lunedì 25 luglio 2022

The Gray Man

di Joe & Anthony Russo.

con: Ryan Gosling, Chris Evans, Ana De Armas, Billy Bob Thornton, Jessica Henwick, Dhanush, Alfre Woodward, Wagner Moura, Regé-Jean Page, Shea Wigham, Robert Kazinsky, Julia Butters.

Azione/Thriller

Usa, Repubblica Ceca 2022












I fratelli Russo, ora come ora, siedono praticamente in cima al mondo; dopo aver diretto il più grande incasso della storia (ri-sorpassato solo da "Avatar" e "Spider-Man - No Way Home"), avrebbero potuto fare di tutto, dirigere qualsiasi cosa. Ma ad Hollywood, si sa, questo non conta nulla, forse proprio per questo si sono dovuti rivolgere a Netflix per ottenere i capitali necessari per una produzione multimilionaria basata sul romanzo omonimo di Mark Greaney, ossia qualcosa che non coinvlgesse tizi in costume.
Fatto sta che la libertà d'azione ottenuta non garantisce ovviamente la riuscita di un film. E "The Gray Man" è, in tal senso, non tanto un film malriuscito, quanto un film del tutto privo di originalità, che si aggira tra luoghi comuni e cliché visti e stravisti in decenni di cinema action a tema spionistico senza cercare di interpretarli in modo fresco, tantomeno senza rischiare nulla sul piano stilistico-estetico.



La trama è sempre quella: il super-agente CIA Six (Gosling) scopre un intrigo all'interno dell'organizzazione, i cui dettagli sono custoditi in un mcguffin a forma di medaglione. Disertato a missione conclusa, il buon eroe si trova alle calcagna l'infido Lloyd Hansen (Evans), contractor indipendente che l'ex capo Carmichael (Regé-Jean Page) gli ha sguinzagliato contro per coprire le sue attività illecite. Ad aiutarlo, la bella di turno (Ana De Armas) e come complicazione c'è il rapimento della piccola Claire (Julia Butters), nipote dell'ex mentore Fitzroy (Billy Bob Thornton).




Nulla di nuovo sotto il sole, con una storia che potrebbe tranquillamente essere uscita dalla serie di Jason Bourne e con una sottotrama che sembra ripresa pari pari da "Man of Fire". E nulla di nuovo dice il cast, con Ryan Gosling che fa Ryan Gosling, ossia la sua performance laconica di default che rende questo suo exploit non diverso da quanto aveva fatto in "Drive" o "Blade Runner 2049". Ana De Armas, dal canto suo, si limita a dare corpo e concedere la sua bellezza ad un personaggio che serve solo a far procedere la trama, mentre l'unico a divertirsi è Chris Evans, che chiamato a fare il cattivo pazzo, da sfogo al suo istrionismo caricando ogni scena fino a mangiarsela. 




Anche i Russo si divertono come pazzi a girare sequenze rocambolesche che vorrebbero competere con quelle della serie di "Mission: Impossibile", ma non hanno né il polso, nè l'inventiva adatta. Tutte le scene sono tirate su a dovere, ma mancano di vero mordente, così come di una visione chiara e precisa, spaziando dal realismo più fermo all'esagerazione più caciarona. Un esempio? La sequenza centrale, con la distruzione del tram, che in teoria dovrebbe essere scoppiettante e adrenalinica, ma alla fine risulta tronfia e ai limiti del noioso, complice anche un commento musicale che definire anonimo sarebbe un complimento e che contribuisce in maniera decisiva alla cattiva riuscita del tutto. In compenso, i due registi decidono di strafare usando il drone come bambini al parco, facendolo volare dappertutto, con effetti talvolta risibili. Così come risibile è quel colpo di scena che risolve la situazione nel climax, unico punto esclamativo in una storiella trita e ritrita che così si copre persino di ridicolo.




Tanto che alla fine, "The Gray Man" potrà piacere solo ai fan del cast o a chi cerca un action discreto e del tutto privo di qualsivoglia impegno. Per tutti gli altri, resterà solo un giocattolino privo di nerbo alcuno.

R.I.P. David Warner



1941 - 2022

Con oltre 220 ruoli accreditati, David Warner è stato uno di quei volti immediatamente riconoscibili, benché talvolta agghindati con make-up prostetici pesanti. Ha lavorato con giganti del calibro di James Cameron, Tim Burton, David Lynch, Richard Donner, John Frankeheimer e soprattutto Sam Peckinpah, che lo ha praticamente scoperto. Un attore in grado di passare con disinvoltura da ruoli impegnati ad altri decisamente pop, che si lascia alle spalle una carriera sfolgorante.

R.I.P. Bob Rafelson



 1933- 2022

Della New Hollywood, ha incarnato il lato più umano, quello meno strettamente cinefilo e più vicino ai personaggi, specchi di gente comune stritolata da una società che non comprendono. 
Bob Rafelson è stato un cineasta eclettico, approdato ad un cinema autoriale dopo aver contribuito al successo dei Monkees e che ha poi dato spazio alle capacità di Jack Nicholson, permettendogli di creare alcune tra le sue performance più celebrate. Con lui se ne va un altro pezzo di un periodo storico di irripetibile valore.

venerdì 15 luglio 2022

Beavis and Butt-Head do the Universe

di Albert Calleros e John Rice.

Animazione/Commedia/Demenziale/Fantastico

Usa 2022





















"Beavis and Butt-Head" è il cartone animato più stupido mai concepito. Su questo non ci sono dubbi, dato il fatto che è lo stesso Mike Judge, suo creatore, a considerarlo tale. Ma allora perché è così dannatamente divertente? Perché anche lo spettatore più esigente e intelligente non può trattenere le risate davanti alle cretinate di questo strampalato duo di teenager deficienti fino ai limiti del ritardo mentale?
Semplice: Mike Judge non ci chiede di ridere con loro, ma di ridere di loro, della loro innata e indelebile idiozia, della loro irrefrenabile cialtronaggine e del modo irriverente nel quale incasinano chiunque capiti loro a tiro. Perché se loro sono l'apoteosi dell'idiozia strisciante all'interno delle Generazione X (e non solo), altrettanto stupido è il mondo che li circonda, fatto da criminali sboccati, hippie pazzi, zotici e ragazzini facilmente suggestionabili da role-model totalmente sbagliati, ma fighi all'apparenza; l'unica a salvarsi è quella Daria la quale rappresenta uno sparuto faro di intelligenza in un mondo nel quale il conformismo bigotto e l'ignoranza entusiasta hanno creato una marea di decerebrati (tant'è che il suo show spin-off è tutt'oggi tra i serial più giustamente celebrati di sempre).


Il successo non poteva mancare e con esso le polemiche. Non per nulla, quello di Judge era uno dei primi cartoon pensati per un pubblico adulto, facile quindi è stato farne oggetto di scandalo in quegli anni '90 dove i media erano il perfetto parafulmine per l'ipocrisia latente. E "Beavis & Butt-Head" di critiche ne ha subite, su tutte la ridicola accusa di aver istigato un bambino a dare fuoco al trailer dove viveva con la madre ed il fratello più piccolo, morto nell'incidente; peccato che anni dopo questi abbia confessato di non aver mai visto lo show e di come fosse stato letteralmente costretto a biasimarlo.
Polemiche che non ne hanno affossato il successo: andato in onda tra il 1993 e il 1997, con un revival nel 2011 ed un primo film nel 1996, la creatura di Mike Judge gode ancora oggi dello status di cult. Ed proprio per questo che Paramount+ ha deciso di riesumarla con un nuovo lungometraggio, questa volta direct-to-stream. E se "Beavis and Butt-Head do America" era a suo modo un film memorabile, questo "Do the Universe" è più che altro una sorta di episodio pilota di un'ora e venti che trasporta il duo dagli anni '90 al XXI secolo senza però curarsi di far loro dire o fare nulla di davvero rimarchevole.


La trama è bene o male quella di "Do America": il duo di teenager cretini, come al solito alla disperata ricerca di sesso, finisce nei casini e in un conseguente road movie. Questa volta si ritrovano prima astronauti, per poi essere catapultati nel 2022, inseguiti da una ex astronauta ora governatrice e oggetto delle loro attenzioni sessuali, oltre che dalla CIA che li scambia per alieni.
La formula è sempre quella, con i due cretini che seminano panico mentre il mondo accanto a loro li scambia per geni. E anche le gag bene o male sono sempre quelle, con calci nei genitali, un tuffo in una toilette portatile ed il ritorno del Grande Cornholio. Nulla di nuovo, tutto fatto e visto e, per qualche motivo, la cretinagine del duo oggi come oggi forse risulta stanca e un po' forzata, non ha la forza annichilente di 30 anni fa, anche perché quei "tipi" bene o male non esistono più e Beavis e Butt-Head non sono più la parodia di nulla.



Ben sarebbe servito aggiornarli ai tempi e usare le ossessioni moderne non solo come spunto, ma come oggetto centrale delle gag. Quando il duo si scontra con la modernità, invece, lo fa nel modo più piatto possibile: l'ossessione per gli smartphone è usata come mero mezzo di trama, mentre l'ottusità dei college e la campagna contro il "white privilege" dà vita ad un unica scenetta senza mordente alcuno. Tutto fila liscio, nulla riesce davvero ad imprimersi nella memoria e le gag, pur volgari, di certo non raggiungono i livelli di sboccatagine epica del passato.




La colpa di questa cattiva riuscita è forse da ricercare nella natura stessa del progetto. Mike Judge non ha avuto praticamente nulla a che fare con questo film e gli autori, che pur hanno lavorato ad alcuni "figli" di Beavis e Butt-Head" come "Family Guy", "American Dad" "The Cleveland Show", hanno deciso di non rischiare nulla, di non provocare nessuno, di trincerarsi dentro la zona sicura del già fatto, confezionando un prodottino esangue, utile solo a riportare il duo nella coscienza collettiva odierna.

giovedì 14 luglio 2022

Jurassic World- Il Dominio

Jurassic World Dominion

di Colin Trevorrow.

con: Chris Pratt, Bryce Dallas Howard, Laura Dern, Sam Neill, Jeff Goldblum, Isabella Sermon, DeWanda Wise, Mamoudou Athie, B.D. Wong, Campbell Scott, Omar Sy, Dichen Lachman, Justice Smith, Scott Haze, Daniella Pineda.

Avventura/Fantastico/Thriller

Usa, Cina, Malta 2022













---CONTIENE SPOILER---


"Jurassic World Dominion" è un film stupido, che tratta lo spettatore come un cretino, ma che pretende di essere preso seriamente. La novità? Nessuna. In questo, il kolossal di Colin Trevorrow è il perfetto esponente del filone dei blockbuster imbecilli che Hollywood ci propina almeno dalla seconda metà degli anni '90 e non fa né più, nè meno di sbagliato rispetto a quanto già fatto dai peggiori filmacci di Michael Bay, Roland Emmerich e Wolfgang Petersen. Ma ha anche un difetto ulteriore e del tutto inescusabile: è incredibilmente noioso.


E' decisamente più divertente leggere (e redigere) una lista dei buchi di trama, dei controsensi, dei non-sensi e delle letterali cretinate inanellate da Trevorrow nella bellezza di 150 minuti di film piuttosto che sorbirsi questi 150 minuti di film, flosci come sono. E di cretinate i 150 minuti sono pieni.
Si parte dal presupposto della storia: in appena quattro anni, i dinosauri hanno invaso la Terra. Perché i governi del mondo non abbiamo voluto o potuto arginarne la diffusione è un mistero. Come mai il ritorno di questi predatori alfa non ha sconvolto l'ecosistema e la catena alimentare, è un mistero ancora più oscuro. Il corollario, in compenso, è ancora più idiota: una moraluccia falso-ecologista secondo la quale dobbiamo imparare a convivere con altre specie animali. Molto bello, peccato che se nella realtà i dinosauri tornassero in vita, l'intero ecosistema collasserebbe, ma tant'è, fare i professorini non costa nulla.


Al di là dei presupposti e della morale, non c'è nulla che torna in una trama imbastita con il nulla e infarcita di tutti gli stereotipi possibili. Il mcguffin di turno è una ragazzina-clone di una scienziata talmente geniale che è stata letteralmente in grado di modificarne in DNA dopo averla partorita per partenogenesi. Miracolo della vita asessuato a parte, ci si chiede come abbia fatto a modificare la struttura genetica di un essere vivente fatto e finito, forse ha usato il mutagene delle Tartarughe Ninja o direttamente la magia nera, non è dato sapere.
Il cattivissimo di turno è invece lo Steve Jobs delle industrie farmaceutiche, che ha il monopolio sugli studi della struttura genetica dei sauri, è ricco sfondato, è a capo dell'azienda più potente del globo, ma per qualche ragione decide lo stesso di creare un piano diabolico per distruggere le colture di grano che non usano i suoi semi. Perché mettere a rischio la sopravvivenza della vita sul pianeta per diventare ricchi quando si è già l'uomo più ricco del mondo è l'ennesimo mistero insondabile di uno script che sembra scritto da due alieni 



La "novità" di questo terzo o sesto film della saga, a seconda di dove si voglia cominciare a contare, è dato dal ritorno dei protagonisti del primo film: Sam Neill, Laura Dern e Jeff Goldblum di nuovo su schermo assieme. Peccato che la sceneggiatura non sappia che farsene, anche a causa di un cast già affollato. Laura Dern è l'unica ad avere un ruolo attivo, essendo praticamente il motore della sottotrama sulle locuste giganti, mentre Sam Neill sta sullo sfondo a fare sguardi sarcastici; il personaggio di Goldblum invece serve solo a dire che c'è anche lui con il suo repertorio di battute finto-filosofiche e la parlata strana; per il resto, non fa nulla di davvero rilevante e il fatto che si ritrovi questa rockstar hippie al servizio della megacorporation del male per il solo gusto di facilitarne l'incontro con gli altri due è la cosa più improbabile e meno credibile in un film sui dinosauri transgenici nell'era moderna, il che è tutto dire. Per lo meno, fa piacere notare come i tre attori abbiano ancora carisma da vendere.
Sempre per la gioia dei nostalgici, il cattivo non solo conserva ancora la bomboletta spray di Wayne Knight del primo film, ma fa addirittura la sua stessa identica fine. Gioiscano pure, l'originalità è morta.




I personaggi di Chris Pratt e Bryce Dallas Howard sono invece protagonisti della storyline sul rapimento della ragazzina-clone e del cucciolo di raptor, la quale viene sviluppata come un thriller à la James Bond o Jason Bourne, con tanto di corsa sui tetti di Malta con i velociraptor ad interpretare gli sgherri di turno; e Trevorrow, per non farsi mancare proprio nulla, decide di riprendere un paio di inquadrature da "The Bourne Ultimatum", nel caso non si fosse capito di che pasta sia fatto.
Anche qui la sospensione dell'incredulità va presto a farsi benedire: i raptor non hanno problemi ad inseguire un'auto, ma per qualche motivo non riescono a stare dietro alla Howard quando sta a piedi. La contrabbandiera dal cuore d'oro che si unisce al gruppo viaggia su di un vecchio aereo da cargo sul quale non ha fatto installare i paracadute perché di solito viaggia da sola, ma in compenso ha una poltroncina eiettabile stile caccia... ma non installato al posto del pilota; lo stesso sedile ha poi un dispositivo gps installato... per qualche motivo, il quale permette a Chris Pratt di ritrovare la moglie in mezzo alla giungla... a chilometri di distanza dal luogo dell'atterraggio... giusto in tempo per salvarla dai dinosauri... come no. E sempre Pratt e la contrabbandiera decidono di attraversare un lago ghiacciato passando per il centro, che come tutti sappiano non è assolutamente la parte più fragile.




In tutto questo coacervo di atroci cretinate, Trevorrow riesce sempre a tenere un tono tragicamente serio, senza neanche accorgersi della stupidità del tutto, come solo un perfetto idiota può fare.
Quel che è peggio, getta alle ortiche ogni possibile risvolto spettacolare in scene d'azione prive di mordente e di originalità, riuscendo a rendere blando persino lo scontro finale tra un tirannosauro, un gigantosauro e un raptor gigante. Oltretutto, il montaggio è a tratti aberrante, con mancanza di continuità da un'inquadratura e l'altra all'interno della stessa scena, alla faccia del budget stratosferico e dei valori produttivi faraonici.
"Jurassic World Dominion" è, in parole povere, spazzatura, un incredibile affronto all'intelligenza dello spettatore e alla grammatica filmica, il capitolo peggiore in una serie che già partiva monca e che è riuscita a toccare vette di idiozia inimmaginabili. Forse è meglio lasciare che i dinosauri si estinguano anche al cinema.

lunedì 11 luglio 2022

Thor: Love and Thunder

di Taika Waititi.

con: Chris Hemsworth, Natalie Portman, Christian Bale, Tessa Thompson, Russell Crowe, Taika Waititi, Jamie Alexander, Chris Pratt, Karen Gillan, Dave Bautista, Bradley Cooper, Pom Klementieff, Vin Diesel, Carly Rees, Kat Dennings.

Commedia/Avventura/Fantastico

Usa, Australia 2022














Il fatto che un personaggio come Thor sul grande schermo funzioni meglio come parodia che come eroe epico serioso è davvero paradossale, se non ridicolo. Eppure basta confrontare "The Dark World" con "Ragnarok" per rendersi conto dell'abisso qualitativo che intercorre tra i due toni: mentre il primo prova a presentare un personaggio ironico in un contesto totalmente serioso, senza però sorreggere il tutto con uno script all'altezza, il secondo butta tutto in caciara lasciando il minimo indispensabile di serietà per non creare un film demenziale vero e proprio. Merito di Taika Waititi o demerito di Alan Taylor e soci che sia, il Thor strampalato e un po' coglione dell'autore neozelandese è decisamente più memorabile.
"Love and Thunder" riprende né più nè meno la formula del precedente exploit in solitaria del Dio del Tuono cazzone e la eleva in parte al livello successivo: c'è nuovamente un villain cattivissimo e una storia che bene o male funziona, ma farcita di talmente tanto di quell'umorismo da risultare ad un passo dal demenziale. Chi ha amato "Ragnarok" sarà contento, tutti gli altri decisamente no.





New entries di questo quarto capitolo sono la Jane Foster versione Dio del Tuono e Gorr il Macellatore di Dei. La prima esordisce in un numero di "What if...?" per poi diventare parte effettiva del canone nel 2013; la forsennata rincorsa della Marvel all'inclusivismo porta a ricreare i supereroi di Jack Kirby in chiave femminile ed etnica e Jane Foster, dopo aver scoperto di avere un cancro al seno, riesce a sollevare il Mjolnir e ad ereditare i poteri di Thor, divenendone la nuova incarnazione.
Gorr, d'altro canto, è il protagonista della prima storyline della testata di Thor nell'era Marvel Now ad opera di Jason Aaron, caratterizzata da toni cupi e apocalittici, con il dio norreno costretto ad allearsi con due versioni alternative di se stesso, una passata ed una futura, per sventarne la minaccia.
Imprint cartacei che bene o male ritrovano la loro strada anche su grande schermo: la storia di Jane Foster è pressocché identica, quella di Gorr viene ricreata in maniera più simpatetica. Il Macellatore è ora un uomo comune deluso dalla spocchia degli dei, che arroccatisi nei loro stessi privilegi rendono la fede inutile; trovata la necrospada, unica arma in grado di distruggerli, decide di decimarli per vendicare la morte della figlia, deceduta a causa di una carestia sotto gli occhi di un dio imbelle.


Ovviamente a Taika Waititi non vuole essere un Bergman pop e non gliene può fregare di meno di creare un conflitto più di tanto profondo, del concetto di nobiltà o quant'altro. Il fulcro di tutto è l'umorismo distruttivo e talvolta decostruttivo, che trionfa in una serie di gag e battute al solito efficaci perché mai davvero stupide. E questa volta, può sbizzarrirsi persino usando quei Guardiani della Galassia ai quali la sua visione di Thor tanto deve, facendo sembrare il suo eroe persino più cazzone dello scassato gruppo di James Gunn. Alla fin fine, la sua è giusto una love story tra un vichingo spaziale, un'astrofisica morente, un martello, un'ascia e due capre e va benissimo così.
Per essere onesti, quando poi decide di creare qualcosa di visivamente interessante, ci riesce anche, come nella sequenza ambientata sul pianeta dell'oscurità, dove non esistono colori; o quando gioca con i costumi, vestendo il Dio del Tuono come una comparsa del "Flash Gordon" di De Laurentiis.




Alla fine, tra battute divertenti e personaggi simpatici, Waititi porta a casa un risultato non disprezzabile, un commedia demenziale ma non demente con la giusta dose di (minimale) serietà e tanta spensieratezza, in un blockbuster caciarone ma mai davvero cretino.

venerdì 8 luglio 2022

R.I.P. James Caan



1940 - 2022

Resterà per sempre legato ai suoi ruoli più celebri, ossia quello di Santino Corleone ne "Il Padrino" e Paul Sheldon in "Misery non deve morire". Ma James Caan è stato un interprete ecclettico, in grado di ricoprire senza sforzi ruoli muscolari come in "Rollerball", "Killer Elite" e "Thief- Strade Violente", ma anche di mostrare il suo lato più sensibile in personaggi piccoli e umani come in "Non torno a casa stasera" e "Giardini di Pietra".
Un attore dal talento più profondo e sfaccettato di quanto non potesse apparire a prima vista, Caan lascia dietro di sé una carriera memorabile ed un vuoto incolmabile.

mercoledì 6 luglio 2022

Elvis

di Baz Luhrmann.

con: Austin Butler, Tom Hanks, Olivia DeJonge, Dacre Montgomery, Luke Bracey, Richard Roxburgh, David Wenham, Natasha Bassett, Kodi Smit-McPee, Kelvin Harrison Jr., Elizabeth Cullen.

Biografico

Australia, Usa 2022












I film di Baz Luhrmann si amano o si odiano. Non c'è, forse, via di mezzo riguardo a quello stile caleidoscopicamente postmoderno e perennemente sull'orlo della caciara cialtronesca, che riesce, tuttavia e sovente, a coinvolgere e ammaliare. Ed "Elvis", in tal senso, non è diverso da altri suoi exploit quali "Moulin Rouge!" o "Romeo + Giulietta", pur non vantando l'eterogeneità stilistico-estetica del primo o la caratura drammaturgica del secondo. "Elvis" è un biopic eccessivo, compiaciuto dei suoi colori e della sua inarrestabile dinamicità, che però sa quando rallentare e quando fermarsi, pur avendo sempre un ritmo incalzante e del tutto "anti-classico". E già per questo meriterebbe di essere apprezzato.



Più che un biopic, nelle parole dello stesso autore, il suo è un film su di un supereroe, con un ragazzo di umili origini che diventa una superstar e riesce ad influenzare il mondo che lo circonda, da cui il paragone con il Capitan Marvel della Fawcett del quale il vero Elvis era realmente un grande fan. Ma pur evitando le trappole proprie di tanti biopic e distanziandosi dalla formula creata dall' "Elvis- The Movie" di Carpenter e resa stantia nel corso degli anni, quello di Luhrmann è in primis il ritratto di una figura sofferente, di un artista sfruttato in modo bieco da un manager senza scrupoli.
Elvis era il prodotto del "Colonnello" Tom Parker, un apolide, imbonitore di folle e mezzo artista della truffa che Tom Hanks carica di una forma di arcignità grottesca che lo rende simile ad un supervillain vero e proprio. Un ragazzo per bene, educato e fiero, trasformato in una macchina del merchandise, reso prigioniero da contratti truffaldini che ne hanno castrato la carriera e con un immagine creata ad arte per essere rivenduta alle folle.




Al di là del rapporto schiavistico con Parker, Luhrmann rivolge il suo sguardo verso il fenomeno di Elvis e il suo impatto sulle masse. I rapporti famigliari e amicali e persino quello con Priscilla vanno in secondo piano, relegati talvolta a piccole scene fin troppo stilizzate e ai limiti della soap opera. Vice versa, il fenomeno trova ampio spazio: Elvis il ribelle, Elvis l'anticonformista, Elvis la superstar; e poi Elvis schiavizzato nella gabbia dorata di Las Vegas, in una parabola discendente che evita il cliché del ritorno in forma finale per concludersi con un'amara nota calante.




La figura del Re questa volta ha più ombre. La tossicodipendenza non viene sottaciuta, così come la depressione, ma si tende a ricondurre questa sua oscurità al rapporto con il Colonello. Allo stesso modo, l'influenza della musica nera trova qui più spazio, ma il rapporto ambiguo con Little Richard viene furbescamente arginato in modo da non dare adito al tema dell'appropriazione culturale (senza nemmeno voler sostenere se sia davvero possibile parlare di appropriazione culturale nella musica e nell'arte in generale). Similmente, il rapporto con Nixon non trova spazio, lasciando al pubblico l'impressione che il Re del Rock sia sempre rimasto un liberal convinto.
Il ritratto che ne emerge è così semplicemente quello di un artista dotato e rivoluzionario, la cui carriera è stata distrutta da un manager privo di scrupoli che lo ha usato fino a distruggerlo. Descrizione vicina alla realtà e che bene o male ne rende bene la caratura, ma nel cui racconto mancano sequenze davvero memorabili, nonostante l'ottima performance di Austin Butler, che riesce persino a cantare alcune delle canzoni, cosa non da poco.




Il resto è una sarabanda di immagini sfavillanti e barocche che ben si attagliano al personaggio, ma che non riescono mai ad essere davvero memorabili, unico vero difetto di un biopic sentito, abbastanza preciso e tutto sommato coinvolgente.

venerdì 1 luglio 2022

Mad God

di Phil Tippett.

con: Alex Cox, Niketa Roman, Satish Ratakonda, Harper Taylor.

Animazione/Fantastico

Usa 2021















E' del tutto comprensibile che in un'industria come quella dell'animazione occidentale, dove ogni singolo film deve necessariamente avere per protagonista un animale parlante o una principessa canterina, pena la non-esistenza, un film estraniante e anticonvenzionale come "Mad God" sia stato messo ai margini, ignorato dalle major e sia riuscito a trovare distribuzione solo nei circuiti "d'elite" dei festival.
Del tutto incomprensibile è invece il fatto che una figura apprezzata come Phil Tippett abbia faticato come un cane per trovare i fondi necessari per completarne gli appena 84 minuti: va bene non dargli il risalto che un film più vendibile possa avere, ma costringere un autore a tacere piuttosto che conformarsi allo standard bassissimo dell'aniazione mainstream è davvero troppo.



Troppo perché un veterano dell'animazione passo-uno come Tippett dovrebbe essere messo nelle condizioni di poter lavorare in modo concreto anche su di un progetto così estremo e estraneo. Non per altro per il credito che il suo curriculum gli garantisce: comincia come animatore in "Guerre Stellari" e "L'Impero Colpisce Ancora", continua come supervisore agli sfx in "Indiana Jones e il Tempio Maledetto" e "Howard e il destino del Mondo", crea le ancora oggi sbalorditive animazioni dell'ED-209 in "RoboCop" e di RoboCaine nel sequel, oltre a supervisionare gli effetti di "Jurassic Park", "Dragonheart" e "Starship Troopers". Insomma, un nome che ha un certo peso ad Hollywood e che nonostante questo ha terminato il suo progetto personale lavorando nei weekend e con l'aiuto di volontari, impiegando oltre 30 anni.
E "Mad God" certo non delude, con le sue animazioni stupefacenti ed un comparto visivo che definire visionario sarebbe estremamente riduttivo. Il suo valore potrebbe anche fermarsi qui e configurarsi lo stesso come un'opera incredibile, se non fosse che il suo (anti) significato la rende altrettanto memorabile.




Il registro narrativo è ermetico. Anzi, è decisamente anti-narrativo: tolta una citazione iniziale del Levitico e una cantilena in italiano, non ci sono dialoghi che non siano vagiti infantili o versi di animali, quindi non ci sono dialoghi. La regia inoltre ibrida tre diversi stili, ossia lo stop-motion, l'animazione bidimensionale e la ripresa live-action per dare vita ad un incubo costante, dove nulla è familiare, tutto, dal mondo ai personaggi che lo popolano, sembra uscito dall'incubo di uno Hyeronimous Bosch o di un Escher sotto psicofarmaci mentre guarda le allucinazioni di un Terry Gilliam particolarmente ispirato. Forse non c'è un significato univoco in queste immagini ammalianti, né nelle visioni sconvolgenti, tantomeno i simbolismi religiosi, barocchi oltre il puro post-modernismo, sembrano voler dare una chiarificazione al tutto.




Il mondo di "Mad God" è perso nella dannazione. Un mondo nel quale l'anatema divino del Levitico ha avuto luogo, dove la violenza è l'unica costante, con i deboli che vengono schiacciati dai forti, dove la vita non conta nulla, tanto che può evaporare in una questione di attimi senza lasciare nulla dietro di sé.
I simboli non si contano, ma su tutti, per forza di cose, a colpire è la ricontestualizzazzione del monolite, simile a quello di "2001: Odissea nello Spazio", il quale diventa strumento di morte anzicché di vita.
Qual'è il possibile significato di questa sarabanda di immagini ipnotiche e ossessionanti? Difficile dirlo. Similmente all'ermetismo lynchiano, quello di Tippett è un registro narrativo che chiede allo spettatore di mettere una parte di se stesso nella narrazione. Ciò che si comprende su di un piano oggettivo è la presenza di un demiurgo, denominato "Ultimo Uomo" (interpretato dal regista Alex Cox) il quale invia uno o più assassini in un mondo sotterraneo. Un mondo sotto il mondo o un mondo sotto un ideale empireo. Un mondo corrotto, distrutto dalla violenza, dallo sfruttamento e dalla malattia, da vere e proprie piaghe bibliche, oltre che dalla mostruosità dell'uomo, dalla sua volontà di sottomettere il prossimo che oramai si è tramutata in un sistema sociale vero e proprio.



Un dio vuole distruggere un mondo corrotto o forse un uomo si arroga il diritto di ricreare il mondo a sua volontà. Ma non è il significato per sé stesso delle immagini a contare, quanto la sensazione che queste trasmettono.
"Mad God" vuole infastidire i sensi e disturbare la mente con un immaginario disgustoso, sgradevole e perennemente scostante e in questo Tippett riesce perfettamente a spiazzare ad ogni singola immagine.
Il grande valore di "Mad God" è in fondo tutto qui: creare una narrazione puramente immaginifica, raccontare una storia facendo a meno degli strumenti più convenzionali come i dialoghi e i simbolismi facilmente identificabili, per affidarsi alle sensazioni e alle conseguenti emozioni. Il che lo rende un piccolo capolavoro di animazione espressionista, adulto tanto nell'immaginario quanto nel racconto.