martedì 8 novembre 2022

Three Thousand Years of Longing

di George Miller.

con: Tilda Swinton, Idris Elba, Berk Ozturk, Aamito Lagum, Nicolas Mouawad,  Ece Yuksel, Burcu Golgedar, Lachi Hulme, Megan Gale, Jack Braddy, Anthony Moisset, Alyla Browne, Abel Bond, Lianne Mackessy, Peter Bertoni.

Australia, Usa 2022
















Tra una scorribanda nelle wasteland e l'altra, a George Miller piace esplorare racconti più piccoli e talvolta intimisti. E' successo da ultimo con "Three Thousand Years of Longing", che arriva a ben sette anni da "Mad Max: Fury Road" e durante le riprese dell'imminente spin-off "Furiosa". Una storia piccola, ma in realtà non meno ambiziosa degli exploit fanta-action per i quali è divenuto celebre.




Alithea (Tilda Swinton) è una narratologa che, durante una presentazione ad Istanbul, fa una scoperta inattesa: in una vecchia bottiglia di vetro acquistata al bazar ritrova un jinn ultramillenario (Idris Elba). Incalzata dalla creatura ad esprimere i canonici tre desideri, la donna si appassiona alla storia del bizzarro essere.
Miller racconta il raccontare, in primis, e con esso la necessità delle storie nel mondo moderno (riportando alla memoria tanta produzione di Neil Gaiman). Che cosa sono i miti in fondo se non la prima forma di razionalizzazione del creato? Una storia in fondo è questo, ossia null'altro che una forma che cerca di racchiudere in sé un significato.
I miti non sono in realtà mai scomparsi, sono semplicemente stati riplasmati in una forma diversa, da cui gli eroi "mitici" dei roaster Marvel e DC (ricordiamoci che Miller avrebbe dovuto dirigere il primo adattamento filmico della Justice League già a metà anni duemila), ossia le vestigia del passato ricreate a nuova forma. Come incastrare però un qualcosa di passato e totalmente avulso dalla conoscenza scientifica in um mondo moderno?
La risposta è quella del "jinn elettromagnetico", un essere la cui natura è astratta e a-scientifica, ma la cui sostanza e il relativo ruolo sono comunque riconoscibili e quantificabili.



Il jinn diventa così il simbolo dell'irrazionale, di quella cifra fantastica che sopravvive in un mondo che non ha mai dimenticato la dimensione trascendente, l'ha solo assimilata ad un livello più profondo e subcosciente.
Al contempo, il jinn è la forza stessa del racconto, lo strumento attraverso il quale la conoscenza viene trasferita e tramandata, elettromagnetico come gli impulsi che permettono al sapere di diffondersi nel mondo moderno, il quale ha a sua volta amato una donna, Zafir, la quale aveva preconizzato la narrazione per immagini in movimento e persino risolto alcuni misteri matematico-scientifici. 
Alithea (il cui nome deriva dalla dea greca della verità) è invece pura razionalità, una donna priva di affetti, narratrice della storia oltre che protagonista, che aborrisce ogni forma di trascendenza liquidandola come una forma di superstizione atta solo a spiegare in modo illogico il reale e la quale si ritrova di punto in bianco nel mezzo dell'irrazionale; questo, di fatto, viene preconizzato dagli incontri all'aeroporto e durante la lezione con due figure ultraterrene il cui ruolo non è mai (volutamente) chiarificato (benché appaiano poi nella scena della corte di Sheba), non l'icnarnazione stessa di quel qualcosa di occulto che ancora esiste nel mondo e che non si vuole accettare.



Ma Alithea è anche la classica "narratrice non affidabile", che nasconde le sue vere emozioni e persino parte della sua storia personale per apparire perfettamente realizzata. La rincorsa al desiderio non è così tentazione verso il male, non è la ricerca di una mera forma di compensazione per quello che non si è avuto, né ci sono dei contrappassi negativi per ogni desiderio esaudito. Il racconto serve più che altro a farle realizzare ciò che le manca davvero, ossia l'amore, quell'ingrediente necessario che rende ogni storia e di conseguenza ogni vita, conoscenza e ricerca davvero completa. Risvolto tutto sommato poco originale, ma che Miller riesce a rendere non stucchevole e perfettamente amalgamato al resto delle tematiche.




Il suo stile è sempre ricercato e qui trova un limite solo in una CGI non sempre al altezza. Ma, al contempo, la storia gli permette di sperimentare soluzioni visive per lui inusuali, come la costruzione plastica dell'inquadratura o il ricorso ad immagini astratte, che conduce con tocco squisitamente visionario.
"Three Thousands Years of Longing" è così una pellicola riuscita e incantevole, una storia piccola ma al contempo profonda e ispiratissima.

Nessun commento:

Posta un commento