente "The Amazing Spider-Man 2" o, più indietro, ad "Iron Man 2", dove i talenti di Jamie Foxx e Mickey Rourke vengono sprecati in ruoli da villain puramente riempitivi.

Il lirismo, l'intelligenza e la modernità del miglior cinema di Branagh lasciano il posto a battute becere e dialoghi pseudo-aulici, per la gioia dello spettatore americano medio
La partecipazione di artisti concettuali o scrittori dal talento riconosciuto è invece scomparsa: tolto Lee Bermejo, usato come consulente visivo per "Il Cavaliere Oscuro" (2008), nessun grande artista o scrittore viene più coinvolto nel processo produttivo dei comic-movie; allo stesso modo, la regia viene solo di rado affidata ad autori dal solido talento, preferendo invece usare dei mestieranti più facilmente manipolabili dalla produzione; e anche quando si decide di affidare il timone della direzione ad un autore vero e proprio, il risultato è impersonale e sciatto, come nel caso di "Thor" o dell' "Hulk" di Ang Lee; esiti dovuti da un lato alla forte ingerenza della casa produttrice, ma dall'altro anche dalla totale incompetenza dell'autore sulla materia di base.

Nonostante i grossi nomi coinvolti, il "Lanterna Verde" del 2011 si impose come esempio perfetto di blockbuster senz'anima
Il punto cruciale nel fallimento dei comic-movie risiede spesso nella scelta degli sceneggiatori; se David Koepp nel 2002 riuscì a tirare fuori da 35 anni di avventure dell'Uomo Ragno su carta una storia basilare e scialba, il vero scandalo lo si è avuto nel 2011 con il "Lanterna Verde" di Martin Campbell: quattro sceneggiatori, un personaggio dal forte carisma, un interno universo di storie da cui prendere ispirazione (una più complessa dell'altra) e il risultato è un film talmente insipido da non riuscire nemmeno ad infastidire.

Un budget non eccezionale ed una sceneggiatura mediocre; eppure, il "Blade" di Norrington funzionava a dovere.
Fu a partire dagli anni '90 che il concetto stesso di comic-movie si affrancò da quello di kolossal; da un lato vi fu il fallimento ai botteghini di blockbuster quali "L'Uomo Ombra" (1994) e "Dredd- La Legge sono Io" (1995), dall'altra l'esplosione della bolla speculativa dei comics; la Image Comics portava al fallimento il mercato del fumetto mainstream e la Marvel non riusciva a trovare nuovi sbocchi artistico-produttivi; i produttori di Hollywood misero in stand-by tutti i film tratti da fumetti che avevano in cantiere (come il mitico "Superman Lives" di Tim Burton, che restò congelato per quasi dieci anni); il risultato fu lo sbocciare della Terza Fase dei fumetti al cinema: trasposizioni low-budget, ai limiti del B-Movie, anche se prodotte da major; questi film si differenziavano dalle produzioni squisitamente trash del periodo (come "Barb Wire" e "Vampirella" del 1996) per una maggiore attenzione all'estetica, ma i risultati erano comunque mediocri; si pensi al "Blade" di Stephen Norrington: tutto è funzionale alla storia, ma questa è vista e stravista, nonchè estremamente lineare; il film trova così una sua dignità come pellicola action, più che come vero e proprio comic-movie, in vitù anche delle molte differenze con il poco longevo fumetto da cui trae ispirazione; successo globale, "Blade" aprì le porte alla produzione del primo "X-Men" (2000): anch'esso protato a termine con un budget nella media ed uno script mediocre, fu il vero apripista dell'avvento in grande stile dei fumetti Marvel al cinema e impose un primo paradigma per la produzione futura: giocare al risparmio su storia e personaggi in favore degli effetti speciali.


L'INVASIONE DELLE CALZAMAGLIE

Cast e valori produttivi degni di Hollywood; ma la trasposizione del mitico "Marshall Blueberry" del 2004 non lasciò segni di sorta
Si può parlare di un vero e proprio monopolio hollywoodiano sulle trasposizioni dei fumetti; le produzioni internazionali tratte dai comics europei si contano, alla fin fine, sulle dita di una mano; merita la visione lo splendido "Persepolis" (2007): tratto dall'omonima graphic novel di Marjane Satrapi, la pellicola traspone efficacemente stile e storia di partenza, lascinadone inalterata la carica politica ed estetica.
Molto meno riuscite  le trasposizioni dei classici del fumetto francese d'antan; Asterix e Obelix sono stati protagonisti di una trilogia live-action (oltre che di una decina di film d'animazione) che male adattano l'umorismo delle strips originali, pur facendosi notare per gli ottimi valori produttivi. Più infausto il destino del mitologico "Marshall Blueberry" di Jean "Moebius" Giraud: arrivato al cinema nel 2004 in una produzione sontuosa ed interpretato dal solido Vincent Cassell, Blueberry è protagonista di una pellicola fin troppo stilizzata e piatta, che riduce la carica visionaria del soggetto di partenza ad una serie di animazioni in CGI di dubbio gusto che mal traspongono la psicologia dei protagonisti; in fin dei conti, una pellicola mediocre e dimenticabile.

Se si glissa sulla mancanza di mordente, le pellicole di Asterix e Obelix possono risultare divertenti.

Hollywood ha invece le idee chiare: al bando ogni forma di serietà, siano lo spettacolo puro e l'intrattenimento a trionfare; anche per questo sono i personaggi del fumetto mainstream a farla da padrone nel mondo dei cinecomic e dei comic-movie; tendenza che ha portato ad una progressiva riduzione delle trasposizioni di graphic novel e fumetti d'autore; basti pensare ai lavori del grande Alan Moore: il primo film tratto da un suo fumetto fu "From Hell" nel 2001, che adattava degnamente il soggetto di partenza; ma nel 2005 è la volta de "La Leggenda degli Uomini Straordinari" e l'esito è opposto: diretto dal Norrington di "Blade", il film appiattisce gli splendidi personaggi di Moore sui canoni classici di eroi e villain, vanificandone la complessità ed immergendoli in una storia prevedibile e poco incisiva.

Moore fu talmente deluso dal film da proibire l'uso del suo nome sui credits; le successive trasposizioni di "V per Vendetta" e "Watchmen" furono accreditate ai soli disegnatori, David Lloyd e Dave Gibbons

Persino la moda del cinecomic sembra sparita dopo gli exploit di "300" e "Sin City", la cui unica eredità effettiva è data dai relativi sequel, oltre che dall'estetica, letteralmente saccheggiata da innumerevoli altre produzini.
Si ha così una sovraesposizione di superoi al cinema; così come accadde negli anni '40 nel fumetto americano, anche sul Grande Schermo gli eroi dotati di poteri fantastici divorano letteralmente ogni concorrenza, imponendosi come la principale fonte di ispirazione per i comic-movie; va da sè che anche al cinema si ripresenta il duopolio proprio del fumetto mainstream americano.

MARVEL VS DC

Ossia la Casa delle idee di Stan Lee contro la prima grande casa editrice supereoistica; due modi di concepire il comic movie totalmente diversi che rispecchiano due modi opposti e inconciliabili di considerare il proprio pubblico di riferimento.

Talmente brutto da non essere mai stato distribuito in alcun modo; ma il "Fantastic Four" del 1994 non è certo più stupido nella trasposizione del 2005.
Sebbene il primato storico nella creazione di eroi in costume e nella loro trasposizione su pellicola spetti alla DC, è la Marvel a costituire tutt'oggi la casa di produzione che conta il maggior numero di adattamenti su Grande Schermo; fin dagli anni '80, il film tratti dai fumetti di Stan Lee e soci si imposero all'attenzione del pubblico per un fattore essenziale: l'estrema stupidità; non si può non rimanere spiazzati dall'umorismo idiota di "Howard e il Destino del Mondo" (1986), dalla rara bruttezza del mai distribuito "Fantastic Four" (1994) o di quella perla nera del trash che è il "Capitan America" di Albert Pyun; pellicole prodotte con pochi capitali (salvo "Howard", fortemente voluto da George Lucas) che riprendevano il lato più camp e becero dei fumetti e lo trasponevano in brutte immagini, foriere di storie talmente idiote da non essere mai credibili; ma cos'è cambiato davvero in più di 20 anni di attività?

Cap era già stato protagonista di due pellicole televisive alla fine degli anni '70; incredibile a dirsi, a loro confronto l'exploit di Pyun è pop-art allo stato puro
Tre sono le major impegnate nella trasposizione di fumetti Marvel: la Fox, la Sony e la stessa Marvel Studios; ma in tutti e tre i casi è possibile scorgere un denominatore comune: una concezione naif e becera del pubblico di riferimento. Il primo blockbuster fu lo "Spider-Man" di Raimi, prodotto dalla Sony, e già in esso erano presente tutti i semi che avrebbero germogliato nel decennio successivo; da un lato la voglia di affidare il progetto ad un autore conosciuto dal grande pubblico e ammirato dalla critica; dall'altro la paura di dare al pubblico una storia troppo articolata o, più semplicemente, troppo intelligente; cassato il soggetto originale scritto da James Cameron, che fondeva echi kafkiani con influenze cyberpunk, "Spider-Man" diventa una commedia per ragazzini ed impone uno stile subito riconoscibile, dato da uno humor scanzonato ed infantile, dialoghi finto-impegnati ed una caratterizazzione dei personaggi totalmente basata sugli stereotipi. Nelle intenzioni dei produttori, lo spettatore deve riconoscersi nel protagonista Peter Parker ad ogni costo; per farlo, questo "alter-ego" di chi osserva deve essere come lui; e com'è lo spettatore americano medio secondo Koepp? Un nerd, uno sfigato che cerca di maturare grazie ai suoi poteri senza mai riuscirci davvero; non c'è una vera crescita del personaggio nelle tre pellicole dirette da Raimi, né un cambiamento nella sua psicologia: i suoi tratti essenziali (la stupidità, la sfortuna, l'egoismo) sono sempre al centro dello script, pronti per essere riconosciuti dal pubblico di riferimento; dopo i titoli di coda di ogni episodio, il protagonista dimentica quanto ha imparato in precedenza ed è pronto a commettere gli stessi errori, ritornando di volta in volta ad incarnare quei difetti "umani" che dovrebbero portare lo spettatore alla identificazione totale; il personaggio smette così di essere un modello di riferimento per divenire un pupazzo per il divertimento del pubblico; e il risultato non sarebbe nemmeno disprezzabile, se solo non fosse preso sul serio.

Da modello di comportamento a glorificazione dei difetti umani
"Spider-Man" diviene il modello di riferimento, il paradigma per i comic-movie a venire; tuttavia, il tratto più riconoscibile lasciato dal film di Raimi non risiede nella retorica moraleggiante o nella caratterizzazione basica dei personaggi (di fatto già presenti in tutti i blockbuster americani degli anni '90), quanto nello sprezzo del ridicolo involontario; tutto ciò che può apparire stupido, tutti i clichè e gli stereotipi del caso vengono ripresi a gran voce nelle successive pellicole della Fox e della Sony e giustificati con l'arma dell'ironia; i risultati? Semplice: "Daredevil" (2003) "Elektra" (2005), "I Fantastici Quattro" (2005) e "Ghost Rider" (2007); pellicole che si allontanano dai personaggi di partenza riplasmandoli come buffoni edulcorati, non si rifanno a nessun genere o filone cinematografico preestistente, ma si adagiano sul modello di Raimi; modello che con l'orrendo "Spider-Man 3" (2006) raggiunge l'apoteosi; e la Marvel torna ad essere la regina indiscussa del trash al cinema, con la differenza che questa volta i budget e gli incassi sono stratosferici.
Guardando tutte queste pellicole si ha la medesima sensazione: nessuno dei nomi coinvolti crede davvero in quello che fa; non si fa nulla per colmare i buchi di sceneggiatura, per ovviare al ridicolo, per cercare di dare un minimo di profondità a personaggi e situazioni, come a prendere in giro lo spettatore pagante, visto come un idiota interessato unicamente a vedere i suoi beniamini muoversi su schermo.

Lontano anni luce dalla cattiveria e dallo humor nero del fumetto originale, "Ghost Rider" è un vero e proprio ottovolante di idiozie assortite; con in più Nicolas Cage al posto del teschio fiammeggiante

Situazione che peggiora con l'avvento dei Marvel Studios nel 2007; Kevin Feige non ha dubbi: al pubblico non interessano le storie, solo i costumi dei personaggi; ecco dunque che venti anni di caratterizzazione psicologica vengono aborriti nella trasposizione su pellicola di "Iron Man"; qui Tony Stark da geniale inventore ossessionato dalla tecnologia e schiavizzato dall'alcool diviene un istrione folle; ogni traccia narrativa viene azzerata, la spettacolarità ridotta all'osso: per due ore si assiste ad uno show senza freni di un Robert Downey Jr. lasciato a briglia sciolta; e il pubblico applaude: nuovo paradigma; ora l'eroe non deve più essere un personaggio con cui lo spettatore deve potersi identificare; l'importante è riuscire ad intrattenere con il minimo indispensabile; e gli attori divengono dei selling point, dei nomi da affiggere sul cartellone per poter vendere più biglietti possibile.

Budget stratosferico, attori di grido, effetti speciali di buon livello e la colonna sonora degli AC/DC; eppure, "Iron Man" resta il perfetto esempio di trash del 21mo secolo

Ma se Atene piange, Sparta non ride; affondato il franchise di Batman a metà degli anni '90 con due delle pellicole più genuinamente ridicole mai prodotte ad Hollywood, la Dc Comics rinnova la sua partnership con la Warner bros. e nel 2005 esce "Batman Begins"; successo non eclatante, ma che porta alla resurrezione del mito cinematografico dell'Uomo Pipistrello, il quale sarà consacrato definitivamente nel 2008 con "Il Cavaliere Oscuro", pellicola che racchiude in sé tutti i topoi dell'approccio della Dc/Warner al comic-movie; piuttosto che creare un non-genere, Nolan e soci adattano l'universo di Batman al noir metropolitano, dal quale Bob Kane trasse ispirazione per la creazione del personaggio già nel '39; Jonathan Nolan, in sede di scrittura, immerge personaggi magnificamente caratterizzati in una storia complessa e ricca di colpi di scena, che è al contempo perfetta rappresentazione delle contraddizioni della società occidentale; e il fratello Christopher dirige tutto con un ritmo magistrale; il risultato è il Batman più fedele al fumetto di origine e, contemporaneamente, anche il più riuscito, assieme alla rilettura, gotica ed espressionista, di Burton con "Batman Il Ritorno" del 1992; sfortunatamente, nessuno dei due film è riuscito ad imporsi come paradigma per le produzioni successive.

Suggestivo e spettacolare, eppure "Il Cavaliere Oscuro", al di là del grosso seguito di critica e pubblico, non è riuscito ad imporsi come esempio di comic-movie

Tolta l'inlfuenza su "The Amazing Spider-Man" (2012) e sul serial televisivo "Arrow", quello di "The Dark Knight" può considerarsi un caso isolato; l'intricata trama intessuta dai fratelli Nolan e il piglio spettacolare e realistico non hanno attecchito presso le prudizoni mainstream, neanche in quelle targate dalla stessa DC/Warner; prova ne è il successivo "Joanh Hex" (2010): tratto da uno dei personaggi meno conosciuti ma più carismatici dell'universo Dc, "Jonah Hex" è un western senza nè arte nè parte, privo di tensione e mordente ed infarcito di un umorismo basilare, più simile ai comic-movie Marvel che al film di Nolan; e lo stesso discorso può essere fatto per il successivo "Lanterna Verde" (2011).

Un western con protagonisti Josh Brolin, John Malkovich, Megan Fox e Michael Fassbender era impossibile da sbagliare. Sulla carta.

E se proprio di trash non si può parlare, non si può non riconoscere l'estrema povertà intellettuale di queste due pellicole, che sembrano essere state prodotte giusto per lucrare sulla moda del momento; non che la DC sia esente dal "morbo del ridicolo": basta tornare al 2003 e riscoprire quella perla di fango di "Catwoman", film che ridefinisce il concetto stesso di brutto, tra una storia ridicola (azienda cosmetica che vuole conquistare il mondo contrastata da una divinità egizia che rivive in una segretaria), una Sharon Stone rifatta male (e il cui personaggio ha la pelle di pietra) e una Halle Berry che fa di tutto per sembrare sexy, ma sembra uscita da uno strip club di quart'ordine.

Halle Berry a parte, è lo stile di Pitof a rendere del tutto indigesto il film, facendolo somigliare ad una produzione televisiva degli anni '90


INFLUENZE ESTERNE
E' a partire dagli anni '80 che Hollywood riprende gli stilemi dei comic per le sue produzioni; piuttosto che trasporre al cinema gli eroi della carta, gli autori traggono ispirazione da questi per la caratterizzazione dei loro personaggi; nella moda dell' action "macho" è impossibile non rivedere le movenze superomistiche degli eroi Dc e l'umorismo clownesco dell 'Uomo Ragno; tra tutti, è il John Matrix di "Commando" (1985) ad incarnare maglio questa tendenza: una forza disumana in un corpo a prova di bomba, capace di espugnare da solo un'intera fortezza piena di nemici e rispondere ai suoi assalitori con battute sagaci; non per nulla, è proprio in questo periodo che la critica conia il termine "fumettone" per definire tali pellicole.

Muscoli ben oliati e mimetica al posto della calzamaglia: il supereroe degli anni '80
Qualche anno dopo, il "Dick Tracy" di Warren Beatty porta al cinema l'estetica del fumetto, aprendo la strada al "Sin City" di Rodrguez e Miller: l'ibridazione è compiuta; il "cinecomic" si impone come nuova forma stilistica con esiti infausti; una delle prime pellicole a riprendere lo stilema è "Ultraviolet" (2006) di Kurt Wimmer: unendo al cinecomic l'estetica del viedegame, l'esperienza sensoriale risultante è a dir poco spiazzante, un coacervo di intuizioni coatte e becere che con la grammatica cinematografica non ha più nulla a che vedere; oltre che, naturalmente, con il buon gusto per l'estetica.

Ogni fotogramma vorrebbe essere un'esperienza sensioriale nuova; il risultato è a dir poco ridicolo
Ultimo ma non meno importante expoilt è "The Spirit" (2008), unica prova da regia in solitario di Frank Miller; la commistione tra film è fumetto è ancora più stretta che in "Sin City", ma il risultato è pacchiano, visivamente sfiancante e privo di mordente; la narrazione si adagia sui topoi del comic, mancando di tensione drammatica; Miller riesce, si, a creare un fumetto per immaggini, ma il risultato finale fa rimpiangere persino la fiacchezza di "Immortal ad Vitam" (2004).

Un "punto di non ritorno" per fortuna mai più raggiunto

 LA "QUARTA FASE"

Da kolossal spaccamascella a B-movies, da pellicole d'autore a film trash, i comic movie hanno percorso un sentiero sinusoidale fatto di alti e bassi; oggi, la situazione sembra essersi assestata su di un binario ben preciso: la mediocrità; un compromesso logico: unire le istanze spettacolari con le esigenze narrative, abbandonare forme di sperimentazione per ripiegare su stili e stilemi riconosibili (un esempio su tutti: "L'Uomo d'Acciaio", vero e proprio "Superman Begins") per assicuare il giusto equilibrio tra forma e contenuti. Il risultato è una serie di film che si rivolge non più ad un pubblico generalizzato, ma ad un settore ben preciso: i geek, i fans di tutto il mondo che si aspettano esattamente quello che trovano, il loro eroi preferiti in una veste decente anche se non eccelsa; e i recenti "The Amazing Spider-Man 2" e "X-Men- Giorni di un Futuro Passato" confermano tale tendenza: occasioni sprecate in nome di un successo di cassetta assicurato.


Aurea mediocrità

GIORNI DI UN FUTURO PASSATO

Il titolo del film di Singer calza a pennello; molti dei migliori personaggi concepiti nei pantheon del fumetto superoistico sono stati sprecati in produzioni mediocri; oltre al già citato Lanterna Verde, si pensi al mitico Deadpool, che da parodia ultraviolenta e scorrettissima del supereroe medio è regredito a mero "boss finale" nel brutto "X-Men- Le Origini: Wolverine" (2009); a the Punisher, la cui ultima incarnazione ("Punisher: War Zone" del 2009) è semplicemente inguardabile; o ancora a John Constantine, protagonista di una pellicola scialba e ridicola. Molti dei comics più interessanti non sono mai stati portati su schermo, come il mitico "Il Ritorno del Cavaliere Oscuro" di Frank Miller, l'imprescindibile "Maus" di Art Spiegelman, del quale una riduzione cinematografica non è mai stata nemmeno presa in considerazione; o "The Sandman" del duo Gaiman/McKean, "regredita" a serie televisiva.
Situazione che non migliora in ambito internazionale; le opere del geniale Moebius restano su carta. Dei manga di Go Nagai si è avuta una sola trasposizione, quel "Devilman" del 2004 di cui meno si parla e meglio è; mentre capolavori di Osamu Tezuka quali "La Storia dei Tre Adolf", "Black Jack" e "La Fenice" vengono ignorati, preferendo portare su schermo l'archetipico "Astroboy" in una pellicola che, di fatto, riprende ben poco dello splendido manga originale; il progetto di trasposizione del manga di culto "Battle Angel Alita" targato James Cameron è in cantiere da circa quindici anni, fermo in un limbo apparentemente eterno. Le strips di Andrea Pazienza sono state ben trasposte in "Paz!" nel 2004, il quale, tuttavia, non ha creato una moda del comic-movie nel nostro paese: prova ne sono l'inguardabile "Dylan Dog- il Film" (2010), di produzione americana, e la mancanza di volontà nel trasporre su pellicola gli eroi della Bonelli o il mitologico "Ranxerox".
In sostanza, non sembra errato affermare che i giorni migliori del fumetto al cinema appartengano oramai al passato.


Pezzi Mancanti

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