martedì 26 aprile 2022

The Northman

di Robert Eggers.

con: Alexander Skarsgaard, Anya Taylor-Joy, Nicole Kidman, Ethan Hawke, Willem Dafoe, Claes Bang, Eliott Rose, Gustav Lindh, Phil Martin, Eldar Skar, Bjork.

Avventura /Azione/Epico

Usa 2022













Con appena tre film all'attivo, Robert Eggers si conferma come un cineasta dal valore incommensurabile. E al suo primo film ad alto budget, questo "The Northman", sfoggia una carica visionaria certamente meno dirompente di quella vista nel precedente "The Lighthouse", ma lo stesso incredibile e riesce a dare vita ad un'epica trascinante, perfetta sintesi, nelle sue parole, di "Andrej Rubilev" e "Conan il Barbaro".


Proprio il piccolo capolavoro di John Milius viene più volte alla mente durante la visione. Non per nulla, "The Northman" altro non è che un'epica vichinga che riprende la leggenda del principe Amleth, famosa per aver ispirato Shakespeare ma che sicuramente anche Milius aveva presente durante la riscrittura delle avventure del Cimmero di Robert E.Howard, tanto che il film di Eggers può quasi esserne considerato il remake non ufficiale.
Tra la fine del IX e gli inizi del X secolo d.C., il giovane principe vichingo Amleth (Skarsgaard) giura vendetta contro lo zio Fjolnir (Cleas Bang), il quale ha usurpato il trono uccidendo il padre Aurvandil (Ethan Hawke) e sposandone la madre Gudrn (Nicole Kidman). Una trama archetipica, che nella sua costruzione non si discosta più di tanto dal mito. Se non fosse per un'eseuzione in sede di script che ne ricalibra totalmente la portata.


Assieme a Sjon, Eggers, ricrea l'Amleto fondendone gli elementi fondamentali con altri drammi del Bardo. Il giullare di Willem Dafoe arriva direttamente dal "Re Lear", con il suo ruolo di "amico fidato" del re e anticipatore degli eventi; la veggente interpretata da Bjork altro non è se non una rielaborazione delle streghe del "Macbeth", profetizzando all'eroe il duo destino ineluttabile. e sempre dal "Macbeth" sembra arrivare il personaggio di Gudrun, più vicina alla Lady Macbeth machiavellica che alla regina Gertrude vittima degli eventi. Allo stesso modo, tornano riferimenti alla mitologia norrena rinarrati in chiave originale. La testa di Willem Dafoe è una sorta di reincarnazione del dio Mimir, mentre i corvi di Votan osservano tutte le vicende.


Il mondo in cui si muove Amleth è una sorta di limbo perso tra la verosomiglianza storica ossessiva e il mito più puro, tra realtà e visione, tra cielo e terra e il Valhalla. Eggers, come sempre, ricrea il passato in modo certosino, arrivando persino a far indossare alla sua valchiria un apparecchio per i denti perché, a quanto pare, in uno scavo archeologico più unico che raro è stato ritrovato lo scheletro di una vergine dello scudo con la dentiera adornata da pietre preziose. Il melodramma cede spesso così il passo alla Storia ed entrambe vengono fagocitate dalla rappresentazione espressionista di una psiche a suo modo deviata, persa nell'ossessione di una vendetta incrostata da suggestioni mitologiche. Con la conseguenza che sebbene la storia sia narrata in modo classico, con una canonica struttura in tre atti inedita nel cinema di Eggers e non più come un crescendo, la struttura è lo stesso ricca di suggestioni che spezzano la linearità del racconto.


"The Northman" è, sostanzialmente, mito che si fa Storia per poi tornare ad essere mito. Una leggenda alla base della più famosa tragedia mai scritta che viene re-iscritta in coordinate storiche ricercatissime solo per ritrovare una dimensione leggendaria grazie alla scelta di deviare la psiche di un protagonista assoluto. E lo stato epico degli eventi trova una forma filmica atleticamente raffinata, fatta di movimenti di macchina perfetti al millimetro, carrelli misurati che donano una dinamicità totale ad un racconto fatto di carne e fango, di corpi che si scontrano e viscere esposte.
Un'epica mitica che trova una sua profondità nel momento in cui gli autori decidono di questionare lo status morale e mentale del loro protagonista. Amleth è un uomo cinto dal destino, da un fato di vendetta in realtà autoimposto (il mantra che recita sin da bambino), ma che ben potrebbe abbandonare per trovare una propria dimensione umana lontana dal ciclo della violenza. Perso nella contemplazione della vendetta, immerso nella violenza più bieca, accecato dalle suggestioni religiose pagane, il buon guerriero decide invece di proseguire nei suoi intenti, di abbracciare il suo destino... tradendolo al contempo, quando decide di abbandonare la sua prole per allontanare loro dalla violenza, in un'ultima visione che regala un accenno di speranza per i posteri. Quella di "The Northman" è così un'epica che sugella e tradisce la tradizione, riuscendo ad essere contemporaneamente moderna e smaccatamente classica.


Eggers si conferma così come un cineasta sorprendente e "The Northman", benché meno coraggioso dei suoi precedenti lavori, è lo stesso un'opera magnifica e magnetica.

venerdì 22 aprile 2022

La Scelta di Anne- L'événemenet

L'événemenet

di Audrey Diwan.

con: Anamaria Vartolomei, Kacey Mott Klein, Luàna Barjrami, Louise Orry-Diquèro, Louise Chevilotte, Pio Marmai, Sandrine Bonnaire, Leonor Oberson, Anna Mouglalis.

Drammatico

Francia 2021











La scelta di premiare l'impegno all'interno dei circuiti dei festival non sempre paga, come persino la cerimonia degli Oscar oramai insegna. Certo, quando una pellicola decide di prendere di petto una problematica attuale, è sacrosanto riconoscerne il valore sociale, talvolta anche a prescindere da quello artistico. Ma quando, viceversa, il valore sociale è scontato, diventa davvero difficile capire la volontà dietro al premio. 
E' il caso di "L'événement", Leone d'Oro all'ultimo Festival di Venezia, che mostra uno spaccato, pur convincente, di un realtà oramai lontana, ossia quella legata alla gravidanza nella Francia dei primi anni '60, riuscendo a dimostrarsi credibile, ma anche irrimediabilmente datato e privo di vero interesse.



Dal romanzo omonimo di Annie Ernaux del 2003. Francia, 1963; Anne (Anamria Vartolomei) è una brillante studentessa di lettere, la cui vita viene distrutta dalla notizia della gravidanza. Gradualmente la sua salute mentale deteriora, mentre risulta impossibile rivolgersi ad un medico per abortire.




L'anno in cui la vicenda prende le mosse è essenziale. Prima della rivoluzione sessuale, prima del cambiamento dei costumi, prima di quel fatidico 1975 in cui l'aborto venne legalizzato Oltralpe, la vita di una giovane donna che non aveva intenzione di portare a termine una gravidanza era un inferno in Terra.
Anne attraversa questo inferno in silenzio, passando per il biasimo delle compagne, il disgusto verso la sessualità esplicita, l'incuranza di un compagno, borghesuccio irredento, del tutto sordo alle sue necessità. E, ovviamente, scontrandosi con l'insesniblità delle istituzioni, ad un muro fatto di incomprensioni sociali e umane prima ancora che istituzionali.
Piano piano le sue ambizioni si estinguono, i suoi interessi scemano, il suo carattere si contrae verso l'asprezza. Una gravidanza che distrugge l'anima, che imbruttisce una persona cosciente di non poter avere più una vita. Non un atto d'accusa verso la gravidanza in sé, quanto verso la fine di quella vita programmata e desiderata che una gravidanza non programmata a sua volta porta con sé, verso la mancanza di una scelta per un'alternativa.




Audrey Diwan si accosta al calvario della sua protagonista in modo delicato, usando la macchina a mano (con le immancabili "nuche d'ordinanza") per seguirne i gesti, spiarne le azioni, cercando uno stile non invasivo che ricrei la veridicità delle scene e della situazioni e riprendendo il tutto con un ormai canonico formato di 1.37:1 per enfatizzare i dettagli di volti e corpi. Il che funziona, ma finisce anche per togliere originalità alla messa in scena, che così trova un motivo d'interesse solo nella solidissima performance di una magnifica Anamaria Vartolomei.
E su tutto vige il fantasma dell'inutilità. Che l'aborto sia una materia scottante allora come oggi è cosa risaputa. Anzi, dinanzi alle problematiche odierne, date da medici obiettori di coscienza e dalla difficoltà di accedervi per via le legali nonostante l'effettiva legalizzazioni, i drammi del passato impallidiscono, poiché almeno non tacciabili di ipocrisia. La volontà di portare in scena una storia propria di una realtà vecchia di sessant'anni risulta così indigesta, inutile e ai limiti del ricattatorio: è facile criticare un passato intollerante e arretrato, soprattutto quando oramai remoto. Ci vuole decisamente più coraggio a toccare i nervi scoperti dell'ipocrisia di tanti medici di oggi.




"L'événement" risulta così non tanto un'opera brutta o malriuscita, quanto estremamente inutile, arroccata in una metafora temporale che lascia il tempo che trova, essendo oramai lontana dalla realtà degli eventi. Ennesimo caso di un film premiato per il solo tema trattato, piuttosto che per il modo in cui lo tratta.

giovedì 21 aprile 2022

X

di Ti West.

con: Mia Goth, Jenna Ortega, Brittany Snow, Kid Cudi, Martin Henderson, Owen Campbell, Stephen Ure, James Gaylyn.

Horror

Usa, Canada 2022














Ti West non ha mai superato la fase vintagexploitation della seconda metà degli anni '00. Un'affermazione esagerata? Forse. Ingiusta? Decisamente no. Perché a ben guardare un film come "X" ben avrebbe potuto essere girato nel 2007 e forse avrebbe persino trovato un pubblico più ricettivo, pregno com'è di riferimenti al cinema exploitation anni '70. E a West questo va benissimo, orgoglioso com'è delle sue fonti di ispirazione e della grana grossa con cui imbastisce tutto. E per dovere di cronaca, questo omaggio al cinema di genere anni '70 bene o male funziona, ma sarebbe stato bello avere qualcosa di più che un semplice atto d'amore al cinema di Tobe Hooper e al porno d'antan.


Anno di grazia 1979. In Texas, il tenutario di night club Wayne (Martin Henderson) decide di diventare un produttore porno. Trovata la perfetta location in una fattoria di proprietà da due coniugi ottuagenari, comincia le riprese di "The Farmer's Daughter", che nelle sue intenzione ne lancerà la carriera, assieme a quella della bella fidanzata Maxine (Mia Goth). Ovviamente non tutto va come previsto.


Proprio l'anno in cui la storia è ambientata è essenziale. Siamo alla fine del decennio che ha sdoganato il porno e che ha visto la rigenerazione del cinema horror americano. Il primo genere sta per passare al home video, abbandonando di lì a poco le sale. Il secondo sta per arenarsi nei territori della ripetizione dello slasher. Entrambi sono accomunati da quella "X" che la MPAA sovente assegna ai loro esponenti per i contenuti offensivi. E se nella società civile la rivoluzione sessuale ha trionfato, nei cuori di molte persone vige ancora una visione "peccaminosa" del sesso, con il predicatore stile Esthus Pirkle che ricorda a tutti come il Signore biasimi la libertà sessuale.


Ma per West non è ovviamente il sesso ad essere peccaminoso, quanto la mancanza dello stesso, l'invidia che un corpo giovane e ancora capace di provare e produrre estasi può generare verso quelle persone che, vuoi per necessità, vuoi per scelta, non possono più provare la catarsi dell'amore fisico.
Da qui l'afflato distruttivo che porta alla carneficina, con l'orrore come reazione al sentimento castrante di chi non può raggiungere l'orgasmo pur provandone ancora un'irrefrenabile voglia. E il body horror dato dalla visione di due corpi cadaverici intenti a congiungersi nell'eros.
La costante dell'erotismo come causa scatenante e mezzo per raggiungere un fine pone così sullo stesso piano sia l'anziana Pearl che la giovane Maxine, con la duplice interpretazione di Mia Goth nei panni di entrambi. Le due non sono che due volti della stessa persona, distanziate unicamente dall'età anagrafica, accomunate da una predilezione per l'orgasmo, così come dalla voracità non solo sessuale, ma anche umana, che le porta a farsi creature predatrici, ognuna a modo loro.
E persino la figura retorica della final girl come vergine viene sovvertita, con la ragazza più "casta" che viene lo stesso punita, anche se è pur sempre la più libertina a fare la fine peggiore.


E West si diverte ad infarcire il tutto con riferimenti cinefili: apre il film con una strizzatina d'occhio a "Sentieri Selvaggi" che gli permette di giocare con il formato dell'immagine, costruisce la storia come una sorta di "The Texas Chainsaw Massacre" con attori porno, ricrea una delle scene di "Psycho", la scena più iconica di "Shining" e usa un montaggio a là "Easy Rider" per anticipare le azioni. Il tutto con la fierezza di un cinefilo hipster nel mezzo del suo elemento naturale.
Per il resto "X" offre pochi motivi di interesse, fermo com'è nella salda volontà di fermarsi all'omaggio, nella pura e semplice volontà di ricalcare con divertimento un modello dato dalla tradizione. Un giochino divertente, ma che lascia fin troppo il tempo che trova.

mercoledì 20 aprile 2022

Morbius

di Daniel Espinosa.

con: Jared Leto, Matt Smith, Adria Arjona, Jared Harris, Tyrese Gibson, Al Madrigal, Zaris-Angel Hator.

Fantastico

Usa 2022

















Quando un film viene definito come "il peggior film Marvel di sempre" sin dai suoi screen-test, le aspettative non possono che essere alte. Questo perché per creare qualcosa di peggio dei due film su Venom, della trilogia su Spider-Man di Jon Watts, di "Spiderman 3", del "Daredevil" di Mark Steven Johnson, dei tre film sui Fantastici 4, di "Ant-Man and the Wasp" o dei primi due film su Iron Man bisogna davvero mettersi di impegno e il risultato non può che essere a suo modo memorabile.
Sfortunatamente, "Morbius" non può vantare neanche questa forma di interesse. Non è di certo un film più brutto di quelli sopra citati, né di tanta altra spazzatura che porta il logo Marvel appiccicato prima dei titoli di testa. E' "semplicemente" il più classico comic-movie moderno, ossia un film piatto, privo di vera ispirazione e ancor prima di ambizione, che si limita ad introdurre un personaggio senza neanche volergli dare chissà quale caratterizzazione o cercare di calarlo in una trama decente. E', in sintesi, un inno alla mediocrità più pura e semplice, un film usa-e-getta fatto e finito che non vuole mai davvero fare nulla di rimarchevole e riesce perfettamente nel suo intento di essere qualcosa di incredibilmente insulso.



Creato da Roy Thomas nel 1971, il Vampiro Vivente di casa Marvel, benché anche protagonista di una serie tutta sua, ha sempre funzionato meglio come villain, ossia come originariamente concepito, uno dei tanti membri della rogue gallery dell'Uomo Ragno. Non per nulla, David Goyer lo voleva come avversario del Diurno in "Blade II", concept poi scartato non si sa per quale specifico motivo.
Alla Sony, d'altro canto, le idee sono chiarissime: "Venom" ha funzionato? Perfetto, è ora di fare tutta una serie di film sui nemici dell'Uomo Ragno per poi culminare nello stramaledetto crossover sui Sinistri Sei che si tenta di fare da almeno dieci anni. Il tutto in un universo a parte, perché si e a prescindere dal fatto che molti personaggi difficilmente funzionano se promossi a protagonisti assoluti (è davvero possibile scrivere un film in solitaria su Kraven il Cacciatore o Madame Web?).


Daniel Espinosa, poi, non ci prova nemmeno a creare qualcosa di originale. Forse l'unico modo per Morbius di funzionare su grande schermo sarebbe stato all'interno di un horror tout-court, non in un film supereroistico con solo vaghi elementi orrorifici. "Morbius", invece, vuole essere un film di supereroi vero e proprio e fallisce miseramente, sfoggiando tutti i difetti del caso.
La storia è blanda, giusto una origin-story su come Michael Morbius è diventato il Vampiro Vivente, senza tra l'altro volersi sforzare di essere credibile. Perché si potrebbe anche soprassedere al fatto che il buon Michael ha un QI talmente elevato da riparare una macchina per la dialisi con una penna... da bambino; e che abbia un ego talmente enorme da sfanculare la commissione del Nobel durante la cerimonia per la sua stessa premiazione; ma davvero non si si riesce a credere al fatto che ottenga i superpoteri semplicemente iniettandosi DNA di pipistrello. Forse il suo vero superpotere è l'immunità ai coronavirus.


Il personaggio, alla fin fine, è giusto questo, ossia un brav'uomo che si danna in nome della scienza. Il villain, chiamato Lucien, ma che per qualche motivo viene soprannominato Milo, dal canto suo, è cattivo... perché cattivo. Così, di punto in bianco, ricevuti i poteri da vampiro riscopre la sua stronzaggine sopita e decide di cazzeggiare a spese della comunità. Il conflitto? Michael è buono... o quantomeno cosciente della sua pericolosità. Lucien... boh, evidentemente ha un'avversione per il sangue artificiale o forse si diverte troppo a sventrare la gente, non è chiaro. Quel che è chiaro è che, nelle intenzione dell'autore, dovrebbe essere una sorta di yuppie assassino, un Patrick Bateman vampiro, ma la caratterizzazione è talmente tenue e abbozzata da non riuscire a convincere.
Il tutto segue i binari canonici, con sequenze d'azione costruite con il pilota automatico, senza guizzi, senza rischiare nulla, senza voler ricercare uno stile o un'estetica che differenzino le "avventure" del Vampiro Vivente da quelle di qualsiasi altro supereroe. Tanto che persino i suoi iconici costumi da rockstar mancano all'appello, sostituiti da scialbissime felpe e spolverini neri.
Inutile dire che alla fine più che disgustati, si è annoiati. La storia è piatta, i personaggi sono inesistenti, la tensione latita, l'adrenalina anche. Non si raggiungono certo le vette di stupidità viste altrove, ma davvero non c'è nulla che regga lo spettacolo, nonostante la scarsa durata.


Tanto che alla fine ci si ricorda di "Morbius" solo per le scene mid-credit. O meglio per la loro totale idiozia, prova di come forse nessuno alla Sony sapeva che direzione dare al personaggio fino a quando non si è giunti alla fine del montaggio, tanto che alcune scene viste nei trailer mancano all'appello.
Il film sul Vampiro Vivente, quindi, è un fallimento, di certo, è sempre bene specificarlo, non il disastro che molti vorrebbero far credere, ma pur sempre un fallimento.

martedì 19 aprile 2022

CODA- I Segni del Cuore

CODA

di Sian Heder.

con: Emilia Jones, Marlee Matlin, Troy Kostur, Daniel Durant, Eugenio Derbez, John Fiore, Lonnie Farmer, Amy Forsyth, Courtland Jones, Kevin Chapman.

Drammatico

Usa, Francia, Canada












L'Accademy è davvero arrivata alla frutta. Non potendo più contare su titoli di richiamo da premiare, si è deciso di puntare si di un classico americano, ossia le polemiche. E il ceffone dato da Will Smith a Chris Rock di polemiche ne ha generate, tra chi ha parlato della solita "mascolinità tossica" a chi si è limitato a biasimarne il gesto in sè. Il dubbio sulla artificiosità dello stesso è forte, anche perché è perfettamente riuscito nell'intento di ridare visibilità ad una premiazione che da anni perdeva ascolti e rilevanza. 
L'obliterazione dalla coscienza collettiva degli Oscar è però in primis dovuto alla fine dell'era della "guerra degli studios", quel periodo durante il quale le grandi major producevano film con l'apposita intenzione di accalappiare il premio annuale, i famosi "Oscar Bait" tra i quali il caso più famoso è senza dubbio il mitologico "Il Falò delle Vanità" di Brian De Palma, la cui storia andrebbe riscoperta perché davvero troppo incredibile per essere vera. 
La mancanza di "filmoni" patinati ha portato, progressivamente, alla premiazione di piccoli film provenienti dal circuito del cinema indipendente, che bilanciano la scarsezza dei valori produttivi con l'impegno artistico e umano. Questo in teoria, perché molto spesso l'Oscar come miglior è stato assegnato per ragione squisitamente politiche. Basti pensare al caso di "Moonlight" o a quello di "Green Book", di certo non i migliori candidati eppure ritenuti eccellenti a causa dell'argomento trattato, piuttosto che per come veniva effettivamente trattato, per lo stile o l'estetica. E quest'anno, messo in secondo piano dallo sganassone di Smith, il fenomeno si è ripetuto con "CODA", un film piccolo, talvolta simpatico, ma di sicuro non il miglior film in gara, la cui vittoria è attribuibile al solito fenomeno dell'inclusivismo forzato.


Ma "CODA" è prima di tutto un film schizofrenico, costituito da ben tre tracce narrative che si allacciano tra loro in modo incoerente. Remake di "La Famiglia Bélier", vorrebbe prima di tutto essere uno spaccato della vita di una famiglia di non-udenti, con tre membri su quattro a soffrire di disabilità, unica eccezione data dall'ultimogenita Ruby (Emilia Jones); e nel ruolo della madre, ritroviamo la bellissima Marlee Matlin, prima attrice sordomuta a vincere un Oscar per il bel "Figli di un Dio minore" nel 1986.
Ma la storia di "CODA" è anche un romanzo di formazione su Ruby, che scopre la sua passione per il canto e viene quindi stretta tra le responsabilità famigliari e le aspirazioni personali.
Ed in ultimo, un "working-class drama", con le avversità lavorative della comunità di pescatori del Massachusetts e le inutili regolamentazioni federali che ne strozzano i guadagni.
Di queste tre tracce narrative, due vengono sacrificate all'altare dello spettacolo e il film diventa irrimediabilmente il più classico teen-drama con le restanti storyline a fare da puri innesti di supporto.


La sottotrama sulla nuova attività lavorativa della famiglia finisce nel dimenticatoio e tutto il tempo passato a dare spazio ai problemi della classe operaia diventa così un puro riempitivo. Mentre il dramma dato dall'impossibilità per una famiglia di non-udenti di avere una vita effettivamente autonoma in un ambiente non attrezzato (si tratta pur sempre della provincia americana) cede il passo a tutti i luoghi comuni del romanzo di formazione, tanto che a tratti ci si dimentica persino del fatto di stre assistendo ad un film sulla disabilità.
Il centro di tutto è Ruby, la sua passione per la musica, la sua cotta per il bello di turno, il dramma dato dalle solite compagne di scuola stronze, il rapporto con il mentore eccentrico d'ordinanza (talmente eccentrico che si dimentica di insegnare la respirazione in un corso di canto, che sagoma...) ed il suo immancabile trionfo finale. Il conflitto segue tutti i passi del caso, all'appello non manca nessuna delle scene madri, tra la rottura con lo spasimante, le incomprensioni della famiglia, i piccoli drammi dovuti alla sua neoacquisita autonomia e il riappacificamento finale. Tutto come da programma, tutto visto e stravisto.


Una fiera del convenzionale dove le uniche emozioni sono date da un umorismo gustoso e riuscito e soprattutto dall'impegno del cast, che trova un'alchimia talmente ottima da dare risalto a personaggi altrimenti dimenticabili.
E dimenticabile è il termine più azzeccato per "CODA", che usa la scusa del ritratto della disabilità per portare in scena una storiella da quattro soldi senza tra l'altro avere nessuna vera pretesa sociologica o drammatica che sia. Un filmetto fatto e finito, persino troppo lungo, il cui successo è puramente circostanziale e difficilmente verrà ricordato negli anni se non per il premio vinto. Il che è anche un peccato, visto l'impegno degli attori.

martedì 12 aprile 2022

Ipotesi Sopravvivenza

Threads

di Mick Jackson.

con: Karen Meagher, Reece Dinsdale, David Brierly, Rita May, Nicholas Lane, Jane Hazelgrove, Henry Moxon, Sylvia Stoker, Harrey Beety.

Fantastico/Drammatico

Regno Unito, Australia, Usa 1984













Se c'è una lezione che può essere tratta dall'invasione russa dell'Ucraina (pur sempre ammettendo che un tale atto di codardia possa davvero insegnare qualcosa di positivo) è quella secondo la quale la stabilità politica e la relativa "pace" non devono mai essere date per scontate, nemmeno in uno scenario come quello europeo, il quale ha cercato di evitare conflitti su larga scala (riuscendoci solo talvolta) già del Secondo Dopoguerra.
Una lezione che la generazione dei nostri padri forse dava meno per scontata: pur essendo cresciuta negli anni '70, l'ipotesi di un conflitto nucleare a coronamento della Guerra Fredda sembrava in parte scongiurato, ma ciò solo fino agli anni '80, quando la politica intransigente di Reagan in America e della Thatcher in Gran Bretagna riportarono il gelo tra i due blocchi, con la conseguente minaccia nucleare pronta a riconcretizzarsi dopo quasi 20 anni di relativa quiete.
E' in uno scenario del genere che vede la luce l'apocalittico "The Day After", produzione televisiva che affronta di petto la questione e dà vita ad immagini verosimili di una guerra nucleare. E se l'esito della trasmissione di quel piccolo-grande film ha scosso l'opinione pubblica, quella di "Threads", altra produzione televisiva, questa volta britannica, avvenuta circa un anno dopo, nel 1984, ha finito per scioccare un'intera generazione di spettatori con le sue immagini ancora più sconvolgenti e realistiche.


Ma l'antecedente storico di "Threads" non è in realtà il film di Nicholas Meyer, bensì il mockumentary "The War Game"; prodotto nel 1965 e premiato con l'Oscar come miglior documentario, "The War Game" immagina, in appena 48 minuti, uno scenario post-nucleare realistico, dove l'invasione del Vietnam da parte della Cina porta alla catastrofe atomica. Considerato sin troppo straziante per la messa in onda, questo piccolo falso-documentario fu comunque l'apropista di una visione sofferente e veritiera della tragedia nucleare. 
Nel 1982 il regista Mick Jackson (sbarcato anni dopo ad Hollywood, senza però riuscire a dirigere nulla di davvero memorabile) aveva prodotto il documentario "A Guide to Armageddon", portando in scena l'ipotesi nucleare e immaginando possibili scenari di sopravvivenza in modo "educativo" per il pubblico. Il produttore della BBC Alasdair Milne decide così di affidargli la produzione di un film-tv simile, che rappresentasse in modo realistico non solo l'apocalisse atomica, ma anche la società che da essa sarebbe scaturita.
Jackson ingaggia così lo sceneggiatore Barry Hines e insieme iniziano un'approfondita ricerca sull'argomento, visitando Hiroshima e Nagasaki per parlare con i sopravvissuti dei bombardamenti del 1945, intervistando scienziati e medici per capire a cosa davvero avrebbe portato la devastazione nucleare nella società occidentale. Alla notizia della messa in onda di "The Day After", il duo caldeggia però l'idea di abbandonare il progetto, salvo poi trovare nuova fiducia in esso una volta accortisi che il loro lavoro sarebbe stato differente e più penetrante rispetto alla controparte americana. Il che è quantomai vero.


La narrazione si apre in modo volutamente convenzionale. La voce narrante ci racconta dell'importanza delle interconnessioni sociali, i fili ("Threads") che collegano i singoli per farne tessuto sociale, per poi spostarsi alle vicende umane di due giovani, Ruth e Jimmy, che, poco alla volta, formeranno un nuovo nucleo famigliare. Mentre la vita degli abitanti di Sheffield scorre normale, sullo sfondo la tragedia monta poco alla volta: l'invasione sovietica dell'Iran porta gradualmente all'intensificarsi delle tensioni tra i due blocchi, il che sfocerà nella guerra atomica. Caduta la bomba, il registro cambia radicalmente, le storie dei singoli personaggi perdono importanza e questi divengono persone comuni, volti volutamente generici persi nel caos. E allo stesso modo, lo stile narrativo si fa più smaccatamente documentaristico, abbandonando quasi totalmente i dialoghi per riprendere le sole immagini come se fossero avvenimenti reali.



La società resta divisa in due. Da un lato i burocrati, che cercano di organizzare quel poco che è rimasto per assicurare una forma di sopravvivenza. Dall'altra i civili, che possono solo muoversi tra le macerie. A farla da padrone, sono le immagini della distruzione, tra le più sconvolgenti mai apparse su schermo, piccolo o grande che sia.
Corpi bruciati dal calore della bomba, persone mutate dalla malattia, città sventrate e ridotte a cumuli di macerie fumanti e i sopravvissuti ridotti ad ombre, fantasmi viventi che si trascinano tra i rimasugli di ciò che era alla disperata ricerca di qualcosa. Jackson porta in scena per primo gli effetti dell'inverno nucleare e a sconvolgere ancora più degli effetti a breve termine delle esplosioni sono quelli a lungo termine dati dal fall-out e dal freddo, con la vita che viene schiacciata dal gelo poco alla volta, sino a svanire.




Lo stile para-documentaristico rende il tutto più pregnante. Le fredde scritte che descrivono lo stato della popolazione intercalate alle immagini laceranti creano una sensazione di disagio palpabile. La descrizione della società post-apocalittica di Jackson finisce così per essere non solo la più realistica, ma anche la più tagliente.
La narrazione, tuttavia, non si limita a descrivere solo il dopo-bomba. Con un flashfarward di 13 anni ritroviamo alcuni dei personaggi nella società che si è costituita dopo la catastrofe. Riallacciati i fili del tessuto civile, la nuova realtà è una sorta di Medioevo venturo, dove la sussistenza è l'unica forma di sopravvivenza assicurata, dove si può non sopravvivere all'inverno, la lingua si è involuta e le razzie sono all'ordine del giorno. E il film si chide con un'ulteriore tragedia: la figlia di Ruth, nata dopo la catastrofe, da a sua volta alla luce una nuova vita. Ma se la prima si è salvata a stento e non ha riportato conseguenze fisiche a causa delle radiazioni, la nuova generazione soffrirà sin dalla nascita a causa delle mutazioni, con la sopravvivenza totale della razza umana messa definitivamente in discussione. Da cui non una chiusura, bensì una semplice interruzione del racconto, che potrebbe in realtà durare all'infinito.


La visione è a dir poco sconvolgente. In neanche due ore lo spettatore viene rapito e trasportato in un mondo "altro", ma incredibilmente vero, in un racconto che non concede tregua, non ha paura, né si tira indietro di fronte a nulla. "Threads" è un film coraggioso prima ancora che realistico, che non ha paura di essere sgradevole e riesce a non scadere nel compiaciuto. Un miracolo di stile, estetica e sostanza ancora oggi sconcertante.