giovedì 15 ottobre 2020

Dogtooth

Kynodontas

di Yorgos Lanthimos.

con: Christos Sergioglou, Michele Valley, Angeliki Papoulia, Hristos Passalis, Mary Tsoni, Anna Kalaitsidou.

Grecia 2009
















Se si pensa ai grandi cineasti europei, ci si potrebbe accorgere di come questi possano essere divisi, idealmente, in due categorie; da una parte gli autori riconosciuti, che si sono saputi affermare a livello mondiale e il cui stile viene generalmente riconosciuto da un pubblico ampio; vi sono poi quelli che, dispregiativamente, vengono definiti come "autori da festival", le cui opere spesso trovano spazio solo all'interno delle manifestazioni più importanti, Cannes e Venezia su tutte.
Yorgos Lanthimos ben poteva far parte di quest'ultima categoria: nonostante il suo cinema si sia caratterizzato sin da principio come una personale rilettura di stili e stilemi "d'autore", sembrava che il suo posto dovesse risiedere esclusivamente all'interno di una cerchia ristretta di estimatori. Fortunatamente, i suoi lavori internazionali ("Il Sacrificio del Cervo Sacro" e "La Favorita" su tutti) lo hanno fatto uscire dalla nicchia per trovare un meritatissimo riconoscimento universale.
Sebbene "Dogtooth" non sia il suo esordio, merita di essere visto come il suo primo film di spicco (più di "Kinetta", suo effettivo esordio da regista in solo, datato 2005) dato che è da qui che l'autore comincia una essenziale collaborazione con lo sceneggiatore Efthymis Filippou, il quale saprà dare perfetta forma drammaturgica alle sue intuizioni e pulsioni.


"Dogtooth" è, nella sua essenza, un dramma da camera dai risvolti surrealistici, una riflessione iperbolica sul concetto di famiglia e controllo. Nella Grecia contemporanea, un imprenditore e padre di famiglia (il cui nome resta celato, così come quello del resto dei membri del nucleo famigliare) tiene la sua prole, composta da due figlie e un maschio, letteralmente segregata all'interno dei confini della propria villa. L'unico contatto con l'esterno viene dato dagli incontri carnali con Christina, guardia di sicurezza della sua azienda, la quale viene usata per sfogare la libido del figlio maschio.



Nulla viene detto sulle ragioni di tale segregazione; né interessa un eventuale epilogo alla stessa. Lanthimos e Filippou si concentrano sull'essenziale, ossia sul ritratto di questo microcosmo impazzito, dove tutto viene lasciato al di fuori dei cancelli.
La villa è un vero e proprio luogo fuori dal tempo, dove neanche la tecnologia trova spazio. Una "zona neutrale" dove ogni forma di conflitto viene bandito, ogni bruttura obliata; persino i basilari concetti di orrore vengono censurati cambiando il significato delle parole. Il tutto per mantenere la prole in uno stato di infanzia perenne, nonostante il proprio stato di adulti, il quale trova riconoscimento esclusivamente sul piano carnale.


I tre figli sono come tre macchine chiuse in loro stesse. La recitazione dei tre attori è volutamente robotica, con frasi pronunciate senza emozione né mordente. Al pari della stessa, i tre figli sono come marionette in preda ad una duplice pulsione: da un lato quella interiore, con necessità anche sessuali che li spingono al punto di commettere violenza fisica contro i consanguinei per sfogarsi; dall'altro il super-io dato dal padre e le sue regole restrittive, che si concretizzano spesso nella soppressione dell'istinto, quando non in un semplice sfogo controllato.
Da qui la degenerazione: da un lato la violenza, dall'altro l'attrazione incestuosa verso l'unico oggetto del desiderio rimasto. Se il figlio trova nelle sorelle l'unico modo per sfogare la propria libido, la sorella più piccola si ritrova suo malgrado attratta dalla violenza, mentre la maggiore, più smaliziata, riscopre un'indole ribelle.



Questo sentimento di evasione troverà (forse) compimento nel finale, pur aperto. E, soprattutto, viene sfacciatamente rivolto alle figure genitoriali sotto forma di messa in scena, un teatro nel teatro che porta ad una pur futile catarsi, dapprima nella citazione di dialoghi di film famosi e proibiti ("Rocky" e "Lo Squalo"), poi nella ripresa di quel ballo dalle movenze violente fino ad una forma di isteria controllata (ripreso da "Flashdance"); impulsi scaturiti da una visione proibita, la quale viene punita in modo fisico, con un controllo repressivo che passa dalla menzogna e manipolazione sino alla sua forma più estrema, ossia la sottomissione fisica.


Lanthimos riesce così a creare una metafora forte sino alla ferocia, ma mai compiaciuta. I tabù vengono portati in scena con un distacco simile a quello visto nelle opere di Michael Haneke, dato anche dall'uso oggettivo delle immagini. Se le tonalità cromatiche dominanti sono quelle del bianco, a sottolineare una purezza forzata verso i personaggi, le inquadrature sono quasi tutte fisse e obiettive sino a non contenere i corpi dei personaggi, quasi come se li si stesse osservando da un foro su di una parete o da una telecamera di sorveglianza, effetto ottenuto filmando il tutto solo con l'obiettivo da 50mm. Un distacco che, paradossalmente, permette un'immersione perfetta nel microcosmo, al punto che quando la violenza entra in scena, riesce ad essere destabilizzante pur mostrando poco e nulla.


Feroce e perfettamente riuscito, questa furiosa descrizione della degenerazione sociale resta ad oggi tra le opere più forti dell'autore, il quale, da qui, inaugurerà una filmografia a dir poco eccellente.

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