lunedì 30 maggio 2022

Veloci di Mestiere

Fast Company

di David Cronenberg.

con: William Smith, John Saxon, Claudia Jennings, Nicholas Campbell, Don Francks, Cedric Smith, Judy Foster, Robert Haley.

Canada 1979
















Poco prima di concludere la sua ideale trilogia sulla mutazione con "The Brood", David Cronenberg decide di darsi all'exploitation, mettendo il suo mestiere al servizio di un progetto non suo. Quel che ne esce è un film unico nella sua carriera, lontano miglia dalla sua poetica e del tutto incompatibile con il resto della sua filmografia, ossia "Fast Company". Un film decisamente più convenzionale, privo del mordente e del coraggio che contraddistinguono il cinema dell'autore canadese, ma a suo modo importante per due motivi; il primo è l'inizio della collaborazione con il dop Mark Irwin, che girerà praticamente tutti i suoi film successivi sino a "La Mosca"; il secondo è la possibilità che gli viene offerta di sfogare la sua innata passione per il mondo dei motori.


Il modo in cui si approccia alle auto è quello di un appassionato sfegatato che disseziona con lo sguardo le livree e che guarda al motore e ai suoi componenti come un medico durante un'operazione. Non c'è quasi differenza tra il modo in cui Cronenberg riprende i meccanici intenti a montare i pezzi delle auto da drag race e un qualsiasi chirurgo della sua filmografia che sviscera un paziente. Il suo è un feticismo innato, una passione spasmodica malcelata che qui ha modo di portare su schermo in modo del tutto libero.



Libertà appassionata che fa il paio con la spettacolarità delle immagini, tra funny car e dragster che sprintano a oltre trecento all'ora su appena quattrocento metri di pista, un aeroplano che si schianta contro un rimorchio ed esplosioni a gogo, Cronenberg imbraccia fieramente la filosofia del B-Movie commerciale dell'epoca e decide di divertirsi con le immagini, riuscendo a restituire bene o male in modo efficace l'adrenalina della corsa.
Mentre lo script è quanto di più convenzionale possibile.



La storia è quella della scuderia FastCo, guidata dal veterano Lonny "Lucky Man" Johnson (William Smith), alle prese con le corse e con l'ascesa del suo giovane protetto Billy "the Kid" Brocker (Nicholas Campbell), della rivalità con il team di Gary "Blacksmith" Black (Cedric Smith), ma soprattutto degli scontri con l'infido manager Phil Adamson (John Saxon).
Non uno scontro tra bene e male nel senso convenzionale del termine. Il team Blacksmith è sicuramente composto da canaglie, con il nero del loro colore a fare da controaltare ai colori della bandiera americana della FastCo, ma Gary alla fine arriva al sacrificio per salvare la vita ai rivali, una redenzione coerente con il suo status di antagonista mai davvero cattivo.
Il villain è semmai Anderson, cattivo fin nel midollo, emblema del consumismo che attanaglia lo sport, della corruzione che infanga la nobile arte della corsa e che non conosce mezzi termini, essendo solo intenzionato ad aumentare il suo margine di profitto.




L'internalizazione del conflitto porta ad una scarna forma di originalità. Detto questo, la divisione tra buoni e cattivi resta netta e priva di qualsivoglia sfumatura, appiattendo ogni potenzialità narrativa di sorta.
Ma ovviamente non è questo che conta in una pellicola del genere e Cronenberg lo sa benissimo, quindi, questa volta in coerenza con il suo stile, eccede nelle nudità gratuite introducendo una sequenza del tutto inutile in cui Billy the Kid si gode un ménage à trois con due autostoppiste, una delle quali viene unta con l'olio FastCo per aumentare il livello di feticismo, in un'anticipazione delle tematiche di "Crash" ovviamente del tutto casuale.




"Fast Company" resta tutt'oggi il film più singolare di Cronenberg, una piccola stranezza che trova la sua ragione d'essere nella necessità alimentare e nella voglia di sfogare una passione personale che per forza di cose non trovava vero spazio all'interno della poetica dell'autore. Trascurabile, ma al contempo divertente.

giovedì 26 maggio 2022

R.I.P. Ray Liotta

 


1954 - 2022

Resterà per sempre legato al ruolo di Henry Hill nel capolavoro di Scorsese "Quei Bravi Ragazzi", il che non è per forza di cose un peccato. Ray Liotta è stato un attore dal solido talento, ma che sfortunatamente in pochi sono riusciti a sfruttare davvero bene. Con oltre 120 ruoli all'attivo, ha lavorato, tra gli altri, anche con Ridley Scott, Andrew Dominik, Guy Ritchie e Robert Rodriguez e negli ultimi anni, con le sue partecipazioni a "Storia di un Matrimonio" e "I Molti Santi del New Jersey", ha dimostrato di avere ancora grinta e stoffa da vendere.

mercoledì 25 maggio 2022

Esterno Notte (Prima Parte)

di Marco Bellocchio.

con: Fabrizio Gifuni, Margherita Buy, Toni Servillo, Fausto Russo Alesi, Daniela Marra, Gabriel Montesi, Paolo Pierobon, Gigio Alberti.

Storico/Drammatico

Italia, Francia 2022













Ci voleva un peso massimo come Marco Bellocchio per risollevare le sorti della fiction Rai: era dai tempi di "La Meglio Gioventù" che un prodotto televisivo del servizio pubblico non era così riuscito. Nel frattempo, nel mare magnum di orrore catodico assortito, persino le operazioni più ambiziose ("Sanguepazzo") o anticonvenzionali ("Il Sangue dei Vinti") si sono rivelate come malriuscite, quando non del tutto vomitevoli.
A Bellocchio, invece, il polso non manca, la voglia di raccontare neanche e arriva persino a citare, in modo forse non voluto, il mitologico "Pinocchio" di Comencini, riuscendo a creare un prodotto atipico per gli standard televisivi, scostante, mai riconciliatorio e fermamente cinematografico nella forma, benché la scrittura sia più vicina al medium televisivo.




Nel riportare in scena i giorni del sequestro Moro, Bellocchio crea un'ideale "altra faccia" del capolavoro "Buongiorno, Notte", rievocando e re-immaginando gli eventi dal punto della classe dirigente, di quei volti che osservavano stoicamente le esequie di Moro sulle note di "Shine on you crazy diamond". Ogni episodio segue un personaggio in particolare, le sue reazioni, il modo in cui il dramma ne ha influenzato l'esistenza, sia sul piano materiale che psichico, mentre il mondo si ferma a causa degli eventi.
Il primo è dedicato a Moro, interpretato con piglio strasberghiano da un sorprendente Fabrizio Gifuni. A Bellocchio non interessa tanto il politico, la cui linea conciliatoria con il PCI lo ha portato alla rovina, in un modo o nell'altro, quanto l'uomo, il padre di famiglia, il nonno amorevole, l'essere umano convinto di fare del bene, di perseguire una via di pace contro gli avversari che avrebbe portato alla fine della violenza.
Sullo sfondo, l'Italia brucia, il conflitto extraparlamentare raggiunge l'apice, con i brigatisti ritratti come veri e propri terroristi, idealisti persi in un'idea di rivalsa sociale distruttiva e per questo tanto elitaria quanto il distacco della classe dirigente che tanto vorrebbero sostituire.




Nel secondo episodio seguiamo gli sforzi di Cossiga, all'epoca ministro dell'intero, per trovare i rapitori; ma soprattutto seguiamo il suo disfacimento psico-fisico: la paranoia per lo stato dell'amico e mentore lo porta ad un invecchiamento precoce e al declino mentale. Bellocchio ritrova il gusto per la descrizione psicoanalitica dei personaggi come nel suo cinema degli anni '80 e crea lo spaccato di una vita in pezzi, di un uomo teoricamente geniale portato oltre il limite dalla tragedia. Enfatizzando una vena grottesca in parte già presente nel primo episodio, qui trova una nuova dimensione espressiva in grado di conferire un tocco maggiormente espressivo alla narrazione.




Il terzo episodio è dedicato a Paolo VI, interpretato da un Toni Servillo al solito magistrale, portando in scena gli sforzi della mediazione tra le Chiesa e le organizzazioni eversive, tragicamente falliti. La figura del Papa è tratteggiata in modo deciso come una vittima del sequestro, schiacciata dai sensi di colpa, dilaniata dalla malattia così come dal rimorso. E quella di Moro viene mostrata come quella di un martire, l'agnello sacrificale di una classe politica irredenta e gaudente, persa nelle elucubrazioni dei propri interessi, pronta ad immolare un ingenuo idealista per il proprio tornaconto.
Un episodio riuscito, dove però il ritmo si fa a tratti troppo lento, rendendo la visione in sala a tratti troppo pesante, anche se sempre interessante.




Il ritratto che emerge è impietoso, magnificamente venato di grottesco. Una rappresentazione che si ferma ai limiti dell'iperbolico in un perfetto equilibrio tra verosomiglianza storica e drammaturgica e concessioni artistiche che crea una forma espressiva penetrante.
In questa sua prima parte, "Esterno Notte" è un piccolo capolavoro di impegno e forma, un'opera potente ed incredibilmente vera, punto d'arrivo inesorabile di un artista forse perfino sottovalutato qui in Italia.

lunedì 23 maggio 2022

La Vita Nascosta- Hidden Life

di Terrence Malick.

con: August Diehl, Valerie Pachner, Maria Simon, Karin Neuhäuser, Tobias Moretti, Ulrich Matthes, Bruno Ganz, Michael Nyqvist.

Drammatico/Storico

Germania/Usa 2019













E' stato davvero un peccato non poter guardare sul grande schermo "A Hidden Life". Malick, come sempre, non delude le aspettative e crea un'esperienza visiva evocativa che avrebbe davvero giovato del passaggio al cinema. Purtroppo, causa pandemia, ci si è dovuti accontentare di una visione in streaming, esclusiva Disney+ con tanto di doppiaggio posticcio, che di certo non permette di godere appieno della potenza visiva dell'opera.
Al di là della conferma del talento visivo del suo autore, "A Hidden Life" è anche una pellicola in un certo senso anomala nella filmografia di Malick, la prima ad avere uno script vero e proprio dai tempi de "I Giorni del Cielo" e sempre la prima ad avere una struttura lineare dopo "The New World".
Script come scheletro narrativo, struttura interna che non ingabbia la creatività del grande regista, la quale anzi risalta ancora forte grazie ad una messa in scena del tutto anticonvenzionale, come al suo solito, dove la narrazione viene frammentata in sede di messa in scena e poi ricreata in montaggio, dando un senso di libertà unico.



L'ultimo exploit di Malick è però in primis un film di grande rigore morale, che parte da un misconosciuto caso di disobbedienza civile per creare un discorso universale sullo scontro tra bene e male, individuale e collettivo, nonché sul martirio, il sacrificio del singolo per salvare una comunità.
La storia è quella di Franz Jägerstätter, contadino del piccolissimo villaggio austriaco di St.Radegund, il quale, durante la Seconda Guerra Mondiale, rifiuta di prestare giuramento dal partito Nazista e per questo trova l'ostilità non solo delle autorità, ma anche dei suoi concittadini.




Jägerstätter come figura cristologica, uomo contro un sistema in cui non crede, nel quale rivede un male assoluto pronto a divorare il mondo. Da cui la dissidenza vista come viatico per la salvezza dell'anima, ma anche come esempio, non tanto effettivo, quanto simbolico; dinanzi alla violenza e allo scherno, sa benissimo di non fare alcuna differenza, eppure crede fermamente nelle sue azioni. Da cui la dicotomia tra il luogo in cui risiede ed il resto del mondo. 




Radegund viene dapprima visto come un luogo fuori dal mondo, un posto "oltre le nuvole", fuori dal tempo e dallo spazio, solo per poi divenire un microcosmo che rispecchia le tensioni sociali nel resto del centro Europa. Il fanatismo bieco e l'intolleranza becera divengono elementi essenziali nella vita dei contadini del piccolo borgo e il dissenso diventa così un imperativo morale e religioso. Da cui la diffidenza con l'autorità religiosa, l'affondo alla storica ambiguità della Chiesa verso il III Reich ed i suoi orrori, ma anche la paranoia che attanagli le figure ecclesiastiche, strette tra il dovere spirituale e la paura delle conseguenze.




La natura, al solito, è un'osservatrice stoica. Una natura meno selvaggia, ammansita  in parte dall'uomo, divenuta suo sostentamento, ma ora come non mai nesso tra l'individuo e l'infito, tra l'uomo e il Dio che osserva e tace, un infinito tanto imponente quanto silenzioso, che osserva tutti senza giudicare e la cui inerzia è talvolta insostenibile.



Lo stile di Malick è al solito ammaliante. Nonostante la sceneggiatura fatta e finita, struttura lo stesso la narrazione come un flusso di coscienza dove immagini e parole si mischiano sino a diventare un tutt'uno. Un uso più marcato dei grandangoli porta ad una profondità ancora maggiore, regalando una sensazione di grandezza al solito unica.
"A Hidden Life" è così più che altro una conferma del talento del suo autore, un'opera al contempo poetica e rigorosa, una storia di impegno che merita di essere riscoperta e apprezata.

venerdì 13 maggio 2022

Firestarter

di Keith Thomas.

con: Ryan Kiera Armstrong, Zac Efron, Kurtwood Smith, Sydney Lemmon, Gloria Reuben, John Beasley, Tina Jung.

Fantastico/Thriller

Usa 2022



















In un periodo nel quale persino gli adattamenti al cinema dei lavori di Stephen King sono remake, reboot e sequel, occorre fare qualche distinguo. Un nuovo adattamento di un romanzo può servire, ovviamente, a declinare in modo originale la stessa storia, avvicinandosi o allontanandosi ulteriormente alla fonte rispetto a quanto fatto in passato, creando qualcosa che a suo modo sia originale, anche se solo in parte. In tale ottica, ha senso di esistere, ad esempio, un film come "Pet Sematary", che pur non eccellendo, per lo meno cerca di dare una lettura originale ad una storia già apparsa su schermo.
Un film come "Firestarter", d'altro canto, non ha motivo di esistere così com'è, configurandosi unicamente come un adattamento simile, ma del tutto inferiore rispetto al primo, datato 1984, afflitto com'è da una scrittura che un tempo si sarebbe definita "televisiva", nonché dalla totale incapacità di dare valore spettacolare alla trama.



L'originale non era certo un capolavoro; anzi, vien da ridere se si pensa a ciò che sarebbe potuto essere nelle mani di John Carpenter, originariamente coinvolto nel progetto e poi allontanato a causa del flop de "La Cosa". Un film piccolo, ma che riusciva a cogliere lo spirito della storia originale e che viveva grazie all'ottimo cast (con Martin Sheen e George C.Scott che facevano a gara a chi divorava di più la scena) e agli ottimi effetti speciali, dei quali l'unico sottotono è quello della famosa "pallottola che esplode", mentre gli altri permettono di godersi ancora oggi uno spettacolo pirotecnico incredibile.
Cosa ha invece da offrire questo nuovo "Firestarter" aggiornato ai tempi dei film dei supereroi? Praticamente nulla.



Charlie (Ryan Kiera Armstrong, già apparsa nell'universo kinghiano come vittima di Pennywise in "It- Capitolo Due") è una bambina dotata di poteri pirocinetici, ereditati dai genitori, a loro volta divenuti ESP a causa di un esperimento governativo. La piccola famiglia vive in fuga, finché il programma di cui hanno fatto parte viene riattivato e sulle loro tracce si mette uno spietato sicario superumano.
Laddove l'originale era strutturato con una prima parte che inizia in medias res, inframezzata da flashback, ed una seconda più lineare, ambientata tutta all'interno dei bunker dello Shop, il riadattamento di Keith Thomas è magistralmente meno moderno nella narrazione e si ancora volontariamente a tutti i topoi del caso.
Troviamo la famigliola di esper allegramente stabiliti in provincia, la piccola Charlie che va a scuola e come da copione ha a che fare con i bulli e con i suoi "fenomeni paranormali incontrollabili". Un primo atto che come il resto del film viene costruito tutto sui dialoghi, con pochissima azione e l'atmosfera evocata unicamente dalle note della colonna sonora, curata tra gli altri dallo stesso Carpenter, forma di "risarcimento" per il passato. Una rielaborazione che vorrebbe enfatizzare il lato umano della vicenda, ma che così facendo la appiattisce del tutto.



L'aver sostituito gli anonimi inseguitori con una sorta di Anton Chigur telecinetico avrebbe sicuramente potuto portare a risultati spettacolari, ma gli scarsi valori produttivi della produzione Blumhouse questa volta sono un limite insormontabile per una pellicola che aveva  bisogno di ben altri valori produttivi per brillare. Qui nulla: un po' di fuoco in CGI, qualche piccola esplosione e oggetti che volano. Tutto il resto viene lasciato ai dialoghi, relegato ad una potenzialità inespressa che porta subito alla noia, con scene di gente che parla raramente inframezzate da qualche scenetta d'azione dal fiato cortissimo. E nel finale, quando tutto dovrebbe esplodere, nulla di rimarchevole accade davvero, lo spreco delle potenzialità si attua in toto e ci si accorge di come nulla funzioni davvero in questo nuovo adattamento. A salvarsi è unicamente il cast, che regge bene la scena, ma da una parte non ha mai davvero modo di brillare (su tutti il povero Kurtwood Smith, sprecatissimo nel ruolo del tizio che spiega le cose), dall'altra non regge il paragone con i mostri sacri dell'originale.


"Firestarter" è un film inutile, prima ancora che malriuscito. Una riproposizione stanca di una storia che privata del valore spettacolare forse non ha neanche motivo di esistere e che risulta meno moderno sul piano narrativo della sua controparte di quasi quarant'anni fa. Il che è tutto dire.

lunedì 9 maggio 2022

Bubble

di Tetsuro Araki.

Animazione/Post-Apocalittico/Romantico

Giappone 2022





















Netflix sta puntando tutto sugli anime. Tra produzioni dirette, esclusive in distribuzione e remake live-action dei classici, il gigante dello streaming ha le idee chiare, ossia ritagliarsi un posto d'onore in un mercato in crescita globale..
Ovviamente non tutte le ciambelle riescono con il buco il primo live-action ufficiale, l'orrendo remake del bellissimo "Cowboy Bebop", si è rivelato un cocente flop. Gli accordi in esclusiva per la distribuzione hanno creato problemi alle singole case di animazioni, basti vedere il caso dello Studio David e i ritardi relativi alla produzione di "Stone Ocean", sesta, attesissima, parte de "Le Bizzarre Avventure di JoJo". Per quel che riguarda la produzione diretta, invece, "Bubble" è qui a fare da testimone diretto dei risultati. I quali, manco a dirlo, lasciano a desiderare.
Per questo suo exploit, Netflix ha cercato di fare le cose in grande: alla regia ha chiamato Tetsuro Araki, salito agli onori per aver curato la direzione di praticamente tutti gli episodi del cult "L'Attacco dei Giganti". Al character design quel Takeshi Obata che ancora oggi trova riscontro per il lavoro svolto su "Death Note". Dulcis in fundo, tra gli sceneggiatori spicca Gen Urobuchi, responsabile del sorprendente "Puella Magi Madoka Magica". Un dream team vero e proprio che porta in scena una storia alla Makoto Shinkai, riprendendone stile, tematiche e persino la palette cromatica... finendo per confezionare un prodottino anonimo e dal fiato cortissimo, che regala emozioni stantie e tanti sbadigli.


Sono passati cinque anni da quando Tokyo è stata invasa da una serie di bolle che ne hanno causato l'alluvione. Ridotta ad una città fantasma, l'ex capitale è ora casa di gruppi di ragazzetti che si sfidano a gare di parkour tra le macerie. Tra questi spicca Hibiki, il quale viene salvato da una strana ragazza, chiamata Uta, la quale sembra avere una strana correlazione con il fenomeno apocalittico.


Una storiella esile esile, sia nelle premesse che nell'esecuzione. L'apocalisse misteriosa è manco a dirlo l'incipit di forse 3/4 dei prodotti di animazione moderni e non. Si potrebbe scomodare direttamente il mai dimenticato "Akira", ma dato che il punto di ispirazione è Shinkai è più probabile che gli autori abbiano puntato al filone sekaikei, dove però la tragedia è già avvenuta. Ma non bisogna cantare vittoria per la novità: nel finale si profila una nuova apocalisse che i protagonisti devono ovviamente scongiurare.
In questa Tokyo sommersa, si radunano dei ragazzi, per lo più orfani. Vai poi a capire perché, visto che tutto quello che fanno è gareggiare a rotta di colla per spartirsi i viveri necessari alla sopravvivenza. Atto di ribellione verso la società? Noia? Esibizionismo? Chi può saperlo, l'importante è avere su schermo il solito coacervo di stereotipi impegnato in azioni spettacolari.
E di stereotipi di certo non mancano a "Bubble": Hibiki è il più classico "bel tenebroso" che come da copione si scopre avere un passato triste. Mentre Uta è la più classica waifu "magica", misto di tutte le Nezuko, Cheza, Nyu e Rei Ayanami che si siano viste e riviste nel corso di circa trent'anni di sekaikei al cinema e in televisione. L'unica novità è data dalla forma del loro rapporto, che non si limita al non-detto proprio del cinema di Makoto Shinkai, ma per una volta si esprime in modo diretto, limitandosi tuttavia ai soli dialoghi.



Tutti gli altri personaggi rientrano bene o male nei luoghi comuni di tanta animazione nipponica: il rivale, questa volta meno convinto del solito, il senpai che salva la situazione, il giovane impulsivo che si caccia nei guai (che sembra un Naruto dei poveri) e la scienziata prosperosa. Senza contare un gruppo di antagonisti, gli Undertaker, che brilla per stupidità: conciati come se fossero fuggiti da una produzione dello studio Gainax, impegnati in pose improbabili che dovrebbero risultare disturbanti, sono cattivi perché usano degli stivaletti tecnologici che permettono loro acrobazie improbabili e soprattutto perché si sono permessi di monetizzare le corse tramettendole sul web. Che gaglioffi!



In tutto questo, Araki ripropone il suo mix di animazione 3D e classica, con i protagonisti che corrono tra le macerie come avveniva ne "L'Attacco dei Giganti", con le scarpette a spruzzo al posto dei moduli per il movimento tridimensionale. E a parte questo, non trova un modo per rendere interessante uno script esangue, che cerca di rifarsi al meglio di Shinkai ma riesce solo a tirarne fuori il peggio quando decide di accostarsi alla tradizione favolistica per creare una storia d'amore impossibile del tutto improbabile e, quel che è peggio, fredda.



"Bubble" è una pellicola dimenticabile, chiaramente pensata per piacere agli otaku ma che paradossalmente forse sarà più apprezzata da chi non mastica animazione nipponica, data la mole di cliché che vi imperversa. Di sicuro non il miglior biglietto da visita per lo steaming della grande N, che ha anime decisamente migliori in catalogo.

sabato 7 maggio 2022

Doctor Strange nel Multiverso della Follia

Doctor Strange in the Multiverse of Madness

di Sam Raimi.

con: Benedict Cumberbatch, Elizabeth Olsen, Benedict Wong, Chiwetel Ejiofor, Xochitl Gomez, Rachel McAdams, Michael Stuhlbarg.

Fantastico

Usa 2022














Esattamente venti anni fa, lo "Spider-Man" di Sam Raimi inaugurava l'era del comic-movie Marvel al cinema. Si potrebbe parlare dell'inizio di un'era, ma sarebbe corretto anche parlare della fine di un'altra, della fine del cinema di Raimi, che già all'epoca reduce da un paio di lavori sottotono ("Gioco d'Amore" e "The Gift"), avrebbe di li a poco finito per dirigere unicamente pellicole commerciali su commissione. O, per essere più precisi, giusto altri tre film, due dei quali sequel del blockbuster che ne ha ridefinito la carriera, uno quello che resterà il suo ultimo lavoro cinematografico per i successivi undici anni, ossia "Il Grande e potente OZ" ("Drag Me to Hell" è stata più che altro una parentesi isolata).
Sul fatto che nella trilogia sull'Arrampicamuri lo stile di Raimi risulta annacquato e incapace di sorprendere, sostituendo la sperimentazione visiva con un piattume estetico-stilistico sconsolante, si è scritto anche troppo. Meglio guardare i fatti: il cinema di Raimi non è esistito più e quel suo stile anarchico ha trovato una valvola di sfogo solo nel medium televisivo, con quel "Ash vs. Evil Dead" durato troppo poco.
Poi avviene l'impensabile: licenziato Scott Derrickson dal sequel di "Doctor Strange" per le canoniche "divergenze creative", ecco salire a bordo del progetto niente meno che il padre putativo del MCU, di ritorno in cabina di regia dopo una pausa durata anche troppo. E poi il paradosso nel paradosso: anche al netto degli evidenti difetti di scrittura, "Nel Multiverso della Follia" non solo è uno dei film migliori dei Marvel Studios, ma ha in sé più Sam Raimi in due ore che l'intera trilogia su Spider-Man in quasi nove.


E Raimi di certo non si risparmia. Complice un soggetto che gli permette più di quanto le avventure dell'Uomo Ragno avrebbe mai potuto concedergli, tira fuori dall'armadio il suo repertorio di inquadrature sghembe, soggettive demoniache e movimenti di macchina isterici. Lo stile di questa seconda avventura in solitario dello Stregone Supremo è puro Raimi, non filtrato, né annacquato. Tanto che i risvolti horror gli consentono anche di giocare con la tensione e di inserire richiami al suo cinema eccessivo e visionario: gustosissimi gli inserti splatter celati tra le righe di una messa in scena da film per ragazzini, con l'occhio cavato a Shuma Gorath che ci riporta direttamente ai tempi de "La Casa 2" e degli omaggi del nostro al cinema di Lucio Fulci. O, ancora, la visione del cadavere rianimato dello Strange "alternativo", gloriosamente creato con make-up fisico e dai movimenti goffi e dinoccolati, nonché circondato da demoni infernali che sembra debbano esclamare "I'll swallow your soul!" da un momento all'altro. Ma su tutto, sono gli scontri magici a stupire, con la regia pronta a immaginare i duelli tra maghi in modo sempre originale, senza mai scadere nelle "sparatorie magiche" simil film di Harry Potter.
Sono lontani, per fortuna, i tempi in cui Derrickson immaginava le avventure di Stephen Strange in un mondo ricopiato sulle visioni Nolan. Quello di Raimi è un multiverso vivo e ameno, dotato di un'identità marcata che lo distacca da un buon 90% della piatta produzione targata Kevin Feige.


Sul piano visivo, dunque, questo sequel non solo supera decisamente l'originale, come era lecito aspettarsi, ma riesce anche a riservare qualche gustosa sorpresa, con il pieno ritorno alla forma del suo autore. Sul piano narrativo le cose non sono altrettanto rosee.
Non che la  storia non funzioni, anzi. Solo che da un lato è di una semplicità talvolta disarmante, con lo Stregone Supremo chiamato unicamente a scortare l'imberbe America Chavez e a proteggere la sua capacità di muoversi nel Multiverso Marvel. Dall'altro, è ovviamente necessario aver visto praticamente tutte le incarnazioni del MCU cinematografiche e seriali per capirci qualcosa. Prima fra tutte, la serie di "WandaVision" per comprendere chi sia davvero Scarlet Witch e cosa sia il Darkhold, sorta di Necronomicon marvelliano. Cui si aggiungono ovviamente tutti i film sugli Avengers da "Age of Ultron" in poi e magari anche qualche altro vecchio comic movie Marvel pre-MCU. 



Paradossalmente, proprio quei capitoli che trattavano il tema del multiverso in modo diretto risultano i meno necessari: non c'è quasi nessun riferimento a "Spider-Man: No Way Home", tanto che persino il personaggio di Ned Leeds è del tutto assente; così come i rimandi alla serie "What if..." sono praticamente nulli. E viene persino da ridere se si tiene conto della mancanza di coerenza con i restanti film nei quali Strange è apparso: di certo, quello qui ritratto non è l'incapace che resta prigioniero della tela dell'Uomo Ragno per tre giorni, né lo smemorato che si dimentica dei suoi poteri dinanzi a Thanos.




Se i fan Marvel possono gioire nel vedere un'altra incarnazione spettacolare dei loro personaggi preferiti, i veri cinefili per una volta possono dirsi altrettanto soddisfatti: Sam Raimi è tornato ed è sempre in forma. E si spera continui così per il resto della sua carriera.

giovedì 5 maggio 2022

Stati di Allucinazione

Altered States

di Ken Russell.

con: William Hurt, Blair Brown, Bob Balaban, Charles Haid, Thaao Penghilis, Charles White-Eagle, Drew Barrymore.

Fantastico

Usa 1980













La storia delle ricerche di John C.Lilly è talmente sorprendente e bizzarra che non poteva che infiammare l'immaginazione di un visionario come Ken Russell.
Neuropsicologo e neuroanatomista, tra gli anni '60 e '70 ha portato avanti una serie di resperimenti pionieristici sugli stati alterati di coscienza e sulla comunicazione tra uomo e animali. Il suo lavoro più famoso, il progetto "E.C.C.O." (Earth Coincidence Control Office) ha portato all'elaborazione della teoria secondo cui negli strati più reconditi della coscienza è possibile trasformare in verità effettiva ciò che si crede sia vero, ovviamente entro dati limiti. 


Per dimostrare tale teoria, ha creato la famosa "camera di deprivazione sensoriale", strumento essenziale per lo studio dell'attività cerebrale in assenza di stimoli esterni. Sperimentando la vasca su se stesso, ha scoperto come in assenza di sollecitazioni il cervello continui di fatto a funzionare e, anzi, elabora uno stato onirico marcato che porta ad un'alterazione profonda della coscienza. Da cui la sua teoria sulla possibilità di percepire, in tale stato, gli elementi essenziali della realtà, quelle forze "occulte" che governano in segreto le vite degli esseri umani e non. Esaltando tale stato con l'uso di allucinogeni, ha poi studiato le correlazioni tra la coscienza e la mente all'interno del singolo essere umano, per poi porlo in correlazione con forme di realtà esterna, persino extra-terrestre, andando ad indagare in modo oculato quelle intuizioni che molti scienziati "lisergici" avevano elaborato nello stesso periodo.



Pure fantasticherie? Chi può dirlo. Fatto sta che le suggestioni riportate nei suoi studi sono davvero irresistibili. "Stati di Allucinazione" rielabora le ricerche e le esperienze dirette di Lilly e lo fa attraverso il registro fantastico, vertendo direttamente nel cinema "di genere" per creare un'esperiena sensoriale destabilizzante ed evocativa, riuscendo in pieno a restituire la pienezza delle intuizioni della sua fonte di ispirazione, senza però darle la giusta dimensione "filosofica".
Alla base del film c'è uno script di Paddy Chayefsky, prolifico sceneggiatore hollywoodiano, il quale rielabora la storia di Lilly come una love-story a tinte sovrannaturali, anticipando parte del lavoro di David Cronenberg nel successivo "La Mosca". Script che Russell pare non amasse e i cui limiti sono palesi: non c'è vera coesione tra le aspirazioni "fantastiche" e l'esporazione del rapporto tra i due protagonisti. Non aiuta il fatto che la catarsi viene semplificata in un classicissimo "l'amore vince su tutto", sminuendo intuizioni di base e potenzialità latenti nella storia.



Eddie Jessup (William Hurt, al suo esordio sul grande schermo) usa una camera di privazione sensoriale per studiarne gli effetti sulla psiche. Associandone gli effetti a quelli di un allucinogeno originario di una tribù nativa del Messico, arriva a scoprire gli aspetti genetici della memoria cellulare: sia la sua mente che il suo corpo cominciano a sperimentare una regressione verso l'origine ancestrale della vita.
Origine che ha una triplice forma. Dapprima quella di tipo mistico-religiosa: Jessup, pur cresciuto da atei, aveva sviluppato una forma di fede in gioventù, che pur scomparsa alla morte del padre riaffiora anni dopo grazie agli esperimenti. Le visioni apocalittiche mischiano i concetti di bene e male supremi configurandosi come una sorta di inconscio religioso totalizzante, dove il rimorso e il senso di colpa per la morte del genitore si mischia con visioni apocalittiche, da cui la duplice figura di un "capro dai mille occhi martire", simbolo di salvezza e dannazione, coacervo di tutte le suggestioni religiosi possibili.




Più indietro, si tocca la prima forma umana, o "proto-umana", un ominide che si risveglia nel corpo di Jessup e ne prende il controllo per un breve periodo. Sottotrama che un po' stona con il resto, con una digressione su di un uomo primitivo a piede libero per la città che aggiunge poco sia alla storia che allo spettacolo.
Il tutto per poi arrivare oltre, sino all'origine ultima (o primigenia) della vita, il vuoto cosmico da cui tutto è generato. Russell da così vita ad un viaggio allucinante a ritroso nella coscienza, che si spinge al di là di essa in quella zona di confine tra allucinazione e realtà (da cui la duplice valenza del titolo, persino di quello italiano, più azzeccato di quanto si possa di primo acchito pensare). Ed il suo estro è indiscutibile, tra effetti speciali di certo non rivoluzionari ma altrettanto certamente efficaci nel dare vita alla follia sensoriale di Jessup ad immagini di repertorio usate per ampliare le visoni infernali (riprese da "La Nave di Satana" del 1935) , passando per l'immancabile tributo al finale di "2001: Odissea nello Spazio", "Stati di Allucinazione" è un perfetto esponente del filone lisergico anni '70, presentando immagini ammalianti ed ipnotiche.


Laddove il film mostra il fianco è nella caratterizzazione dei personaggi. Jessup è il più classico "scienziato pazzo" che si fa assorbire dalla sua ricerca sino alle estreme conseguenze. Un "moderno Prometeo" che vuole toccare l'assoluto e come Icaro finisce per cadere nell'oblio. A controbilanciare questa sua freddezza, l'amore della bella Emily (Blair Brown), che gli rinfaccia costantemente il suo attaccamento in una serie di dialoghi ridondanti, acclusi in sequenze talvolta superflue e che mal si conciliano con la storia cardine.
La relazione tra i due diventa quella di Orfeo ed Euridice a ruoli invertiti, con la donna che salva l'uomo dagli inferi (e viceversa, nell'epilogo), ma finisce inevitabilmente per appiattire tutti gli spunti più interessanti del film. Il concetto di divinità, il rapporto tra l'uomo e l'assoluto, la possibilità di esplorare l'universo esterno tramite quello interiore sono così pure speculazioni usate per creare immagini spettacolari, con le relative tematiche che non vengono mai davvero affrontate nel modo corretto, senza mai cercare una forma di approfondimento che vada al di là della semplice suggestione.


"Stati di Allucinazione" resta così un film bello ma vuoto, interessante ma superficiale, che trasforma la base di ispirazione in belle immagini, ma non cerca mai di darle vera dignità, quantomeno oltre quella meramente estetico/tematica. Il che, visti i nomi coinvolti, è un peccato grave. Perlomeno, resta perfettamente riuscito come esperienza puramente sensoriale, oggi ancora perfettamente godibile e affascinante.

martedì 3 maggio 2022

The Last thing Mary saw

di Edoardo Vitaletti.

con: Stefanie Scott, Isabelle Fuhrman, Rory Culkin, Daniel Pearce, Judith Roberts, Carolyn McCormick, P.J. Sosko, Tommy Buck, Dawn McGee.

Usa 2021

















Trovare uno sbocco creativo all'interno di un sistema lavorativo (cinematografico e non) asfittico come quello italiano è un'impresa davvero ardua; anche per questo, Edoardo Vitaletti ha deciso di portare il suo talento all'estero, direttamente ad Hollywood, dove con appena un cortometraggio all'attivo è riuscito a trovare l'appoggio di Shudder per dare vita al suo esordio nel lungometraggio. E la trama "The Last thing Mary Saw", paradossalmente, potrebbe essere definita come una storia tipicamente americana, fatta di intolleranza ed esclusione che producono violenza, valida nel XIX secolo come oggi. E per Vitaletti, si configura come un esordio imperfetto ma al contempo interessante.



1843. In una tenuta nel nord degli Stati Uniti, soggiogata da una matriarca (Judith Roberts) dedita al fanatismo religioso più bieco, si consuma l'amore "maledetto" tra Mary (Stefanie Scott), rampolla della famiglia, e la serva Eleanor (Isabelle Fuhrman), il quale potrà ovviamente a conseguenze disastrose.



Quello di "The Last thing Mary saw" è un dramma d'amore virato all'orrore dove quest'ultimo è sempre sottinteso, persino quando mostrato in modo diretto. C'è qualcosa di sinistro nella magione, qualcosa che striscia sottopelle e che non è limitato alla "semplice" intolleranza. Il puritanesimo calvinista che condanna ogni forma di "perversione" è una scusante, un puro strumento per mantenere un ordine. "E' Dio a creare il male per legittimare se stesso" afferma Mary durante l'interrogatorio che spezza la narrazione in flashback. Vitaletti opera così su due fronti differenti, affiancando la specifica condanna dell'intolleranza verso l'omosessualità ad un più generico discorso sul potere.


Un potere che sostituisce il patriarcato che tanto cinema woke invoca con un matriarcato altrettanto opprimente. Non conta il sesso, conta solo chi esercita il potere. E la madre qui ha il volto marcato di una Judith Roberts che sembra la versione gender-bender di Klaus Kinski, in grado di comunicare un senso di disagio e terrore primordiale ad ogni sguardo.
E' un potere totale, che non ammette eccezioni che non siano volute e che si legittima proprio tramite queste, tramite la creazione di un "male" da usare come monito per sottomettere il prossimo, un coagulante per creare unità tra individui che perdono la loro specificità per divenire un unico insieme famigliare. Un potere che cela un'origine arcana, aliena e forse demoniaca, ma che fa proprie le forme della parola di Dio per legittimare le proprie azioni, come tanta retorica destrorsa (non solo) americana insegna.
Il dramma dell'amore saffico soffre invece di uno svolgimento "classico", dove tutto è bene o male intuibile, senza guizzi né forza espressiva inedita che sia.



Vitaletti riesce tuttavia a creare un'atmsofera opprimente fatta di luce di candele e interni minimali, primi piani soffocanti spesso messi di profilo e rarissimi campi larghi che spezzano solo in parte la tensione. Narra tutto con un ritmo lento quasi fino all'immobilità, lasciando che siano i sottintesi a parlare, creando un crescendo che deflagra solo in parte nel climax.
Purtroppo, decide altresì di lasciare sin troppo nel non-detto, di non approfondire la mitologia da lui stesso creata, creando talvolta confusione e fermandosi troppo spesso alla superficie di un racconto che ben avrebbe potuto mostrare più sfaccettature, sia sul piano del "genere" che della metafora.


Anche al netto di un'esecuzione talvolta sbrigativa (benché controbilanciata da un ritmo lento), il lavoro di Vitaletti è davvero notevole, perfetto biglietto da visito per una carriera che si preannuncia quantomeno interessante.

lunedì 2 maggio 2022

The Sadness

Ku Bei

di Rob Jabbaz.

con: Berant Zhu, Regina Lei, Tzu-Chiang Wang, Ying-Ru Chen, Emerson Tsai, Wei-Hua Lan, Ralf Chiu.

Horror/Gore

Taiwan 2022















Trovare una forma di originalità nel XXI secolo è opera ardua, persino quando è la realtà a rinfocolare l'ispirazione. "The Sadness", esordio nel lungometraggio di Rob Jabbaz, cineasta di origine canadese trapiantato in Oriente, a prima vista potrebbe anche sembrare un'opera originale, ancorata com'è ad una rielaborazione del contagio di Sars-Cov 2 in chiave horror e gore, ma deve davvero tanto ad altre e più celebri opere del passato, recente e non.


Quella che sembra una comune epidemia di influenza, data dal virus "Alvin", muta improvvisamente in qualcosa di più pericoloso: gli infetti perdono i freni inibitori e si trasformano in macchine assassine assetate di sangue. In Cina, i giovani fidanzati Jim (Berant Zhu) e Kat (Regina Lei), divisi a causa degli impegni di lavoro, cercano di sopravvivere.
Se su tutta la premessa vige lo spettro di quel filmaccio di "Incubo sulla Città Contaminata", più che al cult di serie Z di Umberto Lenzi, Jabbaz e soci sembrano pensare ad un altro cult, di ben altra caratura, ossia l'arcinoto comic "Crossed" del mai troppo lodato Garth Ennis.
Nella sua run originale (2008-2010), "Crossed" portava in scena un'apocalisse in tutto e per tutto simile a quella di "The Sadness", dove un virus dalle origini sconosciute rimuoveva i freni inibitori delle vittime per trasformarle in selvaggi dediti all'omicidio, allo stupro e alla necrofilia. L'unica differenza tra fumetto e film è data dal segno distintivo del contagio: una voglia a forma di croce sulla faccia nel primo, un annerimento del globo oculare nel secondo.


Le similitudini sono tali che "The Sadness" potrebbe davvero quasi essere un adattamento non ufficiale del lavoro di Ennis, fermo com'è nella pura e semplice rappresentazione di un orrore improvviso che sconvolge la vita dei protagonisti e li porta alle estreme conseguenze pur di sopravvivere. E come adattamento, in fondo, non sarebbe neanche male, visto che sembra riprenderne in pieno lo spirito dissacratorio, anarchico e brutale (paradossalmente più marcato nelle storie non scritte da Ennis in prima persona, caratterizzate da un tasso di graficità decisamente più marcato).


"The Sadness" è, sostanzialmente, brutalità allo stato puro. Non c'è quasi mai vera tensione nelle sequenze orrorifiche, il terrore viene dato dal gore, dal body horror fatto di corpi ridotti a cumuli di carne irriconoscibili e dalla depravazione esibita dai carnecifici di turno sulle vittime, come la tradizione del cinema di seri B impone. Ci sarebbe anche, ad un certo punto, la volontà di criticare l'atteggiamento qualunquista della politica verso l'emergenza, ma è un affondo che non raggiunge il suo scopo, con la narrazione che preferisce così ripiegare nei sicuri territori del genere. E', questo, cinema trash allo stato puro e pulsante che non ha bisogno di sovrastrutture morali o tematiche vere e proprie, tutto è subordinato all'effettaccio, alla cattiveria, alla catarsi data dal sangue e, in misura molto minore, dal sesso. Con la conseguenza che tutto viene rimesso allo spettacolo di grana grossa, senza mai cercare di dare di più allo spettatore del semplice disturbo dato dalle immagini forti.
I patiti del gore applaudiranno la volontà di Jabbaz di creare un'opera genuinamente rivoltante, ma chi si aspetta brividi oltre che sangue finirà per odiare questo exploit che vive grazie al coraggio e poco altro.