martedì 29 marzo 2022

Valentino

di Ken Russell.

con: Rudolf Nureyev, Leslie Caron, Michelle Phillips, Seymour Cassel, Carol Kane, Felicity Kendal, Peter Voughan, Huntz Hall, William Hootkins.

Biografico

Regno Unito, Usa 1977
















Utilizzare un registro lezioso nel portare in scena una biografia è quasi sempre un'arma a doppio taglio. Se l'eccesso è talvolta parte integrante della vita di un'artista o dell'arte che questi rappresenta, una rappresentazione eccessiva può portare facilmente al ridicolo involontario. Basti pensare a quanto successo nel tristemente famoso "Mommie Dearest", biopic di Joan Crowford nel quale Faye Dunaway interpreta la diva e i suoi manierismi in modo talmente marcato da sfociare irrimediabilmente nel camp, annullando ogni pretesa drammatica.
Ken Russell, d'altro canto, ha sempre saputo padroneggiare il registro grottesco e sopra le righe nelle sue biografie d'autore, spesso votate all'eccesso per trovare una forma espressiva efficace. Ma con "Valentino" il grande autore arriva al limite nella rappresentazione della vita di Rodolfo Valentino, adoperando un linguaggio filmico colorito che talvolta sembra non controllare; con la conseguenza che se, da una parte, questo ritratto del celebre divo è perfettamente riuscito negli intenti, dall'altro ogni forma di empatia verso il personaggio viene irrimediabilmente annullata, con tutte le conseguenze intuibili.


Italiano di origine pugliese, nato a Castellaneta in provincia di Taranto ed emigrato negli States a diciotto anni circa, Rodolfo "Rudolph" Valentino è stato il primo vero grande divo del cinema, il cui status di celebrità ha trasceso il grande schermo ed il gossip per divenire fenomeno culturale. Prova ne è stata l'isteria generale ai suoi funerali: morto ad appena 31 anni, nel 1926, per una peritonite, il corpo di Valentino è stato letteralmente oggetto di culto di un enorme corteo di donne, affascinante dalla sua aura di latin lover, primo esempio nell'intera storia del cinema. Una fascinazione talmente forte che portò persino alcune sue fan al suicidio alla notizia della sua scomparsa.
Una figura, la sua, certamente "bigger than life", sia per i personaggi che portava in scena, sia per l'archetipo di amante sensuale e romantico che incarnava, sia anche e soprattutto per la sua vita privata, foriera di relazioni appassionate e turbolente, talvolta anche con amanti di sesso maschile. La sua bisessualità, oramai accertata, all'epoca era comunque malcelata, tanto un giornalista arrivò persino ad insultarlo pubblicamente con una vignetta che ne questionava la virilità, con l'intento di dissacrarne la fama e rovinarne la reputazione presso il pubblico femminile. Cosa che comunque non avvenne, da cui la venerazione nelle ore immediatamente successive alla sua morte.


Ken Russell chiama ad interpretare questo monumento del cinema nientemeno che Rudolf Nureyev, il quale presta al personaggio il suo naturale carisma e soprattutto la sua fisicità statuaria, nonché le sue doti di ballerino, indispensabili per il ruolo. Se da questo punto di vista la scelta è azzeccata, si resta perplessi dinanzi alle doti recitative del compianto virtuoso della danza, troppo scolastiche e meccaniche; ma il suo stile è altresì perfetto per il ritratto portato in scena da Russell.
Il Valentino qui ritratto è un divo sia dentro che fuori lo schermo, perennemente ben vestito, i cui modi teatrali accompagnano ogni suo singolo gesto, sia un pubblico che in privato. Il punto di vista sugli scorci della sua vita è di fatto quello delle donne che lo hanno conosciuto, la cui la vistosa "teatralità" della sua figura, non quella di un uomo in carne ed ossa, bensì quella di un'idea percepita come forma idealizzata da chi l'osserva.


Da cui deriva anche il tono perennemente manierato del racconto, che diventa un'iperbole del reale sin da subito, sin da quelle immagini che ricreano i convulsi funerali e i personaggi che vi presero parte, anch'essi perennemente sopra le righe, smancerosi fino all'inverosimile. Non assistiamo ad una ricostruzione della realtà, ma ad una realtà estremizzata, in cui ogni gesto è esagerato, come a voler ricreare l'espressività propria del cinema muto, dove per forza di cose la recitazione doveva essere esagerata; o, ancora, la recitazione para-teatrale del cinema americano degli anni '20 e '30, dove ogni battuta è enfatizzata in modo deciso. "Valentino" non è così un film su Rodolfo Valentino, quanto un film sull'immagine di Valentino portata in scena in modo estetizzante e a sua volta stilizzata fino quasi al parossistico.


Le testimonianze filtrate portano irrimediabilmente ad un ritratto monco del personaggio. La bisessualità viene solo accennata nella prima scena che lo vede protagonista, ma mai davvero esplorata, il che è strano visto il curriculum del regista, che non si è mai fatto problemi a portare in scena personaggi ambigui, né pare realistico pensare ad una scelta precisa volta a non "infangare" la memoria dell'artista, visto che già nel 1977, ad oltre cinquant'anni dalla sua scomparsa, la pubblicazione dei suoi diari segreti aveva reso pubblica la sua sessualità, senza che tale notizia ne compromettesse in alcun modo il lascito.


La vita di Valentino diventa così una sarabanda di amori, invidie, eccessi e grandezza, con in sottofondo una nota amara che tuttavia non trova mai un posto adeguato, neanche nel mero sfondo degli eventi.
Tanto che alla fine, il ritratto che emerge è oltremodo ambiguo: chi era Valentino secondo Ken Russell? Un immigrato dal cuore d'oro e dai valori puri a suo modo corrotto dalla fama? Un vero latin lover incapace di contenere la sua libido? Un artista genuino ma schiacciato dallo studio system che gli tarpava le ali? La vittima di una società intollerante o del suo stesso ego? Forse tutto questo, forse nulla di questo al contempo. Ambiguità che tuttavia non dona profondità al ritratto, quanto una sua intrinseca schizofrenia, incapace di donare l'aura di mistero voluta.




E se per quasi tutto il film il registro regge, regalando un'esperienza certamente incompleta ma al contempo compatta, nel finale tutto crolla, con quel ricorso ad una drammaticità insistita che arriva troppo tardi e per questo risulta posticcia.
Quello di Russell resta così inevitabilmente un pastiche d'autore che trova la sua forza nel cinismo, ma che non solo non rende al personaggio che ritrae, ma arriva anche a risultare incompleto e indigesto. Un vero peccato.

venerdì 25 marzo 2022

Licorice Pizza

di Paul Thomas Anderson.

con: Alana Haim, Cooper Hoffman, Sean Penn, Tom Waits, James Kelley, Bradley Cooper, Benny Safdie, Danielle Haim, Este Haim, Yumi Mizui, Mary Elizabeth Ellis, Maya Rudolph.

Usa, Canada 2021


















Paul Thomas Anderson è uno di quegli autori eclettici al punte che, pur avendo una serie di tematiche ricorrenti nella loro filmografia, sono al contempo alla costante ricerca dello stile perfetto per raccontare di volta in volta la loro storia. E' così che riesce a passare fluidamente dalle sontuose immagini di "There will be Blood" alla scanzonata lisergia di "Vizio di Forma", per poi giungere all'eleganza formale de "Il Filo Nascosto". E con "Licorice Pizza", il grande autore trova una dimensione minuscola ed efficacissima per raccontare una storia al contempo piccola e universale, che fonde le istanze del romanzo di formazione con lo spaccato d'epoca per creare una commedia divertente e fresca.



Nella Encino dei primi anni '70, il quindicenne Gary Valentine (Cooper Hoffman) è un giovane attore che cerca di sbarcare il lunario come piccolo imprenditore, in attesa di fare il botto su schermo, mentre la venticinquenne Alana Kane (Alana Haim) è una giovane donna che cerca di capire che direzione far prendere alla sua vita. Il loro incontro, casuale, genera un'attrazione pronta a sfociare nell'amore.




Due ragazzi. Uno un teen-ager con aspirazioni da adulto, l'altra una ventenne alla ricerca del proprio posto nel mondo. Lui è deciso e volitivo, lei tanto affascinante quanto indecisa su che direzione prendere. Da qui l'attrazione di due poli opposti e la corrispettiva strada binaria: crescere o restare ancorata alle ispirazioni di gioventù?
Su tale quesito proprio da racconto di formazione classico, Anderson innesta una variabile dirompente: siamo davvero sicuri che il mondo degli "adulti" sia poi tanto diverso da quello degli adolescenti?
Se si escludono le figure genitoriali, il cui ruolo è puramente di contorno, tutti gli adulti di "Licorice Pizza" sono sbandati quanto se non di più gli adolescenti: l'attore Jack Holden (Sean Penn) è un divo fatto e finito ma che ragiona come un ragazzino e si esprime solo attraverso i dialoghi dei suoi personaggi, arrivando a scaricare "materialmente" Alana pur di far felice il suo pubblico. L'arrivista Jerry è ossessionato dal voler pubblicizzare il suo ristorante giapponese, ha una moglie nipponica intercambiabile a seconda dell'occasione della quale non si cura di imparare la lingua, preferendo rivolgersi a lei in modo razzista (da cui le solite accuse infondate verso il film, come a non voler capire di proposito la critica che l'autore formula tramite il personaggio). Il consigliere Wach (Benny Safdie) è un aspirante sindaco che si batte per la giustizia e legalità, ma che non ha il coraggio di fare outing. E poi c'è lui, il mitico Jon Peters, all'epoca ancora semplice parrucchiere marito di Barbara Streisand, non ancora produttore, ma già macho allampanato che si muove come un pazzo scatenato perennemente arrapato, impersonato da un Bradley Cooper in una performance che si potrebbe tranquillamente definibile come "caricaturale", se non rispecchiasse perfettamente i manierismi del vero Peters e che quindi diventa semplice mimesi.


Gli adolescenti, d'altro canto, altro non sono che giovani adulti che cercano di inventarsi come tali. Gary è un attore che usa il suo charme per concupire qualsiasi bella ragazza gli capiti a tiro, ma che a sua volta è vittima dell'avvenenza altrui, cosa che lo porta ad avvicinarsi al business dei materassi ad acqua. E' un ragazzo dalle grandi ambizioni, ma dalla testa saldamente piantata tra le nubi e ancora ancorato a quella spensieratezza propria dell'immaturità.
Da qui la scelta: restare ancorata alla freschezza dell'adolescenza o fare un passo avanti verso la maturità? Entrambe le scelte hanno dei lati negativi, ma Anderson è chiaro: meglio la scelta che comprende un sentimento vero. Quello tra Gary e Alana è, alla fin fine, vero amore, non pura attrazione, quanto perfetta comunione, nonostante la differenza d'età. Se crescere significa arrivare ad un compromesso con sé stessi, divenire falsi, fasulli, persone vuote e piene solo di sé, tanto vale continuare a vivere in un'adolescenza cosciente, dove per lo meno le emozioni e i sentimenti sono sempre autentici.


Il che ovviamente non porta ad un'idealizzazione dell'adolescenza. Anche i ragazzi sono, né più nè meno, ragazzi, giovani persone che seguono i propri istinti e che fanno di tutto per appagarli.
Gary, in questo, oltre ad esserne il prototipo è al contempo il perfetto americano, un giovane imprenditore che, come il Daniel Plainview di "There will be Blood", usa il capitalismo come mezzo di affermazione personale, come per costruirsi un'identità che sia "altra" rispetto a quella del giovane artista.



Anderson conduce il tutto con mano sicura, creando il suo film più "classico", dove tutto è subordinato alla storia e la macchina da presa si muove solo quando deve. Laddove il titolo ("pizza alla liquirizia") è uno slang per indicare gli lp, con coerenza magnifica usa le canzoni d'epoca per descrivere le azioni e i pensieri dei personaggi, mentre ammanta il tutto con un umorismo sarcastico a tratti irresistibile. Il risultato è uno stile agile, ma anche fermo, dinamico e al contempo trattenuto, sempre sul pezzo ed efficace.
E "Licorice Pizza" è l'ennesima prova riuscita nella sua filmografia, una commedia agrodolce solo in apparenza semplice ma lo stesso incredibilmente divertente.

mercoledì 23 marzo 2022

Nosferatu il Vampiro

Nosferatu, eine Symphonie des Grauens

di F.W. Murnau.

con: Max Schreck, Alexander Granack, Greta Schroeder, Gustav Von Wangenheim, Georg H.Schnell, Ruth Landshoff.

Horror

Germania 1922












Ad oltre un secolo dalla nascita dell'esperimento dei fratelli Lumière, la famosa "arte senza un futuro" che un futuro lo ha avuto eccome, cominciano gli anniversari secolari delle prime pellicole davvero importanti. "Nosferatu", sotto questo profilo, non è di certo la prima pietra miliare filmica ad aver spento le cento candeline negli ultimi anni, basti pensare a pellicole persino più influenti come "Cabiria", "Viaggio sulla Luna" o "Nascita di una Nazione"; ma il capolavoro di Murnau può di certo vantare un primato purtroppo ignoto a questi ultimi, ossia l'essere ancora oggi perfettamente saldo nella memoria popolare e, ancora prima, l'aver trasceso lo status di opera filmica per divenire icona popolare.
Celeberrime e immortali sono quelle immagini del conte Orlok che emerge dalla botola della nave, la sua ombra minacciosa che si staglia sulla parete mentre si avvicina alla vittima o la sua tragica morte dinanzi alla luce del sole. Così come celeberrimo è il look del mostro, unico e immediatamente riconoscibile, oramai vera e propria icona pop.




Eppure la mera esistenza del film è già di per sé stessa un miracolo. Murnau, di fatto, non possedeva i diritti di sfruttamento del "Dracula" di Stoker quando diresse il film e per questo ha tentato di evitare eventuali azioni legali cambiando i nomi dei personaggi (da cui il celebre "Graf Orlok" in sostituzione di Vlad Dracula), cosa che però non ha fermato gli aventi diritto che, vinta una causa, chiesero ed ottennero la distruzione di tutti i negativi del film; a salvarsi, fortunatamente, sono state solo poche copie in possesso di alcuni esercenti, tutt'oggi i soli master da cui sono sviluppate praticamente tutte le versioni esistenti del film.
E l'auta mitologica di "Nosferatu" non è certo cosa recente, basti pensare al mistero di Max Scheck, l'interprete del vampiro, a lungo creduto come individuo misterioso, il cui nome è traducibile in "massimo terrore" e che secondo le leggende altri non sarebbe che lo stesso Murnau sotto pseudonimo; tanto che nel 2000, l'autore di "Begotten" Edmund Mehrige decise di omaggiare questa credenza in "L'Ombra del Vampiro", dove si immagina Schreck come un vero succhiasangue.
Eredità a parte, "Nosferatu" ha ancora oggi già per sé stesso ottimi motivi per essere riguardato.




Nella sua messa in scena, nella costruzione delle immagini e nella potenza che ne deriva, il capolavoro di Murnau non ha perso nulla rispetto a cento anni fa. Fedele alle istanze dell'Espressionismo filmico proprio del cinema tedesco dell'epoca, la regia usa ombre e linee geometriche per tagliare l'iqnuadratura in vari elementi, creando vere e proprie "immagini dentro immagini" che generano un generale senso di inquietudine, primo avviso del terrore ravvisabile d ogni visione. 
Espressività estrema che è ancora oggi invidiabile, propria di tanti capolavori del muto che ancora oggi risultano per questo moderni ed estremamente godibili. Tanto che basta paragonare il lavoro di Murnau a quanto fatto nove anni dopo dal pur bravo Todd Browning nel suo celebre "Dracula" del 1931 per accorgerci di come un'opera più vecchia sia invecchiata meglio: laddove quello di Browning è vero e proprio teatro filmato, quello di Murnau è cinema al 100%. 
Senza contare come molti dei "trucchi" usati all'epoca per suscitare meraviglia risultano ancora oggi meravigliosi. Basti pensare all'uso dello stop-motion per creare l'effetto delle bare che si muovo o all'imaggine virata al negativo per ritrarre il castello maledetto del conte; scelte stilistiche che datano irrimediabilmente il film, ma che trasudano al contempo un immane charme.




La figura del vampiro in "Nosferatu" si rifà in parte al romanzo originale ed è distante anni luce da quanto verrà fatto in futuro in tutte le sue successive incarnazioni. Se Bram Stoker descriveva il conte come una figura dall'aura sinistra e dall'aspetto sottilmente mostruoso e la tradizione filmica successiva ha sempre bene o male teso a ritrarlo come un nobiluomo affascinante, talvolta sfacciatamente sexy, il conte Orlok è l'esatto opposto, una creatura mostruosa, che di umano ha solo una vaga apparenza, con un viso demoniaco ed un corpo torreggiante, una vera e propria fiera dalle movenze sghembe, goffe e proprio per questo sinistre sino al diabolico. Più che un nobiluomo che brama la vita tramite il sangue, è un demone che si aggira per l'Europa come uno spettro che porta con sè una scia di morte, incarnata dalla peste, il che lo rende una sciagura, una piaga biblica pronta a divorare e distruggere qualsiasi cosa gli si pari innanzi.



"Nosferatu" resta così tutt'oggi un'opera magnifica, dalle immagini ancora potenti e sorprendenti, un capolavoro che ha perso davvero poco della sua forza nell'arco di cento di anni e che oggi come ieri riesce ad incantare.

RoboCop

di Paul Verhoeven.

con: Peter Weller, Nancy Allen, Kurtwood Smith, Miguel Ferrer, Ronny Cox, Dan O'Herlihy, Robert DoQui, Ray Wise, Paul McCrane, Felton Perry.

Fantascienza/Azione/Cyberpunk

Usa 1987

















Essere la perfetta metafora dello zeitgeist e al contempo una rappresentazione profetica del futuro non è certo uno status facile da ottenere per un'opera fantascientifica; le visioni futuribili, si sa, sono sempre influenzate dai tempi e dalle mode e possono spesso rilevarsi brillanti, ma improbabili. Eppure ancora oggi, a 35 anni dalla sua uscita in sala, il futuro di "RoboCop" è più vicino alla realtà di quanto si si voglia ammettere: megacorporazioni che fanno a gara per creare un prodotto in grado di ridefinire l'indusria mentre acquisiscono sempre più potere politico, con le grandi metropoli divenute i loro parchi giochi. Città industriali ridotte alla rovina dalla speculazione, con la microcriminalità che ne devasta le strade mentre la polizia, pur brutale, non riesce a mantenere l'ordine; la corruzione dilaga e persino il corpo umano finisce per divenire un prodotto da vendere, ultimo terreno di conquista di un capitalismo che cannibalizza tutto ciò che vuole. 




Se ieri tutto questo era pura fantascienza, oggi è realtà: proprio la città di Detroit si è desertificata a seguito della crisi economica del 2008 e, per ridare la speranza ai cittadini, una statua del Robopoliziotto di Verhoeven e soci è comparsa come simbolo di ottimismo per il futuro. I magnati delle corporazioni oramai giocano con il destino del mondo, mentre cercano di acquisire sempre più potere sulla vita delle persone, visto che quello politico è oramai loro garantito dalla forte influenza economica. Mentre il corpo, non ancora ibridato dalle lamiere degli arti cibernetici, è anch'esso strumento di scambio, nella realtà solo sul piano virtuale, unica novità che non era stata preconizzata nel film.
E pensare che una pellicola così influente e riuscita ha quasi rischiato di non vedere il buio della sala.




Tutto comincia da un'idea dello sceneggiatore Edward Neumeier; impegnato come aiuto sul set di "Blade Runner", immagina di rovesciare la storia del film: anzicché di avere un poliziotto umano che insegue dei criminali androidi, il protagonista di questa sua idea è un poliziotto cyborg che da la caccia a criminali umani, sempre sullo sfondo di una metropoli cyberpunk.
Idea che si appaia alla sua volontà di portare su schermo l'iconico Judge Dredd di John Wagner, ossia un tutore della legge intransigente e inarrestabile che persegue il crimine con pugno di ferro, in un mondo allo sbando. Ma la produzione dell'adattamento del cult della 2000AD si concretizzerà solo nel decennio successivo; Neumeier decide così di fondere le due idee e creare un proprio poliziotto di ferro, rifacendosi in parte anche al manga di Hirai Kazusama "8 Man": con l'aiuto di Michael Miner nasce così lo script di "RoboCop", subito venduto alla Orion Pictures, che dopo il successo di "Termiantor" fiuta subito il potenziale di un'altra pellicola sci-fi con protagonista un robot ultraviolento.
Comincia così la ricerca di un regista in grado di dare forma al concept. Tra tutti, l'unico che sembra interessato è niente meno che Monte Hellman, il quale però si defila all'ultimo momento dalla cabina di regia, restando ancorato alla produzione come regista della seconda unità e finendo per avere un ruolo attivo sul (caotico) set. 
Paul Verhoeven, all'epoca reduce dal suo esordio in lingua inglese "Flesh + Blood" del 1985, non è interessato: letto il titolo, a suo dire ridicolo, della sceneggiatura, finisce per gettarla letteralmente nel cestino dell'immondizia; leggenda vuole che sia stata sua moglie a convincerlo a recuperarla e leggerla. Accettato il ruolo di regista, l'autore belga fa suo il materiale di base e lo eleva all'ennesima potenza, trova in Peter Weller il perfetto interprete per il cyberpoliziotto di Detroit e, con l'aiuto di un Rob Bottin al solito geniale, crea un indelebile pezzo di narrativa fantascientifica.



"RoboCop" è, alla sua base, una satira della reaganomic imperante, una maschera deformata del presente che si fa monito per il futuro. Alex Murphy, la sua morte e la sua rinascita altro non sono che un meccanismo del gioco di potere all'interno della OCP, impegnata nell'ultima frontiera dell'industria, ossia la privatizzazione della polizia. Il tono sarcastico sfocia gloriosamente nel grottesco per dipingere in modo feroce un mondo in cui la vita umana non vale nulla, come nella scena del test dell'ED209 (creatura del geniale Phil Tippett, che ne cura anche le belle animazioni in stop-motion): un impiegato a caso viene usato come cavia, massacrato dai cannoni della macchina in un bagno di sangue, ma la sua morte non turba i vertici dell'azienda, decisamente più preoccupati dalle scarse prestazioni del robot.
Il futuro di "RoboCop" è disumanizzante: gli uomini hanno perso ogni forma di empatia, cercano solo di affermare sé stessi in modo violento, trionfare sul prossimo come cavernicoli in uno "stato di natura" mascherato da civiltà, siano essi i criminali di strada guidati dal mefistofelico Clerence Brodicker o i colletti bianchi del suo mandante Dick Jones.




Futuro che altro non è se non una distopia grottesca nella quale tutto è esagerato, pompato al massimo volume fino all'iperbole; è, in pratica, il presente degli anni '80 sotto steroidi e per questo è riuscito ad essere profetico. 
Lo strapotere delle aziende e lo squallore della speculazione sono affiancati ad una telecrazia nella quali mezzi busti sorridenti riportano notizie di violenza esasperante in modo gioviale, ripulendone i dettagli più macabri per servirle al pubblico come uno spettacolo serale, mentre spot pubblicitari aggressivi declamano prodotti sempre più sgargianti e inutili, volti a de-umanizzare ulteriormente un essere umano che è visto come mero acquirente o utente. L'uso del discorso diretto, in questo caso, riesce davvero ad esaltare la portata satirica di questi show di bonaria spettralità, suscitando una risata isterica ad ogni apparizione.




In tutto questo, RoboCop è il futuro, una macchina in grado di sconfiggere la criminalità per rendere più sicure quelle strade pronte ad essere riqualificate e gentrificate dai potenti, mentre nulla può contro questi ultimi, scudati dalla famosa "direttiva 4", sovversione tragicomica delle leggi della robotica di Asimov che impedisce alla legge di perseguire un dirigente corporativo.
Ma "RoboCop" ha anche un centro emotivo ben preciso. Nelle intenzioni di Verhoeven, quella del protagonista è per prima cosa una metafora cristologica: Alex Murphy è il Gesù americano, che dopo essere stato messo in croce dai malvagi risorge dalla tomba per portare una "giustizia americana", che in quanto tale non concerne il perdono, ma la vendetta violenta contro i trasgressori, massacrati a cannonate senza appello.
Al di là di questa divertente "lettura d'autore", quella di Murphy è una parabola di riscoperta della propria umanità. Divenuto un mostro di Frankestein futuribile, l'uomo dentro la macchina ritrova la propria umanità e la propria identità, riacquistando lo status di persona dopo essere stato de-umanizzato per fini commerciali, in un trionfo dello spirito umano sulla mercificazione.




Verhoeven vira tutto all'eccesso. Il sottotesto satirico viene ben cucito all'interno di una confezione di puro genere, con inseguimenti e sparatorie ottimamente coreografate.
La violenza è deflagrante, tanto che lui stesso ammetterà di aver tentato di creare il film più violento mai fatto. Lo splatter è talmente esagerato da divenire folle, grottesco, come quello di una commedia horror dell'epoca e sfocia facilmente nel parossistico, come nella morte di Paul McCrane, trasformato in una sorta di mutante dalle sostanze e chimiche e letteralmente spiaccicato da una macchina, omaggio di Rob Bottin al suo lavoro svolto in gioventù sul set di "The Incredible Melting Man" e che qui dona al tutto una nota ancora più esagerata. Ma quando il gore deve colpire duro, riesce perfettamente nell'intento, come nella celebre sequenza della morte di Murphy, in cui il corpo dell'agente viene letteralmente smontato un pezzo alla volta dai cattivi, in un tripudio di arti amputati e grida di dolore strazianti.




E proprio il lavoro di Bottin merita un elogio a parte, a partire dal design di RoboCop. Basato in parte su quello di "Rom the Space Knight" della Marvel (che infatti appare sugli scaffali nella scena della rapina al minimarket) è la perfetta sintesi di uomo e macchina, un robot dal volto umano la cui carne è stata letteralmente avvolta dall'acciaio per diventare una sorta di carro armato umanoide dalle linee ancora oggi moderne e graffianti. Senza contare, poi, gli ottimi effetti splatter, disgustosi e dettagliatissimi.



Tanto che alla fine ci si chiede davvero in cosa questo stracult cyberpunk sia invecchiato; sicuramente gli effetti speciali in stop-motion lo datano irrimediabilmente come figlio della sua era; e quell'ultimo effetto speciale, il pupazzo di Dick Jones che precipita dalla finestra, già all'epoca della sua produzione era sotto gli standard qualitativi, unico neo in una produzione dagli ottimi valori produttivi.
La verità è che "RoboCop" non è invecchiato affatto, è una di quelle pellicole dal valore sempiterno che, almeno sino ad oggi, risultano perfettamente godibili e attuali. Record davvero non da poco.

mercoledì 16 marzo 2022

Cyrano

di Joe Wright.

con: Peter Dinklage, Haley Bennett, Kelvin Harrison Jr., Ben Mendelsohn, Monica Dolan, Bashir Salahuddin, Joshua James, Anjana Vasan, Ruth Sheen.

Drammatico/Musical

Regno Unito, Usa, Canada 2021

















Il potenziale latente di ogni musical è la capacità, propria della musica in generale, di amplificare le emozioni e far loro raggiungere un livello di intensità che la prosa, da sola, a volta è incapace di ottenere. Viceversa, quando la componente musicale in un musical non è all'altezza del testo, può arrivare a depotenziare prepotentemente storia e personaggi, appiattendoli sino alla spersonalizzazione. E' ciò che succede (per fortuna solo in parte) nel "Cyrano" di Joe Wright, autore inglese perennemente alle prese con film in costume e adattamenti letterari che questa volta non traduce su schermo l'orignale testo di Rostand, ma il suo adattamento musicale off-Broadway del 2019 ad opera di Erica Schmidt, riprendendo dal teatro un bravissimo Peter Dinklage, senza però rendere giustizia all'opera originale.


L'adattamento della Schmidt è alquanto "inusuale"; per prima cosa, cassa totalmente la forma in rima per traslare i dialoghi in una prosa totale, il che è anche alquanto inspiegabile visto che la rima baciata avrebbe aiutato la transizione dai dialoghi alle canzoni; strana scelta stilistica a parte, questo adattamento decide di rabbuiare i toni dell'opera originale eliminando i passaggi più umoristici: non ci sono più i battibecchi tra il fornaio aspirante poeta e la più empirica moglie o la gag dell'uomo della luna; la storia si concentra così del tutto sul dramma della relazione a tre tra Cyrano, Rossana e Cristiano, aggiornata agli standard del politicamente corretto, ravvisabili non tanto nella "etnicizzazione" di uno dei protagonisti, quanto nel fatto che ora Cyrano e Rossana non sono più consanguinei e la famosa scena della gara di insulti è anch'essa stata obliata. Scelte discutibili, ma tutto sommato innocue.
Laddove l'adattamento non funziona è, fatalmente, nella sua parte musicale.



Assistere ad un incipit in cui Rossana canta di sognare un principe che le doni il vero amore avvicina mostruosamente questa versione del "Cyrano de Bergerac" ad un film Disney, con la bella principessa, l'aitante principe ed un terzo incomodo brutto ma dal cuore d'oro. Orride reminiscenze a parte, tutte le canzoni sono afflitte dal classico difetto dei musical moderni, ossia la totale mancanza di mordente, sia nelle melodie che nei testi. Nessun pezzo riesce davvero ad emozione, né a coinvolgere e la storia, di conseguenza, arriva persino ad essere schiacciata da un uso del registro musicale che finisce per stemperarne la portata drammatica, anzicché aumentarla. Non è un caso che l'unica canzone davvero riuscita sia la bella "Wherever I fall", confinata, però, ad una scena quasi del tutto incosequenziale per la storia e persino cantata da personaggi secondari.




La regia di Wright non brilla certo per originalità, ma riesce tutto sommato a rendere giustizia alle belle location siciliane e al lavoro degli attori; tant'è che, come sempre, sono sempre questi ultimi a salvare la visione, capitanati da un Peter Dinkalge che torna a cantare dopo gli esordi come frontman di un gruppo musicale negli anni '90 e che dimostra di non aver perso un grammo di talento. Il resto, purtroppo, è pura routine.

lunedì 14 marzo 2022

Belfast

di Kenneth Branagh.

con: Jude Hill, Lewis McAskie, Caitriona Balfe, Jamie Dornan, Judi Dench, Ciaràn Hinds, Josie Walker, Nessa Eriksson.

Biografico

Regno Unito 2021














La classica trappola dei film autobiografici risiede nell'idealizzazione dei fatti, dei luoghi e, maggiormente, del periodo storico, che filtrato attraverso l'occhio della memoria può sembrare migliore di ciò che è effettivamente stato e sembrare, su schermo, una rappresentazione falsa e ruffiana. E' quello che accade, da sempre, nel cinema di Giuseppe Tornatore, con la Sicilia del Secondo Dopoguerra che diventa un luogo magico, dove tutti sono belli, simpatici e allegri e nella quale non esistono ingiustizie o brutture di sorta. E' altresì il rischio che avrebbe corso Branagh nella sua ricostruzione "amarcordiana" della Belfast del 1969. Ma che, per fortuna, evita.


E proprio dal cinema di Tornatore sembra uscire quell'incipit: la macchina da presa si muove libera per la stradina, l'ideale "palco" delle vicende, mentre gruppi di bambini in bretelle e calzoni corti corrono spensierati per la strada, come in preda ad una gioia isterica. Se non fosse che, di punto in bianco, la Storia irrompe nel racconto: le proteste contro i Cattolici infiammano il quartiere, mettendo tutto a ferro e fuoco. Da qui una distinzione, quasi una dichiarazione: "Belfast" è sicuramente la materia del ricordo, ma questo ricordo non è per forza di cose dolce. Per quanto a Tornatore si ritorna nella prima scena del cinema, con il primo piano del protagonista che omaggia l'inquadratura più famosa di "Nuovo Cinema Paradiso".


Il punto di vista è quello di Buddy (Jude Hill), doppio di Branagh che assiste alle gioie e ai dolori della famiglia, dai problemi economici alla scoperta dell'amore, dalla passione per il cinema popolare al rapporto con i nonni, tutto è come da copione. Ma è la genuinità a rendere il tutto simpatico, oltre che l'ironia. La religione viene dipinta come mostruosa e la scena del predicatore, da sola, vale forse l'intera visione, anche se la sottotrama che genera non viene purtroppo risolta.
La struttura è quella episodica propria di molti biopic, con piccole scene che incapsulano dapprima la storia di famiglia, in secondo luogo la storia dell'Irlanda del Nord dell'epoca, con la recessione che miete le vittime, la minaccia dei gruppi armati e la guerra civile. Branagh non si sbilancia con il registro drammatico e lascia il racconto sempre asciutto, affidandosi alle ottime doti del cast e agli ottoni di Van Morrison per comunicare le emozioni.


Il racconto scorre bene, ma quando, nel climax, si decide di risolvere uno dei conflitti in modo ironico, la sospensione dell'incredulità crolla, così come ogni pretesa drammaturgica. Per fortuna, il resto bene o male funziona, grazie anche alla bellezza delle immagini, plastiche e ricercatissime, in un'opera tutto sommato riuscita, ma purtroppo mai davvero memorabile.

R.I.P. William Hurt


 
1950 - 2022

Negli anni '80 il suo è stato praticamente il volto del cinema d'autore americano. Lanciato da Ken Russell, consacrato da Lawrence Kasdan, William Hurt è stato protagonista di alcuni dei drammi più intensi del periodo, arrivando persino a vincere l'Oscar nello splendido "Il Bacio della Donna Ragno".
Nel corso degli anni si è poi dedicato anche a pellicole commerciali, ma il ricordo resterà per sempre ancorato ai suoi ruoli più impegnati, i quali hanno davvero segnato un'era.

venerdì 11 marzo 2022

Amour Braque- Amore Balordo

L'Amour Braque

di Andrzej Zulawski.

con: Sophie Marceau, Francis Huster, Tchéky Karyo, Christiane Jean, Jean-Marc Bory, Michel Albertini, Said Amadis, Roland Dubillard.

Francia 1985















Spesso l'ispirazione muta in qualcosa di diverso, anche solo formalmente, da quanto inizialmente concepito. E' il caso di "L'Amour Braque",  quarto lungometraggio francese di Andrej Zulawski, oramai naturalizzato transalpino, che parte come adattamento de "L'Idiota" di Dostoevsky per divenire un'opera diversa, più radicale, sempre ancorata ai topoi del suo cinema che qui però si fanno ancora più estremi, forieri di uno stile ancora più surreale e febbrile. E grazie al quale il grande artista incontra Sophie Marceau, poi moglie, musa e feticcio.


Anni '80. Léo (Francis Huster) è un immigrato ungherese che su un treno per Parigi si imbatte per caso in Micky (Tchéky Karyo) e la sua banda di criminali. Travolto dall'incontro, il giovane inizia a fare comunella con il gruppo, il che lo porta ad incontrare la giovane e bellissima Mary (Sophie Marceau), donna di Mickey ma della quale si innamora perdutamente, anche ricambiato; il che sarà il preludio di un pandemonio ineluttabile.


"L'Amour Braque", mai come prima, è caos, flusso di emozioni violente riversate con foga su pellicola, un getto disperato d'amore, odio, frustrazione e lussuria, un movimento spasmodico incontrollato che corre per 101 minuti senza freni, senza volontà motivante o stringente, senza volersi aprire mai davvero ad una lettura precisa, coerente, sintetica o analitica che possa essere. E', come nel cinema surrealista più intransigente e sperimentale, puro flusso di coscienza selvaggio e scatenato. E tanto basterebbe per liquidarlo come un film velleitario, compiaciuto, inutile esercizio di stile di un artista che ha già e meglio dimostrato il suo talento e che qui non fa che giocare con ispirazioni, intuizioni e influenze.
Sarebbe corretto? Decisamente. Sarebbe esaustivo? Non proprio. Perché in questo strano "oggetto d'autore" c'è di più di un semplice scherzo illustre, di più di un gioco divertito. Fosse anche solo l'incredibile carisma e bellezza che traspare da ogni fotogramma.



"L'Amour Braque" è volgarità. Volgarità data dalle parolacce, dalle situazioni "sconce", con scene di sesso gratuito e nudi buttati lì a caso. Ma anche una volgarità artistica, con la recitazione sopra le righe di un magnifico Tcheky Karyo, così come di un Michel Albertini talmente sopra le righe da sembrare un Freddie Mercury in botta da cocaina. Volgarità che cela un cuore da polar, con una storia da poliziesco fatta di ricatti e vendette, oltre che l'ispirazione letteraria.
Al centro di tutto, il canonico triangolo amoroso zulawskiano, questa volta spostato verso l'attrazione uomo-donna, piuttosto che sul rapporto a tre. Léo è un amante romantico, che si abbandona alla passione e alla lussuria, venendo manipolato, usato e gettato via, ma che anche volontariamente si lascia trasportare verso la follia delle situazione ("braque" può significare anche "folle" e "bizzarro"), lasciandosi consumare dal desiderio (da cui gli occhi gialli, animalistici e ricolmi di invidia e lussuria frustrata).


Tutto il resto è un vortice incontrollabile di umori, intuizioni e tematiche. Si parte, come sempre, dal teatro, dalla recitazione, dal ruolo giocato negli eventi da ciascun personaggio che si riflette nel ruolo che giocano, questa volta quantomai marginalmente, sul palco del teatro, con una donna schiacciata e sfruttata dalle figure maschili che trova la libertà solo tramite queste. Da qui la dualità con il personaggio di Aglaé (una Christane Jean che fa a gara di sensualità con la Marceau), donna possessiva e ammaliata dal cugino Léo, che arriva a concupire, a trasformare in un pupazzo da possedere e ridefinire a suo piacimento.
Sullo sfondo, il ritratto di una borghesia decadente, persa nella contemplazione del lusso, che si abbandona ai piaceri della carne, con gli intellettuali finto-rivoluzionari tanto imbelli quanto i destinatari delle loro critiche.


Tolti gli imprint del racconto, "L'Amour Braque" è un'opera che vuole vivere sostanzialmente di immagini, di fotogrammi ricercati e movimenti di macchina quasi godardiani nella loro precisione. Un film dove ciò che conta è il sentimento più il pensiero, l'effetto più che il contenuto. Una pellicola impossibile da classificare in modo sicuro e netto anche all'interno di una visione strettamente autoriale, anche al di là di tutti i preconcetti possibili e immaginabili, puro getto d'arte su pellicola che non fa sconti a nessuno, al suo autore in primis. Da cui derivano una magnificenza ipnotica e, soprattutto, una purezza unica. Tanto che si può contestarne la riuscita, ma mai la genuina bellezza. 

martedì 8 marzo 2022

Non Violentate Jennifer

Day of the Woman/I spit on your grave

di Meir Zarchi.

con: Camille Keaton, Eron Tabor, Richard Pace, Anthony Nichols, Gunter Kleemann, Bill Tasgal.

Usa 1978



















Un film come "Non Violentate Jennifer" ("Day of the Woman" o "I Spit on your Grave" che dir si voglia) riesce davvero a sconvolgere. Non solo e non tanto per la storia, un rape & revenge classico già visto all'epoca della sua uscita in sala, né tantomeno per quelle immagini esplicite, quanto e soprattutto perché porta lo spettatore, in particolare quello più scafato, ad interrogarsi su cosa si è davvero visto, su cosa siano effettivamente quelle immagini. Se un film del genere è exploitation cinica e pura o se il suo autore abbia voluto comunicare qualcosa, imprimendo così come ha fatto una costruzione di facile lettura psicoanalitica alle sequenze e alla storia in generale. Può, in sostanza, un film che parla di stupro e mostra lo stupro in modo diretto e integrale davvero essere considerato come un pamphlet contro la violenza sulle donne e sulla giusta vendetta?


Certo è che l'exploit di Mair Zarchi, inizialmente, non ha avuto vita facile proprio a causa di quello che mostra e di come lo mostra. Distribuito per la prima volta nel 1978 come "Day of the Woman", viene ignorato dal pubblico e massacrato dalla critica: Siskel e Ebert, in particolare, lo additano come pessimo esempio di film che mercifica e umilia la figura femminile per il sollazzo del pubblico, mentre la femminista rampante Julie Bindel lo bolla come film misogino.
Due anni dopo, una nuova distribuzione cambia il titolo in "I Spit on your Grave", crea un nuovo poster (che pare ritrarre in realtà una giovanissima Demi Moore) e riporta il film nei drive-in americani e nelle sale del resto del mondo; questa volta la critica è meno severa, il successo non manca e la stessa Julie Bindel afferma come in realtà si tratti di un perfetto film femminista. Tempi che cambiano? Forse, o forse è davvero difficile capire ciò che Zarchi vuole, non vuole o cerca di dire.


La struttura del film ricalca in tutto e per tutto quella di "L'Ultima Casa a Sinistra" e di certo il film di Craven non è stata una mera fonte di ispirazione involontaria, visto che si respira la stessa atmosfera sudicia e malata, mitigata in parte solo dallo stile di regia meno dinamico, forse anche meno rozzo di quello dell'esordiente Craven, ma di certo non altrettanto viscerale.
Jennifer (Camille Keaton, nipote del mitico Buster e poi moglie del regista) è una scrittrice in erba che decide di allontanarsi da New York per passare l'estate in un cottage nel New Jersey. Qui conosce subito un gruppo di ruvidi maschi locali. Colpiti dall'avvenenza della giovane donna, questi decidono di violentarla, il che porterà ovviamente ad una sanguinosa vendetta.
Rape & Revenge nudo e crudo, dove tutto è minimale, dalla regia alle caratterizzazioni dei personaggi, tutto è subordinato alla storia e alla scabrosità delle immagini; filosofia perfettamente condensata nella lunga sequenza dello stupro: circa 25 minuti durante i quali la povera protagonista viene violentata per quattro volte e in quattro modi differenti, sottomessa, ridotta non ad un semplice oggetto da possedere, quanto ad una forma di vita ai limiti del non-umano, un puro corpo, un pezzo di carne da consumare. E già questo approccio può portare ad una prima lettura del film.




L'emancipazione femminile, negli Stati Uniti, è cominciata davvero solo a partire dagli anni '60, ossia nel decennio appena precedente il film. E Jennifer è né più nè meno la perfetta incarnazione di questa donna "nuova", lontana dal concetto arcaico dell'angelo del focolare, della madre o della figura ancillare buona solo a procreare e accudire la prole. E' una donna lavoratrice, per di più intellettuale, che ha avuto diversi partner, prova dell'acquisita libertà sessuale e che non si problemi a vestire in modo succinto, non per provocare chi osserva, ma solo perché non prova vergogna della sua bellezza. Una bellezza quasi eterea, intoccabile, pagana nel suo rappresentare una donna simbolo di naturalezza; non per nulla, in una delle prime scene è lei stessa a spogliarsi e lasciarsi trasportare dalle acque di un fiume, ninfea nell'elemento femminile per antonomasia.



I quattro uomini sono invece la perfetta rappresentazione di un maschilismo arcaico sopravvissuto in quei recessi della società già forieri degli orrori dei cannibali hooperiani e craveniani. Quattro "tipi", ognuno portare di un germe di misoginia preciso, un branco di selvaggi pronti ad inseguire e divorarela preda.
Johnny è il capobranco, maschio alfa, unico lavoratore, quindi nell'ottica capitalistica l'unico vero capo concepibile, uomo che si scoprirà sposato e padre di famiglia, ma il cui status famigliare non gli ha certo imposto un'etica che non comporti l'individualismo e l'affermazione violenta.
Matthew è il maschio omega, il cui handicap mentale lo mette per forza di cose in uno stato inferiore rispetto agli altri, un subordinato usato dapprima come scusa per avviare lo stupro, poi come capro espiatorio per uccidere la vittima, fino a divenire vittima a sua volta della violenza dei compagni.
Stanley ed Andy sono praticamente un unico personaggio, due perdigiorno privi di indole, barbarici e violenti, che cacciano la donna come se fosse un animale, cibo per sfamarsi e concupire in un amplesso violento; laddove lo stupro è sopraffazione e non erotismo, violenza più che esplicitazione sessuale, lo stupro di questi due veri e propri sub-umani è violenza allo stato puro, distruzione sadica di un essere visto come del tutto inferiore, neanche più preda quanto puro corpo da percuotere per il proprio ludibrio.





La pietra dello scandalo, all'epoca dell'uscita come oggi, è data ovviamente dalla lunga sequenza dello stupro, la quale è però più profonda nella sua messa in scena di quanto si possa di primo acchito pensare.
Comincia nella foresta, la selva, la dimora delle creature selvagge, di quella mascolinità ancestrale e violenta che avvelena un elemento tipicamente femminile, ossia la natura, così come la violenza distrugge la femminilità. Al di là della metafora della caccia e della pesca usate per far intrappolare Jennifer dai suoi assalitori, è l'assoluta barbarie di questi a colpire, come invasati da uno spirito arcano che ne disvela la violenza latente.




L'azione poi si sposta in casa e ricomincia con la negazione dell'aiuto, quel calcio verso il telefono usato per denunciare i fatti e che non servirà a nulla. La violenza, come sempre nel cinema americano degli anni '70, non conosce confini, entra nel quotidiano, nel santuario privato delle persone e non si fa remore a trasformalo in un'alcova di depravazione. Non per nulla, Zarchi affermò di aver avuto l'idea del film da un episodio capitatogli a Manhattan: l'incontro con una giovane donna, violentata e picchiata a sangue, con la mascella spaccata. Prestatole i primi soccorsi, l'autore e gli amici denunciano l'accaduto, ma i poliziotti accorsi si preoccupano più della deposizione che dello stato di salute della vittima, arrivando persino a negare i soccorsi medici. Da qui la visione di un'autorità incomprensiva e priva di empatia, oltre che della bestialità degli assalitori e di una violenza strisciante all'interno di una moderna metropoli.
Soprattutto, Zarchi ha un'intuizione che avrà fortuna e riesce davvero a disturbare: usare la soggettiva della vittima intercalata alle inquadrature oggettive della violenza, costringendo lo spettatore a subire ciò che lei subisce, evitando così anche solo per pochi istanti il potenziale spettacolare dello stupro.




Nei momenti immediatamente successivi alla sevizia, troviamo una Jennifer silenziosa, che si ripulisce dal sudiciume e prova a ritornare alla normalità, cercando quasi di far finta di niente, obliare quella violenza subita, archiviarla come un episodio ininfluente. La sua figura non è più quella di una ninfea che mostra con orgoglio il suo corpo, quanto essere distrutto dagli eventi che si copre come vergognandosi di quella femminilità un tempo mostrata con orgoglio e che forse, inconsciamente, biasima, a torto, come causa dello stupro.



L'esecuzione della vendetta porta poi ad ulteriori metafore a seconda delle "vittime".
Si comincia con Matthew, in apparenza il più innocente; per adescarlo, Jennifer fa ricorso platealmente all'archetipo freudiano della Madonna/puttana: nella sua semplicità, l'uomo concepisce la donna solo come santa e intoccabile o al suo estremo opposto, ossia come meretrice; il che è ovviamente una visione distorta, che riduce la persona ad un ruolo, una maschera più che un essere umano. Ed è proprio questa maschera immediatamente riconoscibile che il più "semplice" del gruppo riconosce e del quale resta ammaliato.
Johnny, il capo, viene a sua volta manipolato e qui la regia mostra sicuramente il fianco ad una spettacolarizzazione della violenza che si poteva evitare. Dapprima minacciato da una pistola, l'uomo non riesce a concepire la donna e vittima come vera minaccia e giustifica le sue azioni come reazioni alla femminilità, il classico ritornello per cui è la vittima ha ricercare la violenza. Da cui l'esecuzione vera e propria tramite l'agghiacciante scena dell'evirazione; ed è anche inutile sottolineare come il torto venga restituito privando il carnefice dello strumento identificante il proprio status.
Stanley ed Andy, le bestie, vengono uccisi come animali, appunto, uno "pescato" dopo essere stato dileggiato, l'altro stroncato da un colpo d'ascia, come un cinghiale selvatico, ripagati con la stessa moneta che hanno usato per rendere più turpe un atto già di per sé stesso vile e vomitevole.



Laddove la lettura del film è agevole, occorre chiedersi, come si diceva in apertura, se davvero ciò ne giustifica l'efferatezza: è davvero giusto mostrare in modo così esplicito la violenza?
Forse, invece, la vera domanda è un'altra, ossia quali "benefici" porta una rappresentazione così diretta della violenza?
Ed è la risposta più ovvia ad essere la più corretta: il ribrezzo e la catarsi. Solo l'orrore più puro può restituire la dimensione effettiva della mostruosità dello stupro (e della violenza in generale): da qui l'estrema efficacia di una rappresentazione orrorifica, rispetto soprattutto ad una più sottile, velata o addirittura non diretta. E se si tiene conto di come il film Zarchi sia effettivamente disturbante, sgradevole e genuinamente sporco, si comprende appieno la sua riuscita.


Su quanto ci sia di effettivamente voluto è poi discutibile; dato il carattere "biografico" della storia, il regista ha sicuramente avuto le migliori intenzioni nello scrivere e dirigere il film. Ma quando si è deciso di trasformare il film in marchio, dopo la sua riscoperta negli anni 2000, con un remake, due sequel del remake ed un recente sequel diretto, forse si è cercato di sfruttare quella cattiveria in modo non genuino, puramente speculativo. Ma questo primo film è duro e grezzo, non ha fini strettamente commerciali, per questo resta ancora puro nella sua volontà di sconvolgere. E tanto basta per renderlo quantomai memorabile.