mercoledì 31 agosto 2022

Crimes of the Future

di David Cronenberg.

con Viggo Mortensen, Léa Seydoux, Kristen Stewart, Scott Speedman, Lihu Kornowski, Don McKellar, Nadia Litz, Tanaya Beatty, Welket Bunguè, Efi Kantza, Sotris Siozos.

Cyberpunk

Canada, Regno Unito, Grecia 2022















---CONTIENE SPOILER---

David Cronenberg è stato chiaro sin dall'inizio: "Crimes of the Future" è il punto d'arrivo di tutta la sua riflessione body horror e cyberpunk. Non una riflessione finale, come si poteva intuire, visto l'annunncio, a sorpresa, della produzione del prossimo "The Shrouds", quanto una riflessione definitiva che incorpora quasi tutto quello da lui analizzato in buona parte della sua filmografia.
Il titolo, in proposito, è al contempo chiarificatore e ingannevole. Si ritorna alle origini, al body horror genuino, alla visione di un futuro alle porte dove il corpo umano è diventato "altro", mutato, adattato ad un ambiente nuovo, moderno, che ne ha rettificato forma e funzioni. Si torna agli inizi della carriera di Cronenberg, al 1970, a quel "Crimes of the Future" che assieme all'immeditamanete precedente "Stereo" lo ha portato al lungometraggio e gli ha permesso di intessere le sue prime riflessioni filosofiche.



Le similitudini tra il "Crimes of the Future" del passato e quello del presente sono però labili. Il primo, di fatto, immaginava una società dove l'abuso dei cosmetici ha portato all'estinzione del genere femminile, con la nuova umanità costituita da soli uomini e bambine pre-pubescenti, dove la violenza la fa da padrone e la pedofilia diventa, per forza di cose, una forma di sessualità necessaria, con la mostruosa scena finale dell'accoppiamento tra il protagonista e una bambina, costruita però in modo totalmente casto, a chiudere tutto con una nota di sottile disgusto; mentre, sullo sfondo, una serie di mutanti sembra costituire un grado successivo dell'evoluzione. E tra questi, spicca una scienziato artista i cui organi tumorali pienamente formati divengono delle nuove opere d'arte.
E' da quest'ultimo dettaglio, incapsulato in un'unica scena, che il grande artista canadese riparte per creare una nuova riflessione che si riaggancia alle sue opere precedente. Il nuovo "Crimes of the Future", più che un remake di quel mediometraggio, è un'evoluzione di quanto visto in "Inseparabili", "Crash", "eXistenZ" e "Cosmopolis", con in più un accenno a "La Promessa dell'Assassino", la cui visione e assimilazione è necessaria alla visione più dello stesso medio originario da cui prende il nome.
Necessaria è però anche la visione del corto "The Death of David Cronenberg", opera piccolissima (di neanche un minuto di durata), dove l'artista porta in scena la sua morte o, per essere più precisi, l'accettazione della morte. La morte diventa così espressione artistica definitiva, atto voluttuario verso la soddisfazione dell'impeto artistico, punto di ovvio non ritorno per qualsiasi creativo.




Il mondo di "Crimes of the Future" è un mondo dove la morte non ha più significato. O, per meglio dire, non ha più il significato che normalmente le si attribuirebbe. Un mondo appena dietro l'angolo, dove il dolore fisico è scomparso e il corpo umano è una macchina mutante che produce nuovi organi. Privata del dolore, la morte e, prima ancora, la flagellazione del corpo divengono esperienze cognitive naturali. La seconda, per ovvi motivi, diventa nuova esperienza sessuale: purgata dai risvolti negativi, la violenza sulle carni diviene nuovo sesso, esperienza corporale votata alla soddisfazione di una libido solo apparentemente distruttiva. E Cronenberg, ora come non mai, riesce davvero a rendere le ferite sensuali, a trasformare la mutilazione in esperienza sessuale voyeuristica, dove i corpi delle bellissime attrici (in particolare di una Léa Seydoux sensualissima) vengono distrutti per sublimarne la carica erotica.




La chirurgia, di conseguenza, è il nuovo sesso e il corpo la nuova tavolozza su cui creare arte. Il famoso "concorso di bellezza interiore" auspicato in "Inseparabili" qui diventa quasi realtà, ma ancora prima è l'interno del corpo a divenire arte. Il protagonista, Saul Tenser (Mortensen), è un mutante i cui tumori divengono nuovi organi funzionanti; l'asportazione degli stessi, con l'aiuto della assistente ed ex chirurga Caprice (Seydoux), è performing art, la quale viene eseguita tramite il modulo Sark, un ex capsula concepita per eseguire le autopsie. La morte è arte già in questa prima fase e lo diverrà definitivamente alla fine.




Prima ancora del corpo umano, è il mondo ad essere cambiato, ad essere mutato. La tecnologia è quella del (finto) mondo di "eXistenZ": il metallo praticamente non esiste, ogni congegno è esso stesso carne, nonché organo esterno deputato a supplire le carenze di quelli interni, come il letto che permette a Saul di dormire o la "sedia colazionista" che gli permette di mangiare.
Andando oltre e usando in maniera magistrale le location greche, Cronenberg porta in scena il cadavere in putrefazione della vecchia società, costituito da relitti spiaggiati e palazzi fatiscenti, nei cui meandri si muove una nuova umanità, una nuova "carne" dove la mutazione è inizialmente volontaria. Con la scomparsa del dolore fisico, la modifica volontaria del corpo, oltre che atto artistico, diventa passatempo, moda. Si ha così una prima scissione nella razza umana, ossia nuova e vecchia carne. Se la prima è data da Saul, i mutanti e coloro che hanno accettato l'evoluzione corporale-erotica, la seconda è quella dei burocrati, relitti di una realtà kafkiana persi in una routine che ne ha affossato i sensi, i quali vengono risvegliati dal contatto con la nuova frontiera erotica. Da cui i personaggi di Don McKellar, che finisce per divenire un cantore della bellezza interiore, e soprattutto di Kristen Stewart, la quale entra in scena muta solo per risvegliarsi totalmente una volta che tocca la carnalità di Saul.



Oltre coloro che hanno abbracciato la nuova carnalità, ci sono i nuovi umani, coloro che hanno mutato il corpo per meglio assimilare ed essere assimilati dall'ambiente. Coloro i quali hanno deciso di dotarsi di un apparato digerente in grado di digerire la plastica, nell'intento di riassorbire gli scarti creati dall'uomo moderno. E poi, ancora oltre, i mutanti fatti e finiti, coloro i quali, sfidando ogni legge di natura, nascono con queste modifiche, come Bracken, figlio di coloro i quali hanno deciso di mutare il quale ha ereditato la mutazione naturalizzandola.
La performing art prende così ad oggetto la morte, il cadavere di un essere avente una nuova biologia, per farsi divulgazione scientifica, manifesto politico-evolutivo di una nuova razza umana. Da cui il ruolo duplice di Saul, da un lato artista, dall'altro profeta del cambiamento; tanto che è fin troppo facile vedere nel make-up e nel taglio brizzolato di Viggo Mortensen la maschera di Cronenberg, che diviene parte integrante della sua arte, con un personaggio che si muove silenzioso nell'ombra, ascoltando, indagando, riflettendo e poi mostrando al pubblico il frutto delle sue elucubrazioni ed esperienze. Sino ad un finale dove il personaggio accetto la sua nuova carne, mentre l'autore diventa tutt'uno con la sua opera e la sua filosofia.




Ma il climax della vicenda è anche una contro-mutazione, un ritorno ad una forma umana pre-evoluta, più vicina a quella "canonica": alla vista del cadavere di Bracken, Caprice ha sussulto umano, ritrova quella sensibilità empatica che la mancanza di dolore fisico le aveva tolto. E Cronenberg sembra quasi sottolineare questa ritrova umanità come un guadagno, come essa stessa forma evolutiva ulteriore, sintesi del vecchio e del nuovo, accettazione del sé al pari di quella di Saul.




"Crimes of the Future" è così una fusione indelebile sia sul piano tematico che su quello metanarrativo tra opera e autore, tra tematica e riflessione, tra filosofia e filosofo. E, al di là di questo, è un'opera al solito magnificamente condotta, splendidamente fotografata da Douglas Koch (che qui sostituisce il fidato Peter Suschitzky) e accompagnata dalle magnifiche note di un Howard Shore in gran spolvero.
Un'opera al solito complessa e affascinante, quantomai sensuale e disturbante anche all'interno della filmografia di un autore che dimostra di avere ancora molto da dire.

venerdì 19 agosto 2022

Nope

di Jordan Peele.

con: Daniel Kaluuya, Keke Palmer, Steven Yeun, Brandon Perea, Michael Wincott, Wrenn Schmidt, Keith David, Devon Graye, Terry Notary, Donna Mills, Barbie Ferreira.

Usa 2022

















---CONTIENE SPOILER---

Ad un tweet nel quale un utente scriveva trionfante, all'indomani dell'uscita americana di "Nope", di come Jordan Peele sia il più grande regista horror mai esistito, Peele ha risposto in maniera secca come in realtà il miglior regista horror di sempre sia John Carpenter e di come l'autore della frase facesse meglio a posare il telefono e a guardare più film.
Al di là dell'onestà intellettuale del regista (di questi tempi a dir poco ben accetta), va comunque notato come il povero twittatore blastato avesse forse ragione ad entusiasmarsi. Jordan Peele è sicuramente l'autore di genere americano più interessante degli ultimi anni e "Nope" ne conferma pienamente il talento dopo i folgoranti "Get Out" e "Us".




E "Nope" rappresenta anche una prima (momentanea?) svolta nella carriera del regista, dove per la prima volta il registro di genere non è asservito ad un testo di stampo politico-sociologico. La natura di afroamericani dei protagonisti non ha davvero un peso negli eventi e si esaurisce nella loro mera lontana parentela con il fantino che ha condotto il cavallo durante la famosa ripresa denominata "Sallie Gardner at a Gallop".
"Nope" è più un film sul cinema, sull'ossessione per la cattura di immagini spettacolari. Lo stesso Peele ha citato come fonti di ispirazioni "King Kong" e "Signs" (oltre che "Neon Genesis Evangelion" per il design finale della creatura, che tra l'altro si somma ad una bella citazione di "Akira"), ossia film dove sono la componente spettacolare e la suspense a trainare la storia. E infatti la sua altro non è che una storia sullo spettacolo, che si sostanzia principalmente anche se non esaustivamente nella sottotrama sullo scimpanzé Gordy.
E' dedicata a lui la cold open, che ci fa credere come la storia di questa scimmia responsabile suo malgrado di una strage sia parte integrante del racconto. Ma questa è in realtà solo una storia tangente, utile a rinforzare la caratterizzazione del personaggio di Steven Yeun e la tematica trainante: noi, in quanto spettatori, siamo attirati dalla visione di creature strane, che esulano dalla nostra quotidianità, soprattutto quando queste si rivelano come predatrici, responsabili di azioni tanto crudeli quanto spettacolari. Oltre alla stabilità impossibilità, nella storia, di poter domare per davvero un predatore.




Tutto il film si concentra sull'atto del guardare. Come spettatori, siamo solitamente chiamati a guardare ciò che accade su schermo, a fissare le azioni dei personaggi dettate dal mostro di turno. Ma il mostro, come Hitchcock insegna, meno viene mostrato, più crea tensione. Peele gioca su quest'aspetto chiedendo anche ai personaggi di non guardare, di legare la loro sopravvivenza al distogliere lo sguardo. Noi, d'altro canto, siamo gli unici che possiamo ammirarlo in tutto il suo terrorifico splendore. Non un atto scopofilo, quanto quello, più basilare e umano, di meravigliarsi di fronte a qualcosa di inusuale.
Da cui deriva la storia di questi personaggi che decidono di documentare, di dare una visione chiara e definitiva su di un criptozoide, forse alieno, forse no, definitivamente qualcosa di lontano dalla nostra realtà. Con la conseguenza che la ripresa diventa atto necessario e la spettacolarizzazione un imperativo. Peele gira tutto in IMAX, cosa inedita per un "semplice" horror, rendendo tutto più grande, più spettacolare, più vivo.




Peele come sempre maneggia magnificamente la tensione e rende la visione sempre tesa, confermando definitivamente il suo talento di autore di genere che con questa nuova fatica trova nuove vie espressive e originalità.

lunedì 15 agosto 2022

Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto

di Lina Wertmüller.

con: Giancarlo Giannini, Mariangela Melato, Riccardo Salvino, Isa Danieli, Aldo Puglisi, Anna Melita.

Commedia

Italia 1974

















Esistono film che oggi come oggi sarebbero infilmabili, non perché invecchiati male, ma perché troppo audaci, troppo lontani da un costume che tende a "cancellare" qualsiasi idea o rappresentazione sociale ritenuta scomoda o comunque lontana dal paradigma migliore. "Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto" è l'esempio perfetto e definitivo di questa categoria di pellicole fin troppo intelligenti e provocatorie per il pubblico moderno.
In proposito, la mente corre ovviamente alle famosissime sequenze degli schiaffi di Giannini verso la Melato e si sarebbe anche corretti. In un mondo dove la donna deve essere sempre e comunque rappresentata come sacra, vedere un uomo (per di più dall'aspetto smaccatamente mascolino) prenderne a ceffoni una e riempirla anche di insulti farebbe iperventilare i sensibilissimi snowflake fino allo svenimento, come minimo. 
Ma l'audiacia del film della compianta Lina Wertmüller non si ferma al solo confronto fisico tra due personaggi opposti, passando necessariamente per la loro caratterizzazione. E caratterizzare oggi come oggi un personaggio femminile come viziato e borioso in maniera volontaria, per sottolinearne i difetti e dare un'immagine negativa di un certo tipo di persone pur effettivamente presenti nella società civile, farebbe andare le femminaziste su tutte le furie.
Proprio per questo, oggi è a dir poco necessario rivedere un film del genere, che dava un ritratto acido e preciso di una società che dal 1974 è in realtà cambiata pochissimo.




Il modello è dato dal capolavoro di John Boorman "Duello nel Pacifico", del 1968, che qui viene riscritto per affrontare le tematiche della contrapposizione sociale e della guerra dei sessi nell'Italia degli anni '70 (similmente a quanto fece Marco Ferreri giusto due anni prima con "La Cagna").
I luoghi dello scontro sono lo yacht e l'isola, dove la gerarchia di classe, in un mondo o nell'altro, regna.
La yacht come rappresentazione della società capitalistica (finto) benestante della seconda metà del XX secolo. Da un lato, i borghesucci, romanacci tanto ricchi quanto cafoni e milanesi che si atteggiano a gran signori solo per celare la loro più totale inconsistenza. Raffaella Pavone Lanzetti (la Melato) è così rappresentazione sia dell'alta borghesia, sia (più in particolare) della donna alto borghese. Una donna tanto bella quanto insopportabile, che spende il suo tempo lamentandosi di tutto credendo così di sfoggiare una forma di intelligenza, ma che finisce solo per sottolinearne lo status di riccastra viziata.




Gennarino Carunchio (Giannini) ne è l'esatto opposto: silenzioso (almeno all'inizio), sottoproletario che esiste solo per ricevere ordini e compiacere i padroni, la cui unica valvola di sfogo consiste negli insulti esclamati a denti stretti (il mitico "bottana industriale socialdemocratica").
Gennaro è agli occhi di Raffaella uno schiavo, un subumano (definito "negro" perché siciliano, a sottolinearne la natura barbarica) che deve essere asservito alla soddisfazione dei piccoli piaceri e che deve essere rimproverato ogni qual volta qualcosa, pur piccola, non va, come il caffè caldo, la pasta troppo poco cotta e via dicendo.
Ma la caratterizzazione (e il ruolo) di Gennaro negli eventi non è quella del semplice schiavo che ribella e sovverte l'ordine sociale ribaltandone i termini. Per quanto vittima dei padroni (e sorta di proto-Fantozzi giusto un pelo meno iperbolico), Gennaro non è l' "eroe" della storia, non essendo esente da difetti caratteriali, in primis la misoginia, data da una visione della donna ormai arcaica, secondo la quale la donna deve essere subordinata al maschio (ma di fatto non meno retrograda del ruolo che le donne ricche hanno nel film); in secondo luogo, l'ipocrisia, passando tutto il film a sottolineare la lascivia dei ricchi, solo per poi scoprire come anche lui sia in realtà marito e padre di famiglia e il suo rapporto con Raffaella non lo rende meno "perverso" dei suoi opposti.
La Wertmüller, pur comunista e femminista fervente, non fa sconti a nessuno e più che celebrare il trionfo di una parte sull'altra. si limita a descriverne lo scontro e le relative conseguenze.




Sull'isola, i termini si invertono. Eliminata ogni struttura sociale, l'essere umano torna alla sua forma più basilare. E privata del potere a lei garantito dal puro status sociale, la borghesaccia logorroica si scopre del tutto incapace di provvedere a se stessa, di poter soddisfare i bisogni primari. Il proletario, uomo di vita, d'altro canto non ha problemi a procacciarsi il cibo, a sopravvivere tranquillamente in una situazione per altri mortale.
Ma prima ancora, prima che venga ad instaurarsi un rapporto a termini inversi, si ha la rivolta: la presa di coscienza già presente in Gennaro si esterna a suon di schiaffi e insulti questa volti gridati a gran voce. Laddove nella società civile era tenuto a rispettare la padrona e a soddisfarne la vanità, ora non deve più nulla e spezza il vincolo di subordinazione in maniera violenta, affermando la propria dignità di essere umano.
Il rapporto si inverte e viene ora basato sulla forza effettiva, sulle capacità innate piuttosto che concesse dallo status quo. E il primo gesto, di rivalsa e umiliazione, è dato dal baciare la mano del padrone, la sottomissione totale e volontaria ad un maschio alfa dai cui capricci ora dipende la vita.
La prevaricazione fisica e morale diventa vendetta sociale. E persino il sesso diventa mezzo di sottomissione: nella famosa scena dello stupro, l'atto non viene consumato, l'uomo volendo potrebbe sottomettere la vittima e prenderne il piacere, ma si ferma non per rispetto, ma per umiliarla ulteriormente, costringendola a chiedere di sua volontà l'afflato sessuale, a sottomettersi volontariamente al padrone anche sul piano sessuale e affettivo.



Il rapporto di subordinazione tra classi (in questo caso sessi) viene così solamente ripensato e ancorato ad un contesto diverso. La "nuova società" non è per forza di cose migliore di quella vecchia, essendo pur sempre basata sull'asservimento e la sottomissione. E' semmai più sincera ed equa: il lavoro deve essere diviso, la sopravvivenza viene guadagnata, non ottenuta automaticamente, il vizio cede il passo alla sincerità. I due protagonisti forse non diventano migliori, con Gennarino che resta sempre irsuto e scontroso e Raffaella che resta pur sempre ancorata ad un sistema dal quale dipende in toto; ma laddove prima esisteva un conflitto insanabile che generava un'antipatia feroce, ora c'è comprensione, si potrebbe dire "amore".




Spogliati di ogni attribuzione sociale, l'uomo e la donna si riscoprono come tali. Riportati all' "anno zero" e costretti ad intessere un rapporto primordiale, il romanticismo che ne consegue è puro (benché incrostato dalle convinzioni ataviche sul ruolo dei sessi). Proprio per questo è impossibile per loro protrarre il rapporto una volta tornati all'interno di quella società che li aveva distanziati, la quale li riporta al loro status originario e ne distrugge ogni evoluzione.
Ed è proprio questo l'aspetto più dirompente del film. Laddove in "Duello nel Pacifico" la forma di intesa dei personaggi veniva cancellata da un reinserimento sociale che passava per il conflitto armato e che quindi poteva essere superato in un ipotetico periodo di pace, per la Wertmüller non può esserci comprensione all'interno della società proprio per la sua struttura, oltre che a causa dell'innata codardia delle persone, le quali preferiscono ritornare all'interno del loro ruolo piuttosto che preferire la soddisfazione umana e romantica.




E' proprio questa franchezza pessimistica, questo suo voler non fare sconti a nessuno, oltre che la forma diretta di rappresentazione del conflitto, che rende "Travolti da un insolito destino nell'azzurro mare d'agosto" un film che ad oggi potrebbe essere indigesto: troppo crudo per compiacere quella (grossa) fetta di pubblico che vuole solo vedere confermate le sue posizioni e che non vuole accettare alternative, anche quando queste sono veritiere e fondate.
Il che è ancora più imbarazzante laddove si realizzi che questi due personaggi sono ancora oggi una perfetta maschera italiana: saranno anche tramontati la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista classico, ma di ipocriti viziati è ancora piena l'Italia. Il che rende il cult della Wertmüller ancora fresco, oltre che riuscito. Purtroppo.

venerdì 12 agosto 2022

Le mie notti sono più belle dei vostri giorni

Mes nuits sont plus belles que vos jours

di Andrzej Zulawski.

con: Sophie Marceau, Jacques Dutronc, Valérie Lagrange, Myriam Mézieères, Laure Killing, François Chaumette, Sady Rebbott, Salim Talbi.

Francia 1989















Appena dopo la "ricostruzione" di "Sul Globo d'Argento", Andrzej Zulawski ritorna in Francia per dirigere una nuova pellicola con la compagna Sophie Marceau, dopo il buon esito del precedente "Amour Braque". Il punto di partenza è dato questa volta dal romanzo omonimo di Raphaële Billetdoux, ma sfortunatamente Zulawski non riesce a trarne una storia dal contenuto davvero interessante, finendo per filmare il suo film peggiore.



Lucas (Jacques Dutronc) è un geniale programmatore informatico al quale viene diagnosticata una malattia cerebrale che lo porterà alla morte. In un cafè di Parigi, incontra per caso la bellissima Blanche (Sophie Marceau), showgirl in procinto di fare il grande salto. L'attrazione tra i due esplode subito, ma la loro storia non è certo delle più tranquille.




Due persone segnate dal male, presente e passato. Lucas, di stirpe nobile, porta ancora addosso il trauma infantile legato all'omicidio della madre da parte del padre. Blanche viene chiamata a confrontarsi quotidianamente con il ricordo dell'ambiente domestico violento in cui è cresciuta. Lui soffre per la consapevolezza di una malattia che lo consumerà di lì a poco, lei è persa in una forma di depressione acuita dallo strambo rapporto con la madre e con un marito per il quale sembra rappresentare una proprietà più che altro.
I due trovano affermazione dapprima nel lavoro, lui avendo appena creato un linguaggio informatico destinato a rivoluzionare il settore, lei usando la sua dote innata di chiaroveggenza per splendere come starlette dell'avanspettacolo. Consolazione vacua, che forse proprio per questo accende la loro passione.




Una passione fisica, ma prima ancora intimamente romantica, un rapporto dato da una comunanza di intesa quasi innata. Una relazione che, come da sempre nella narrazione zulawskiana, prende le forme del delirio, dove le parole non hanno vero significato. I dialoghi, mai come ora, sono vacui, quando non veri ostacoli alla comprensione effettiva tra i due protagonisti, i quali finiscono per allontanarsi un po' alla volta ogni volta che hanno un incontro verbale; da cui il vezzo di Lucas di giocare con le parole, come a sottolinearne la totale inutilità, la raggelante assenza di significato effettivo in costrutti e vocaboli che alla fine sembrano assomigliarsi tutti pur portando significati diversi (rendendo necessaria la visione in lingua originale, consigliata anche a causa dell'irreperibilità del film in lingua italiana).




Quasi sulla scia di Godard, Zulawski decide anche lui di distruggere il linguaggio convenzionale e lasciare che siano le immagini, i volti e i corpi degli attori, a dettare la narrazione. Persino il suo stile di messa in scena trova qui una serie di variazioni: i movimenti di macchina sono decisamente più controllati, l'uso dei grandangoli è quantomai parsimonioso, mentre abbondano i primi piani con sguardo a filo di macchina, resi ancora più penetranti grazie alle ottimeprove degli attori.
Sfortunatamente, la narrazione non ne esce mai davvero coesa e la storia, a sua volta, non trova alcuna forma di incisività.




La storia di Lucas e Blanche, il loro dramma, i risvolti sovrannaturali dati soprattutto dalla visione del primo del fattorino nano, lo sfruttamento di lei da parte del suo enturage e la gelosia del marito, non vanno a parare da nessuna parte. Il racconto si contrae su sé stesso fin dalle prime battute, dimenandosi nella più pura ricerca del bello, tanto che alla fine a trasmettere qualcosa sono davvero solo il volto di Jacquest Dutronc e la bellezza di Sophie Marceau, qui forse all'apice. Persino la conclusione è la più ovvia e scontata possibile.




Zulawski si perde così alla vana ricerca di una forma di originalità in una storia che gli consente voli pindarici privi di sostanza alcuna, finendo spesso per annoiare. La colpa è forse del romanzo alla base, forse dell'incapacità dell'autore di trarne qualcosa di effettivo valore, non è dato sapere. Quel che resta è un film tanto bello nelle immagini, quanto inutile.

lunedì 8 agosto 2022

Prey

di Dan Trachtenberg.

con: Amber Midthunder, Dakota Beavers, Dane DiLiegro, Stormee Kipp, Michaelle Thrush, Julian Beck Antelope, Stefany Mathias.

Azione/Fantastico

Usa 2022

















Miglior film di Predator dai tempi di John McTiernan? Forse. Di certo, "Prey" ricerca e riesce persino a trovare, alla fin fine, una forma di originalità grazie all'ambientazione e alla protagonista (quest'ultima originale solo nell'ambito dei film della serie, essendo praticamente la prima protagonista donna). Ma usare una scusa del genere per eclissare il lavoro fatto da Stephen Hopkins, Nimròd Antal e Shane Black è davvero ingiusto nei loro confronti laddove si realizzi che, benché afflitti da difetti, i loro sequel al cult dell' '87 dimostravano un'ambizione certamente maggiore, quantomeno nella costruzione delle sequenze action ed in termini di pura spettacolarità.




Il film di Trachtenberg non ha vere sbavature, la suspense bene o male funziona e le scene d'azione sono tutto sommato ben eseguite, ma manca di vero mordente, di una vera sequenza in grado di far sbarrare gli occhi per il piacere. Non c'è vera spettacolarità nelle scene di caccia, né in quelle di massacro e persino la risoluzione degli eventi non riesce ad avere la forza catartica che dovrebbe. L'unica scena un attimo degna di nota è ovviamente quella del piano-sequenza durante il combattimento all'accampamento dei trapper, la quale però non riesce lo stesso ad essere memorabile.
La colpa non è data tanto dal periodo storico scelto per ambientare la vicenda, né dall'uso di armi bianche per i combattimenti, che anzi avrebbe dovuto garantire un tasso persino maggiore maggiore di cura nelle coreografie rispetto alle solite sparatorie contornate di esplosioni ormai monotone; la colpa è tutta di una regia che non ha vera inventiva, tantomeno una verve giusta per valorizzare quanto riportato nello script.




In compenso, "Prey" decide di giocarsi la carta del politicamente impegnato, con una moraluccia sulla superiorità delle donne nella caccia che lascia più che altro perplessi. Sono finiti i tempi di "Aliens" e dei primi due film su Terminator, dove non c'era bisogno di dialoghi forzati a sottolineare le capacità dell'eroina di turno, la quale a sua volta non doveva dimostrare niente a nessuno e per questo incarnava in maniera magistrale il ruolo di donna forte (o semplicemente di donna o, ancora più precisamente, di eroe action). Trachtenberg e soci ci tengono a far capire al pubblico che Naru è forte e cazzuta anche più dei maschi della sua tribù perché ha un ottimo spirito di osservazione... il quale è il prerequisito essenziale per la caccia, ma evidentemente secondo loro i Comanchi erano dei pessimi cacciatori finché le donne, nel XVIII secolo, non hanno insegnato loro come fare.
Fatto che sta che tutta la serietà di questo spirito progressista va a farsi benedire quando la protagonista esclama risoluta: "I'm smarter than a beaver!", con tutti i sottotesti buttati in faccia allo spettatore e un po' di sana misoginia involontaria, che appaiata al ruolo di Naru aspirante cacciatrice perché vuole dimostrare agli altri di come anche lei sia dotata di abilità combattive al pari del fratello, finisce per trasformare il tutto in un saggio involontario sull'invidia del pene. E per la cronaca: è inutile spendere cento minuti per forgiare la perfetta guerriera, se poi l'easter egg finale ne rivela il destino infausto. 




"Prey" riesce comunque ad intrattenere a dovere, non eccelle, né sbaglia più di tanto. Chi non apprezza lo spirito iconoclasta di Shane Black o l'onesto mestiere di Hopkins ed Antal ben potrà preferirlo agli altri sequel, viceversa chi ha un senso dello stile più complesso del puro livello basilare faticherà a trovarci qualcosa di davvero eccezionale, etichettandolo al più come "aurea mediocritas".

martedì 2 agosto 2022

China Blue

Crimes of Passion

di Ken Russell.

con: Kathleen Turner, Anthony Perkins, John Laughlin, Bruce Davison, Annie Potts, Pat McNamara, Stephen Lee.

Usa 1984
















Quando nel 1984 "China Blue" uscì in sala, quelle immagini spinte sino ai limiti della pornografia e il ritratto di una sessualità estremamente libera infuriarono la censura, che ne sforbiciò alcuni minuti; nulla di nuovo, certo, tanto che l'unica vera sorpresa è il fatto che la critica si sia divisa sull'effettivo valore del film di Russell, su sceneggiatura di Barry Sandler, qui in chiara impostazione teatrale. C'è chi ne ha colto la franchezza iconoclasta, chi invece lo ha tacciato di essere un ritratto già visto e facilone, che non propone nulla di nuovo se non uno sguardo disincantato sulla tematica sessuale, allora ancora tabù, soprattutto a causa della relativamente recente comparsa del HIV.
Rivisto oggi, è invece decisamente più facile apprezzare l'opera di Russell per quello che è. Non un thriller erotico, come si vorrebbe far credere, quanto uno spaccato riuscito sulla falsità insita nelle relazioni umane che si intrecciano grazie all'amore e all'attrazione sessuale.



Tutti i personaggi hanno una maschera. La prima, più ovvia, è quella di China Blue (Kathleen Turner), alias Joanna Crane, donna in carriera che di notte dismette il tailleur per una parrucca biondo platino con la quale si aggira come prostituita nel quartiere malfamato. Come lei, il "reverendo" Shayne (Perkins) è un prete ossessionato dal peccato della lussuria, che decide di "salvarla" dalla vita di strada. E come loro, anche l'apparentemente innocente Bobby (John Loughlin) vive nella menzogna di un matrimonio felice.




"L'amore dovrebbe unire le persone, non allontanarle". Tutto qui, questo è il senso, la chiave di lettura, data alla fine del primo atto praticamente dal protagonista. Il che rende la narrazione sicuramente didascalica, ma non meno interessante.
Nei rapporti, tutti fingono. Fingono di essere felici, di provare emozioni, persino reazioni fisiche come l'orgasmo. Tutto è subordinato a mantenere la bugia della felicità coniugale. Questo è il mondo di Bobby, buon padre di famiglia, ex quarterback che ha sposato la fidanzatina del liceo e che ora, dopo undici anni, si accorge di come questa relazione sia andata avanti per pura inerzia, di come la scintilla dell'amore e l'attrazione reciproca si siano inariditi tempo addietro.
Per Joanna, invece, non esistono rapporti affettivi veri, non c'è mai vera attrazione. La sua vita è una recita perenne, una menzogna che vende per 50 dollari e che cambia a seconda del gusto del cliente: può essere una vittima come un carnefice, una reginetta di bellezza ingenua come una dominatrice assatanata, non esiste ruolo che non voglia interpretare. Per lei non ci sono vere menzogne, poiché tutto è una menzogna; non c'è il rischio che un rapporto si inaridisca perché pronta a reinventarsi ad ogni ora, divenendo sempre una persona diversa per persone diverse.
Per tutto il film, trova un limite in sole due occasioni: la prima è il ménage à trois con la coppia di yuppie, abbandonato perché schifata dal razzismo esplicitato. La seconda, più toccante, è quella del malato terminale, un uomo che ha avuto e ha ancora un rapporto matrimoniale felice e che prossimo alla morte vede al di là delle sue menzogne, capisce la falsità dei suoi atteggiamenti, la spoglia per la prima volta metaforicamente di ogni difesa, vedendo la donna sotto il costume.




Il reverendo Shayne è anch'egli una maschera deforme di una personalità alla deriva. Il fatto che Russell abbia cucito il ruolo su Anthony Perkins è un chiaro riferimento a "Psycho", tanto che tutto il personaggio può essere visto come una versione iperbolica e grottesca di Norman Bates, al punto che entrambi escono di scena "in drag", sottolineando la loro psicopatologia. "Io sono te" esclama rivolto a China Blue, in uno scambio ridondante: Shayne è anch'egli un falso, un uomo corroso dall'ossessione salvifica che vede negli altri i propri peccati, che vuole sradicare con la violenza per punire sé stesso più che il prossimo, una sorta di super-io freudiano uscito di senno.




Sebbene lontano dai canoni del thriller vero e proprio, "China Blue" è, al suo cuore, un noir che affonda nelle perversioni e nelle menzogne dei personaggi per portarne a galla l'anima più nera e perversa. 
Russell si scatena con una messa in scena a tratti lisergica: tutte le sequenze notturne sono ricostruite in studio, con luci al neon e ombre che tagliano i personaggi, le cui silhouette divengono protagoniste delle scene di sesso più spinte come in un horror espressionista. La visione si fa onirica e visionaria e il mondo squallido e tetro è come il sogno delle metropoli decadenti di "Taxi Driver" e del cinema, quasi coevo, di William Lustig, tanto che non è difficile immaginare nel hotel/postribolo della protagonista aggirarsi personaggi come Frank Zito o lo squartatore di New York di Fulci.




Il tono è però sempre esagerato, costantemente sopra le righe, con pochissime concessioni alla serietà. Russell dà così pieno sfogo alla sua vena allucinata e allucinatoria per creare un ritratto espressionista incredibilmente espressivo, incontrovertibilmente forte, che pecca solo nell'estrema linearità, intercalata solo dalla forte carica provocatoria. "China Blue" diventa così un viaggio allucinato nei meandri del desiderio, di una sessualità solitamente repressa che trova pieno compimento su schermo in un trionfo liberatorio urlato a squarciagola che se ne frega del perbenismo imperante.




E la forza del film è in questa sua estrema franchezza, nel suo voler sovvertire proprio quelle maschere che ritrae come ipocrite e inutile. Lo fa nel modo più semplice, senza prendere veri rischi che vadano al di là della semplice provocazione, eppure riesce perfettamente nel suo intento. Tanto che sarebbe davvero il caso di rivalutare una pellicola per una volta davvero sottostimata a torto.