domenica 31 dicembre 2023

Strange Days

di Kathryn Bigelow.

con: Ralph Fiennes, Angela Bassett, Juliette Lewis, Tom Sizemore, Vincent D'Onofrio, William Fichtner, Brigitte Bako, Glenn Plummer, Richard Edson, Michael Jace.

Fantascienza/Noir/Cyberpunk/Thriller

Usa 1995














Esistono cult movies dimenticati dal tempo, film che sono stati molto amati anche se non subito, ma poi stranamente finiti nel dimenticatoio. Uno status per fortuna non molto comune, ma del quale può purtroppo fregiarsi quel "Strange Days" che meriterebbe davvero più attenzione oggi giorno.
Il corso seguito dal gioiello di Kathryn Bigelow e dell'allora di lei marito James Cameron è quello classico: uscito in sala nell'Ottobre 1995 (Febbraio 1996 in Italia, con sommo disgusto del sopraffino cinefilo Nanni Moretti), incassa neanche otto milioni a fronte in budget di oltre quaranta, rivelandosi come un vero e proprio bagno di sangue sul piano commerciale, tanto che la Bigelow si ritira temporaneamente dalle scene per lo scotto. Arrivato in VHS, viene riscoperto persino da quella critica che lo aveva inizialmente bocciato (molte stroncature facevano riferimento unicamente alla violenza, memoria di quel falso puritanesimo che imperava negli anni '90) e grazie ai ripetuti passaggi televisivi viene amato dai cinefili di tutto il mondo, che arrivano persino ad etichettarlo come "il Blade Runner degli anni '90".
Arrivato quel Terzo Millennio che profetizzava, "Strange Days" inizia a sparire dai radar: poco citato nelle rassegne di fantascienza, sostanzialmente ignorato nelle retrospettive del genere, non trova neanche un'edizione home-video degna di nota, né in DVD, tantomeno in Blu-Ray o 4K in epoca recente.
Riscoprire per la seconda volta il piccolo capolavoro dei coniugi d'oro è un imperativo, perché, anche se datato in alcuni aspetti, esso è ancora oggi una visione splendida.




Perché datato, "Strange Days" lo è e non potrebbe non esserlo proprio a causa della sua stessa natura di pellicola che unisce lo zeitgeist degli anni '90 con la fobia per la fine del millennio. Quest'ultimo aspetto in particolare finisce per conferirgli definitivamente il marchio di "film figlio dei suoi tempi": nonostante gli sconvolgimenti politici ed economici avvenuti nella prima decade degli anni '00, la società occidentale non è (ancora) collassata, non si è arrivati alla perdita totale e definitiva dei valori, né alle esplosioni di violenza incontrollata che si vedono per le strade della Los Angeles del 1999 di Bigelow e Cameron.
Una visione del futuro collasso, quella imbastita, che si è rivelata fallace, ma solo fino ad un certo punto; perché basta discostarsi dalla pura ambientazione e addentrarsi nelle tematiche per scoprire come "Strange Days" sia stato in realtà più profetico di quanto si voglia ammettere.




Tutta la storia ed il world-building ruotano attorno allo "SQUID", sistema per permette di registrare le esperienze sensoriali e riviverle avvertendo le medesime sensazione dell'autore. Una trovata non del tutto originale, ripresa com'è da quel "Brainstorm" di Douglas Trumbull che già nel 1983 immaginava la possibilità di "esportare" i ricordi e le sensazioni. Ma se in quell'exploit anch'esso ingiustamente dimenticato si assisteva alla creazione di tale tecnologia e si dibatteva il dilemma morale di un suo utilizzo, quello di "Strange Days" è una sorta di continuazione di quel mondo, dove data tecnologia si è affermata sul mercato ed è stata subito messa fuori legge per la sua pericolosità. 
Lo SQUID è una droga non chimica, un sistema hardware che si interconnette con il cervello e, più a fondo, con l'anima umana per concedere la più totalizzante forma di intrattenimento. E che per il protagonista Lenny Nero (un fantastico Ralph Fienness) diventa assuefazione totalitaria alla nostalgia di un passato migliore.




Lenny Nero è in tutto e per tutto un antesignano del millennial e dei Gen Z, un "tossicodipendente da nostalgia", un uomo che si rifiuta di vivere nel presente, preferendo rifugiarsi in un passato ormai perduto. Ex poliziotto della buon costume radiato per la sua dipendenza, passa le giornate rivivendo i baci rubati alla sua ex Faith, incarnata da una Juliette Lewis che sa essere tanto angelica nel passato quanto conturbante nel presente. 
Intorno a lui il mondo sta collassando, la paranoia per la fine imminente attanaglia le menti di chiunque portando ad una violenza incontrollata (memorabile la battuta del personaggio di Tom Sizemore: "Il punto non è se sei paranoico. Lenny, insomma il punto è se sei abbastanza paranoico"), ma lui si chiude in un passato ideale, un mondo fatto di sentimenti riciclati, un paradiso perduto del quale non vuole ammettere l'estinzione, vivendo nella vana speranza di un futile ricongiungimento con il suo amore perduto. Tanto che quel "Non ti amo più!" gridato a squarciagola da Faith è una catarsi devastante, che lo porta finalmente a riconsiderare sé stesso e il suo rapporto con la bellissima amazzone Mace (Angela Bassett); proprio Mace è un piccolo omaggio che il duo di autori fa a William Gibson, avendo praticamente la stessa caratterizzazione di Molly, la guardia del corpo dal passato di donna sfruttata di "Neuromante".
Laddove i surfisti di "Point Break" e il soldato di "The Hurt Locker" sono dipendenti dal rischio della morte, dalla botta di adrenalina che una situazione estrema porta con sé, Lenny è dipendente dalla quiete, da quella forma di appagamento del tutto narcotizzante che un sogno può avere; un uomo totalmente distaccato dalla realtà, per il quale anche i riflessi fisici esistono solo nello stato para-onirico dato dal ricordo.



Tra la paura per l'immediato futuro e la previsualizzazione di un futuro più remoto eppure effettivamente verificatosi, "Strange Days" è anche l'incarnazione dello zeitgeist degli anni '90. A partire dal secondo atto, la trama diventa quella di un thriller vero e proprio, con alla base la registrazione via SQUID dell'omicidio del rapper Jeriko One, contestatore dello status quo e idolo delle folle. Personaggio che altro non è se non la reminiscenza modificata di Rodney King, il cui omicidio ad opera dei poliziotti di L.A. nel 1995 era ancora una ferita sanguinante, ma anche di Martin Luther King e di tutti quei leader politici di colore che tra gli anni '60 e '70 hanno cercato di rigenerare il sistema trovando la morte per mano di esso (da cui il parallelo con "Detroit", con il quale la Bigelow porterà in scena eventi simili ma questa volta totalmente ancorati alla realtà); da cui l'uccisione di un contestatore per mano delle forze dell'ordine come spirale degli eventi futuri, riproposizione di una violenza sociale che non può essere sedata. E anche qui, la Bigelow e Cameron ci avevano visto lungo, visto il verificarsi dell'omicidio di George Floyd, anche se per motivi e in circostanze diverse.




La trama da giallo permette di insistere sul discorso tangente a quello del ricordo, riguardante il voyeurismo. Lo SQUID altro non è se non la quintessenza dell'esperienza scopofila, permettendo di vivere vicende surrogate non solo virtuali, ma anche cognitive. Il confine tra spettatore e attore viene quasi del tutto annullato e la fantasia diviene obsoleta: l'esperienza è totalizzante e del tutto priva di limiti, da cui lo status di narcotico della tecnologia che ne alla base; tanto che il prodotto più gettonato è ovviamente la pornografia. 
E' per questo che viene citato l'imprescindibile "L'Occhio che Uccide", il capolavoro maledetto di Michael Powell nel quale l'assassino riprendeva le proprie vittime mentre le uccideva con una macchina da presa con sopra montato uno stiletto; la vittima sa di morire mentre viene registrata, la sua paura è genuina ma anche condizionata dall'occhio di chi osserva; da cui il video "blackjack", sorta di film snuff con il quale l'assassino vive le emozioni della vittima uccisa in diretta tramite lo SQUID e poi fa rivivere il tutto allo spettatore, che, come chi osserva un film, può immedesimarsi al contempo nella vittima e nel carnefice.





Il racconto di fantascienza messianica e quello di thriller con tocchi da neo-noir funzionano a dovere; ma se "Strange Days" riesce davvero a coinvolgere è grazie allo sguardo umano che la Bigelow ha verso i suoi personaggi e il mondo nel quale si muovono; laddove lo script di Cameron era inizialmente basato esclusivamente sul racconto di genere, lei ne accentua le caratteristiche drammatiche permettendo una immedesimazione totale con i personaggi di Lenny e Mace (al pari, è proprio il caso di dirlo, dei personaggi che usano lo SQUID per immedesimarsi con i personaggi dei loro video); ci si emoziona davvero per la loro sorte, per questa loro strana storia di amicizia e amore, così come per il rimpianto di Lenny verso un passato oramai estinto. E quando al pessimismo si sostituisce la speranza, in quel finale liberatorio, l'immagine del soldato che bacia la ragazza riesce così a colpire per davvero.




La grandezza della Bigelow sta poi in una messa in scena mozzafiato, che mostra gli artigli già nel prologo, quella lunga rapina totalmente girata in prima persona e coreografata in modo talmente adrenalinico da mandare in cardiopalma anche senza il bisogna di un dispositivo neurale; sequenza che ancora oggi colpisce per ritmo e tensione e che all'epoca fu rivoluzionaria, tanto che per girarla dovette farsi costruire una macchina da presa apposita che fosse talmente piccola da poter essere indossata dallo stuntman.




Quasi trent'anni dopo la sua uscita in sala, "Strange Days" resta un'opera magnifica, il cui status di cult va ripristinato e quello di film profetico riconosciuto in via definitiva.

venerdì 29 dicembre 2023

Saltburn

di Emerald Fennell.

con: Barry Keoghan, Jacob Elordi, Rosamund Pike, Alison Oliver, Archie Madekwe, Richard E.Grant, Carey Mulligan, Paul Rhys, Sadie Soverall, Richie Cotterell, Millie Kent, Will Gibson, Aleah Aberdeen.

Usa, Regno Unito 2023


















---CONTIENE SPOILER---

Non c'è cosa peggiore per un autore che l'indecisione, il dubbio non solo su come raccontare una storia, ma anche su cosa effettivamente comunicare con essa. Indecisione che affliggeva Emerald Fennell già in "Promising young woman", il quale non sapeva se essere la celebrazione della giusta vendetta di una vittima o la decostruzione di un personaggio borderline deviato. Indecisione che affligge ancora di più "Saltburn", nel quale si palesa anche sul piano del racconto piuttosto che della semplice storia.




Un'opera seconda che mischia "Il Talento di Mr.Ripley" a "Parasite", ma che sembra ispirarsi soprattutto niente meno che a Pasolini e al suo insuperato "Teorema", dal quale riprende i lineamenti della storia: Oliver Quick (Keoghan), nonostante il nome da supereroe mancato, è un ragazzo di brutto aspetto e proveniente da un ambiente famigliare disastroso, il quale vince una borsa di studio per Oxford. Qui incontra il bello e ricco Felix Catton (Elordi), del quale si invaghisce. Entrato nelle sue grazie, viene invitato a passare l'estate nella sua residenza a Saltburn, dove conosce la sua viziatissima famiglia, le cui vite verranno così sconvolte.




L'equilibrio di potere rispetto al capolavoro pasoliniano è quasi invertito: non è Oliver ad essere un provocatore affascinante, almeno non inizialmente. Ed è qui che si palesa lo sbaglio insito nel casting di Barry Keoghan: il suo volto, sovente sfregiato dai butteri, viene reso più bello e non si sa perché visto che in teoria il personaggio dovrebbe essere esteticamente ripugnante; quando poi si comincia ad indugiare sul suo corpo da adone palestrato, la credibilità si perde del tutto.
L'ingresso del povero brutto anatroccolo nel circolo dell'alta società è scisso in due parti, una più insicura dell'altra. La prima, più riuscita, lo vede nel ruolo del giocattolo dell'amico facoltoso, dei suoi strani genitori, della bella sorella e di quel cugino talmente antipatico da sembrare la macchietta di uno sketch comico. La seconda, decisamente rovinosa, vede il sovvertimento degli equilibri di potere, con Oliver che diventa di punto in bianco l'equivalente moderno di Terence Stamp; ed è qui che i problemi di scrittura iniziano a sorgere.




Sebbene tutta la storia vada comunque letta in funzione dei colpi di scena (in realtà alquanto telefonati, soprattutto quello finale), il passaggio da vittima a carnefice è sin troppo repentino, con Oliver che passa da preda a predatore nell'arco di un semplice stacco di montaggio, facendo intuire praticamente subito le sue vere intenzioni. Da cui deriva l'insicurezza di una narrazione che non vuole svelare subito le carte per il puro gusto di ridurre il tutto ad un coup de theatre frivolo.
L'insicurezza dello sguardo della Fennell si rivela in tutta la sua goffa potenza sin dalle prime sequenze. Porta in scena un mondo di super ricchi super viziati, con personaggi caricaturali dei quali il solo Felix ha qualche qualità redimente, eppure resta costantemente affascinata dal loro stile di vita decadente, da quel lusso senza limiti e urlato in faccia, dalla loro condotta infantile e sessualmente esuberante proprio come quel protagonista che vuole carpire quella ricchezza per puro gusto edonistico. La sensualità di quei loro corpi, la ricercatezza degli abiti, lo sfarzo degli ambienti non è quindi il sintomo di nessuna vacuità, quanto un modello del quale restare ipnotizzati. Tanto che l'ambientazione "storica" data da quel 2006 vicino al picco del culto della decadenza assume un significato quasi nostalgico.




L'insicurezza peggiore è quella data dalla messa in scena. Laddove le immagini sono ricercate, la Fennell decide di girare tutto il film con un formato in 4:3 senza alcun motivo apparente e solo per omologarsi alla moda del momento, rendendole così inutilmente patinate, come le foto di una rivista di moda, in un'estetica sin troppo laccata per quello che dovrebbe essere un dramma feroce e dove la dicotomia tra la bellezza formale e la cattiveria dei contenuti non si avverte mai per davvero, essendo la prima l'unica avvertibile.
Cerca, poi, costantemente la provocazione con scene shock, le quali però alla fine risultano più scioccanti sulla carta che su schermo. La scena del "bacio mestruale" non colpisce allo stomaco quanto dovrebbe, quella della masturbazione notturna è stranamente casta per gli standard odierni, così come la scena madre del coito sulla tomba, sforbiciata al montaggio proprio quando sembrava dovesse raggiungere il vero picco di disturbo. L'unica davvero efficace è quella in cui Oliver beve l'acqua della vasca da bagno nella quale Felix si è masturbato, ma è davvero troppo poco per un film che ha tra i suoi numi ispiratori il provocatore per antonomasia e creatore dell'inarrivabile "Salò".
Quando poi la Fennell cerca disperatamente di creare qualcosa di iconico, il disastro è servito: quella scena finale, con Keoghan che balla nudo sulle note di "Murder on the dance floor" mentre gioca con le pietre in ricordo dei morti, sfoggiando il suo fisico da modello di Versace, è da scult immediato; e risulta persino pedante e inutile nell'economia di tutto il racconto.




Cosa ha davvero cercato di fare la Fennell con "Saltburn"?
Forse un ritratto decadente di una società nella quale il più forte mangia il più debole; cosa del tutto non riuscita poiché non c'è un vero sguardo di biasimo verso i personaggi, né quel distacco clinico che avrebbe reso il tutto più interessante.
Forse un dramma su come personalità vuote possano essere manipolate per un proprio tornaconto personale; intento in parte riuscito, ma che non giustifica l'insistenza sugli aspetti più odiosi di un protagonista che avrebbe funzionato maggiormente come vero arrampicatore sociale proveniente dalla miseria.
Forse un melò su di una relazione "tossica", il quale lascia però tutto il tempo che trova.
Esso possiede tutte queste anime e non riesce mai ad amalgamarle, restando così del tutto indigesto.




"Saltburn", alla fine, è così un mero atto provocatorio goffo e ingenuo, oltre che del tutto incosciente della propria natura contradditoria. C'è chi ne apprezzerà la finta carica dissacrante scambiandola per genuina, frutto della poca dimestichezza con storie del genere e autori più il cui sguardo è più profondo, sagace e intellettualmente stimolante, pregi che quello della Fennell purtroppo non ha.

giovedì 28 dicembre 2023

Maestro

di Bradley Cooper.

con: Bradley Cooper, Carey Mulligan, Sarah Silverman. Matt Bomer, Maya Hawke, Vincenzo Amato, Greg Hildret, Michael Urie, Brian Klugman, Nick Blemire, Mallory Portroy, Jordan Dobson.

Biografico

Usa 2023














Creare il ritratto completo e credibile di un artista non è mai cosa semplice e Braldey Copper sembra saperlo; forse proprio per questo con "Maestro" ha tentato di allontanarsi dai canoni del biopic moderno per cercare invece di dare forma alle vicissitudini interiori di quel Leonard Bernstein compositore e conduttore d'orchestra oggi troppo poco celebrato. Eppure, fatalmente, finisce per cadere nella trappola più ovvia e trasforma questo suo ritratto umano in una storia sin troppo semplicistica che non ne restituisce la caratura umana, tantomeno quella artistica.



Cooper viaggia attraverso la vita di Bernstein, non tanto quella artistica, quanto quella sentimentale; di lui gli interessa l'uomo piuttosto che il compositore, il marito e padre piuttosto che l'artista. Si insinua nella sua intimità come un ospite ad una festa, osservandolo con il giusto distacco, emotivo e fisico, con la macchina da presa che spesso si allontana dai volti dei personaggi anche nei momenti più topici e a volte si trova "impallata" da oggetti di scena. Uno sguardo decisamente non convenzionale, che arriva ai limiti del voyeuristico senza scadere nell'indiscreto gratuito, ma che trova un limite che ad un autore più attento sarebbe stato ovvio: la freddezza.




Assistiamo al dipanarsi degli eventi in modo meccanico. La storia d'amore tra Bernstien e Felicia Montealegre (Carey Mulligan) sboccia, matura e si consuma tra gelosie e scappatelle, partendo dall'onestà riguardo alle tendenze bisessuali del protagonista per arrivare alla sua incapacità di restare del tutto fedele ad una compagna che resterà lo stesso il più grande amore della sua vita; il tutto senza che sia possibile appassionarsi davvero a questa relazione ardente. Cooper si distanzia fin troppo dal suo protagonista e quando il dramma irrompe immancabile, esso si consuma del tutto senza che sia davvero possibile provare una forma di empatia per i due personaggi e il loro accidentato percorso amoroso. E non aiuta il fatto che decida di sorvola praticamente del tutto sulla carriera del suo protagonista, la quale viene solo citata di sfuggita senza che chi ne conosca la caratura possa davvero capire in cosa consistesse la sua grandezza.




Ciò che resta è, come al solito, il puro mestiere. La mano di Cooper come puro regista funziona, la sua messa in scena è ricercata e virtuosistica, quella di un vero regista e non di un semplice attore prestato alla regia; così come il talento del cast è rimarchevole, a cominciare dal suo, restando credibile nei panni di un personaggio del quale esplora sessanta anni di vita; ma il tutto resta saldamente ancorato dietro lo schermo, senza che lo spettatore possa mai davvero apprezzare gli elementi non prettamente estetico-stilistici, in una prova d'autore riuscita, non c'è che dire, ma del tutto inerte.

martedì 26 dicembre 2023

Rebel Moon- Parte I: Figlia del Fuoco

Rebel Moon- Parti I: A Child of Fire

di Zack Snyder.

con: Sofia Boutella, Michiel Huisman, Staz Nair, Charlie Hunnam, Ray Fisher, Cleopatra Coleman, Bae Doona, Djimon Hounsou, Ed Skrein, E.Duffy, Jena Malone, Fra Fee, Cary Elwes, Anthony Hopkins.

Fantastico/Avventura/Azione

Usa, Regno Unito, Ungheria, Svezia, Danimarca 2023











---CONTIENE SPOILER---

Durante la promozione di "Batman v. Superman- Dawn of Justice", Zack Snyder ha candidamente affermato di come da ragazzo non leggesse e tantomeno conoscesse fumetti di supereroi. Per lui, i fumetti erano praticamente solo quelli di "Heavy Metal" e "2000AD", ossia storie cupe e caratterizzate da violenza e sessualità spinte. Il che spiega come mai nelle sue mani persino l'Azzurrone abbia un cipiglio sinistro.
"Rebel Moon" è così il coronamento della sua visione fantastica, uno "Star Wars con sesso e violenza" come lui lo ha definito che sembra davvero uscito dalle pagine dell'antologico di Moebius e soci; e che si rivela un frullato di praticamente tutte le fonti di ispirazioni possibili e immaginabili servito in due parti, di cui "Figlia del Fuoco" è praticamente il solo antipasto. Un portata fatalmente insipida, eppure inspiegabilmente dignitosa.



Ispirazioni che si palesano subito dalla trama: laddove "Guerre Stellari" era un remake fantasy/Sci-Fi de "La Fortezza Nascosta", "Rebel Moon" riprende il film per antonomasia di Kurasawa, ossia "I Sette Samurai", e lo trasporta nello spazio profondo con circa 44 anni di ritardo rispetto a quanto fatto dal mitico Roger Corman con "Battle beyond the Stars". La storia è praticamente la stessa, con un villaggio di contadini razziato questa volta dai nazisti spaziali di lucasiana memoria e la protagonista Kora (la sempre bella Sofia Boutella) che si imbarca in un viaggio per mettere insieme un gruppo di guerrieri per difenderlo.
Il mondo di Kora e soci sembra poi uscito da "Warhammer 40.000", con super marine in armatura e armi letali adorate con fregi e rifiniture. Ma sul piano narrativo (proprio come il famoso gioco da tavolo) altro non è se non una versione semplificata dell'universo creato da Frank Herbert, con un impero (chiamato anche qui Imperium) guidato da un despota contro il quale un pugno di ribelli si scontra a muso duro; ribelli guidati da due giovani, di nuovo fratello e sorella anche se non gemelli e privi di poteri magici, mentre il cattivo principale, il generale di ferro e sessualmente perverso interpretato da Ed Skrein, è praticamente un Hans Landa armato di bastone.




Si potrebbe andare avanti all'infinito a cercare tutti i rimandi e i debiti di ispirazione usati da Snyder, ma sarebbe tempo buttato alle ortiche, visto che non fa nulla più di quanto altri sceneggiatori di narrativa fantastica fanno negli ultimi anni, ossia saccheggiare tutto ciò che è venuto prima e ripresentarlo in una forma solo apparentemente originale.
Il vero peccato capitale di Snyder è semmai quello di creare una narrativa del tutto piatta, dove ad un paio di protagonisti tutto sommato simpatici non viene appaiato praticamente nulla di interessante. Il processo di ribellione è meccanico, i comprimari, per quanto affidati ad attori affiatati, sono monodimensionali e almeno in questa prima parte non fanno nulla di rimarchevole se non essere introdotti e restare sullo sfondo degli eventi; il mondo creato e portato in scena è ameno e visivamente stimolante, ma del tutto privo di forme di interesse. Tutta la narrazione è poi lineare e procede come ci si può aspettare da una space-opera del genere, senza aggiungere nulla di davvero memorabile. Tranne un paio di piccole variazioni stranamente riuscite.




La più palese è data da quel colpo di scena che scombina lo schema prestabilito degli eventi. Il personaggio di Charlie Hunnam, che fino alla fine del secondo atto rimane saldamente chiuso nel suo ruolo di "Han Solo del discount", alla fine si rivela essere non un ladro dal cuore d'oro, ma il suo esatto opposto, ossia un opportunista fatto e finito. Il climax non avviene così al villaggio di partenza, come da copione, e la situazione non si risolve grazie agli sforzi congiunti del gruppo, ma solo grazie al coraggio del personaggio di Gunnar, il contadino bello e goffo che fino a quel momento altro non era se non l'interesse amoroso della protagonista e il surrogato dello spettatore al quale spiegare l'antefatto. Variazione che dona un tocco di originalità, ma che rende totalmente inutile quanto visto in precedenza, visto che alla fine i sette samurai rimangono sullo sfondo del combattimento finale, a non fare letteralmente nulla.




La variazione meno scontata è invece la strana cura che Snyder riserva nella messa in scena. Intendiamoci, anche qui tutti i suoi brutti marchi di fabbrica ritornano prepotenti, come i famosi ralenty, che ora raggiungo un ulteriore vertice di pacchiana inutilità, come quando ne usa uno su di un primo piano della protagonista che spara o quando ne usa un altro per enfatizzare il suo mantello che svolazza mentre lei scene da un'astronave, così, tanto per; torna anche il montaggio sin troppo spezzato delle singole scene, con inserti, spesso anch'essi al ralenty, inseriti praticamente a caso. Eppure la cura che qui riserva nella costruzione delle singole inquadrature non ha davvero precedenti nella sua filmografia (si potrebbe eccepire quanto fatto in "300" e "Watchmen", ma va ricordato che lì erano praticamente ricalcate su molte delle tavole originali dei fumetti); cosa che risulta a dir poco spiazzante laddove si tiene conto di come il precedente "Army of the Dead" fosse a tratti inguardabile e soprattutto di come abbia curato la fotografia lui stesso. Se la storia è quindi bolsa e stravista, per lo meno l'aspetto visivo per una volta non urta gli occhi.




Andrebbe poi fatto un plauso al buon Snyder per aver creato un'epica sci-fi dove non solo la protagonista è una donna forte e cazzuta (e non solamente lei, ma praticamente tutte le donne che appaiono su schermo, persino quando finiscono per essere le vittime della violenza), ma dove sono gli uomini ad essere relegati a quei ruoli solitamente lasciati ai personaggi femminili, come il compagno di viaggio innamorato o quel guerriero-Tarzan costantemente mezzo nudo, utile solo a titillare i sensi di chi apprezza la bellezza maschile; il tutto senza sottolinearne l'innovatività o farlo pesare allo spettatore, il quale, anzi, per una volta viene trattato con il rispetto che merito quando si tratta di snocciolare la tematica della rappresentazione di genere.




Pur tuttavia, si tratta di pregi davvero pallidi e che non riescono a salvare la visione. "Rebel Moon" è un'opera tanto accorata e ambiziosa quanto impacciata, che alla fine non lascia davvero niente di memorabile allo spettatore e conferma solo lo status di Snyder di regista appassionato, ma inetto.

venerdì 22 dicembre 2023

Trappola di Cristallo

Die Hard

di John McTiernan.

con: Bruce Willis, Alan Rickman, Reginald VelJohnson, Bonnie Bedelia, Alexander Godunov, Paul Gleason, De'veroux White, William Atherton, Hart Bochner, James Shigeta, Clearence Gyliard Jr., Robert Davi,  Al Leong.

Azione

Usa 1988












Si potrebbe guardare a "Die Hard" come ad un classico di Natale anomalo... e di fatto lo è, visto il tasso di violenza grafica, che pur temperato dall'umorismo risalta lo stesso, le parolacce e il suo aspetto di film d'azione tipicamente anni '80 che cozza clamorosamente con il buonismo solitamente associato ai film per le feste. La cosa strana è che non è neanche il classico più anomalo, primato che spetta a "Una Poltrona per Due", almeno in Italia.
Come sia riuscito ad assurgere a tale statua è invece la cosa più facile da capire: si tratta di uno dei migliori action americani mai fatti e ancora oggi risulta adrenalinico e coinvolgente.



La storia della produzione di "Die Hard" è stranamente lunga e complessa. Tutto inizia con un romanzo di Roderick Thorp, il quale però non è quello alla base del film, ossia "The Detective", dal quale viene tratto un altro film, omonimo, nel 1966. Adattamento che vede come protagonista niente meno che Frank Sinatra nel panni del detective del titolo, Joe Leland, che riscuote un ottimo successo e che permette a "the voice" di confermare il suo talento di attore. Al punto che è proprio lui a commissionare a Thorp la scrittura di un seguito da porre alla base di nuovo film. Cosa più facile a dirsi che a farsi, visto che di anni ne passano dieci finché il seguito è pronto: "Nothing last forever" esce nel 1979 e a quel punto Sinatra è troppo vecchio per il ruolo del protagonista, il quale ora si trova chiuso in un grattacielo mentre combatte, in svantaggio numerico, un gruppo di terroristi che ne ha preso in ostaggio la figlia; la quale, tra l'altro, in un finale cupissimo, muore cadendo dal palazzo.
I diritti del film restano però in circolazione ad Hollywood e arrivano alla Fox nella seconda metà degli anni '80. Ed è solo grazie all'interesse dell'executive Beau Marks che la produzione ha inizio e soprattutto successo, visto che per il film riunisce un'ensamble di professionisti semplicemente spettacolare.




In primo luogo affida il progetto al granitico produttore Joel Silver, il quale ha appena incassato una serie di successi action con "48 Ore", "Commando", "Arma Letale" e "Predator"; e proprio da questi suoi ultimi lavori, Silver chiama John McTiernan come regista e Steven E. De Souza a rimettere mani allo script, i quali hanno le idee chiare: non vogliono fare l'ennesimo film d'azione con al centro un superuomo tutto muscoli, ma una pellicola che si concentri sull'azione in sé lasciando che lo spettatore possa identificarsi con il protagonista, che (come nel romanzo originale) è un uomo comune intrappolato in una situazione disperata. Da cui la scelta di affidare il ruolo a Bruce Willis, la quale oggi appare scontata vista la sua carriera, ma che all'epoca venne accolta dal pubblico con scetticismo.
Willis era infatti famoso solo come attore comico, in particolare grazie al successo del televisivo "Moonlighting" e vederlo nei panni di un poliziotto che sgomina una banda di rapinatori armati fino ai denti non poteva che indurre alla risata involontaria. Tanto che la campagna marketing alla fine si è focalizzata non tanto sul protagonista, quanto sull'azione. Questo perché "Dia Hard" non era un ibrido tra commedia e azione come "Beverly Hills Cop", né una parodia che poteva essere percepita come un exploit serio stile "Commando", ma un action vero e proprio con forti dosi di umorismo, simile in ciò alla formula inaugurata da "Arma Letale" appena un anno prima, ma con una vena sarcastica decisamente più marcata.
Ciò che lo ha reso rivoluzionario, poi, è stato proprio il modo in cui ha scompaginato il paradigma del cinema d'azione anni '80 creandone uno nuovo, il quale è ancora oggi in voga.




Si parte dalla cosa più ovvia, ossia la caratterizzazione del protagonista, su schermo ribattezzato John McLane, il quale non è un duro, non è un carro armato semovente in grado di annichilire orde di cattivi a suon di smitragliate e freddure, ma un uomo comune; un poliziotto, certo, ma di certo non addestrato ad intervenire in situazioni che prevedono ostaggi, tantomeno quando lasciato da solo.
McLane ha poi tutti i difetti che un essere umano può avere: è un codardo il quale cerca di evitare il confronto quando possibile, tanto che il suo senso dell'umorismo spesso appare più come un meccanismo di difesa che altro; sa solo reagire alle situazioni, dimostrando di non essere dotato di un pensiero strategico vero e proprio; soprattutto, si ritrova in trasferta a Los Angeles da New York per le feste a causa di quel suo brutto carattere che lo ha portato a separarsi con la moglie Holly (che qui sostituisce il ruolo che nel romanzo aveva la figlia di Leland, anche se sopravvive agli eventi). 
McLane è, in buona sostanza, un uomo medio, che arriva persino a mostrare esplicitamente la sua debolezza riconoscendo il ruolo essenziale che l'amico Al Powell (il simpatico Reginald VelJohnson, che qui ha il ruolo per quale è tutt'oggi amato) ha giocato per la sua sopravvivenza; tanto che il rapporto tra i due è quasi un'inversione del classico duetto da buddy-cop movie, visto che sono sulla stessa lunghezza d'onda sin dall'inizio. 



McLane si ritrova così a dover reagire ad una situazione disperata e lo fa usando l'ambiente a suo vantaggio, da cui l'esecuzione di scene d'azione dove non mancano sparatorie ed esplosioni, ma nelle quali a fare la differenza sono le fughe e le colluttazioni in un ambiente stretto. Da questo punto di vista, la regia di McTiernan riesce perfettamente a restituire il senso di claustrofobia dato dall'unità di azione, luogo e tempo e sfrutta perfettamente l'ambientazione per creare soluzioni fresche ad ogni scontro, come la conclusione della lotta con il gigante Karl (il compianto Alexander Godunov), impiccato ad una catena da cantiere.
Quando poi è necessario aumentare il tasso di spettacolarità, McTiernan ci mette tutto se stesso e tira fuori degli stunt incredibili, come il salto dal tetto del grattacielo, girato in location anche se con l'ovvio uso di stuntman professionisti, o la demolizione del tetto con tanto di elicottero distrutto, giocato con un mix di riprese reali mischiate con gli ottimi SFX del sempre affidabile Richard Edlund.




A rivederlo oggi, "Die Hard" colpisce però soprattutto per la cura riversata nella caratterizzazione dei personaggi di supporto. Se a svettare è ovviamente il cattivissimo Hans Gruber, che Alan Rickman interpreta donandogli uno charme inedito (e con una naturalezza strabiliante, se si tiene conto di come fosse il suo primo ruolo al cinema), non meno approfonditi e memorabili sono Al Powell o Holly, la moglie/ostaggio il cui ruolo non è decisamente limitato alla classica donzella in pericolo; e persino il capo della polizia Robinson, tanto arrogante quanto inetto, è un'aggiunta dannatamente divertente. 
Persino la sottotrama sul giornalista interpretato da William Atherton (all'epoca in gara per divenire lo "stronzo per antonomasia" di Hollywood, visto il ruolo ricoperto anche in "Ghostbusters") risulta alla fine essenziale per la costruzione degli eventi, portando alla scoperta della vera identità di Holly da parte di Hans e innescando quel memorabile confronto finale. Merito di uno script ispirato e che risulta persino migliore di quel che effettivamente è se si tiene conto che è stato in realtà ultimato a riprese già iniziate (il che spiega l'errore di continuità dato da quell'ambulanza che fuoriesce da un furgone in precedenza vuoto).




Questa alchimia data da uno script simpatico, un attore perfettamente in parte, un cast di contorno perfetto ed una regia precisa rendono "Die Hard" un action ancora oggi godibilissimo, benché la sua formula sia stata riproposta infinite volte. E la sua ambientazione natalizia è un contorno gradevole, tanto che rivederlo durante le feste è sempre un piacere.

sabato 9 dicembre 2023

R.I.P. Ryan O'Neal



1941 - 2023

Il tipico volto da bel ragazzo americano, una vita privata a dir poco difficile, una carriera che ha avuto picchi altissimi e tonfi irrecuperabili. Ryan O'Neal resterà per sempre uno dei volti più noti del cinema americano degli anni '70, con almeno tre film che gli hanno garantito l'immortalità.




"Paper Moon- Luna di Carta" (1973) di Peter Bogdanovich



"Barry Lyndon" (1975) di Stanley Kubrick



"Driver l'Imprendibile" (1978) di Walter Hill

giovedì 7 dicembre 2023

The Creator

di Gareth Edwards.

con: John David Washington, Madeline Yuna Woyles, Gemma Chan, Ken Watanabe, Allison Janney, Sturgill Simpson, Amar-Chada Patel, Ralph Ineson.

Fantascienza

Usa 2023















Già le primissime recensioni di "The Creator" ne hanno lodato l'estrema originalità, enfatizzandone la sua capacità di portare sul grande schermo qualcosa di nuovo e inedito. E già dopo i primi minuti di visione, anche lo spettatore non appassionato di fantascienza non può che chiedersi che film i recensori abbiano visto. 
Perché nell'ultima fatica di Gareth Edwards di davvero originale c'è forse la sola ambientazione nepalese, mentre storia, simbolismi, metafore e worldbuilding lo fanno somigliare ad un vero e proprio compendio di tutta la fantascienza degli ultimi sessant'anni, cinematografica e non. Il che non sarebbe neanche male, se non presentasse al contempo delle ingenuità che un testo fantascientifico del 2023 non può permettersi.




Si parte dai manierismi, visto che tutto ciò che viene raccontato è in qualche modo già stato raccontato nono solo più volte, ma anche meglio. L'uomo ha creato la vita sintetica, con una evoluzione tecnologia alternativa che rende simile il mondo concepito da Edwards a quello di "Fallout", ossia un universo uguale a quello reale, ma dove ad un certo punto lo sviluppo tecnologico ha preso un svolta diversa portando ad un futuro diverso. Il paragone con il famoso gioco di ruolo non è poi a caso, visto che il film si apre con degli spot pubblcitari stile retrò sui robot da compagnia.
Le IA si sono integrate nel tessuto sociale, divenendo però la classe operaia, come in "Blade Runner". Di punto in bianco, fanno detonare una bomba atomica al centro di Los Angeles, come in "Terminator 2- Il Giorno del Giudizio". L'umanità avvia così una guerra ai sintetici, come in "Matrix", e la chiave della sua supremazia bellica è data dalla stazione Nomad, super-arma in grado di distruggere qualsiasi cosa sorvoli, stile Morte Nera
L'unica nota di (pallidissimo) carattere in tale storia è dato dal fatto che questa guerra non è su scala globale, ma coinvolge sostanzialmente due nazioni, ossia Usa e New Asia, che ha anch'essa creato la vita artificiale grazie agli sforzi di uno scienziato chiamato Nirmata, ossia il "creatore" del titolo, e ha dato rifugio a tutti i sintetici del mondo.




Da premessa derivativa si passa a trama derivativa: Joshua (John David Washington) è un reduce di guerra ed ex infiltrato in New Asia. Dopo aver perso l'amore della sua vita Maya (Gemma Chan), figlia del fantomatico Nirmata alla quale si era inizialmente unito solo per portare avanti un'operazione militare, viene richiamato in servizio per una nuova missione oltre le linee nemiche, ossia individuare e distruggere un'arma di distruzione di massa. Solo che questa altro non è che una bambina robot (Madeline Yuna Woyles), creata da Maya, la quale ha la capacità di collegarsi a qualsiasi congegno elettronico. Joshua decide quindi di prenderla sotto la sua ala protettrice e usarla per ritrovare l'ex compagna, la quale sembra essere ancora viva, in un viaggio che fa da via di mezzo da quanto visto in "The Last of Us" e la prima stagione di "The Mandalorian" e che culmina in un laboratorio sito in un tempio, in maniera simile a quanto visto in "Innocence: Ghost in the Shell 2".
E se la più totale assenza di originalità non sarebbe neanche un problema troppo grave, è lo svolgimento approssimativo che rende "The Creator" una visione davvero sfiancante.




Edwards e Chris Weitz imbastiscono uno script dove il termine "scontato" è un imperativo. Danno per scontato che basti vestire i robot da monaci e fare qualche fumoso riferimento religioso per far riflettere lo spettatore sul concetto di trascendenza; danno per scontato che basti inserire qualche linea di dialogo nella quale gli umani affermano che le emozioni delle IA sono artificiali per innescare una profonda riflessione sul concetto di umano. Danno per scontato che basti un colpo di scena ritagliato da una battuta riguardante la causa dell'esplosione nucleare per far riflettere lo spettatore sull'insensateza della guerra, in una parata di pressapochismo che a tratti riesce persino ad essere divertente.
Quel che è peggio è che non si accorgono di come queste tematiche vengano inserite malamente sia nel contesto della storia, sia all'interno del mondo nel quale essa si svolge. Si da per scontato che i robot posso essere credenti e non si chiarisce neanche con qualche accenno come possano esserlo davvero, ossia come può un essere la cui mente è puro calcolo sviluppare (anche solo in via imitativa) una forma di spiritualità (errore che già il reboot di "Battlestar Galactica" faceva una ventina di anni fa, ma che almeno cercava di rimediare mettendo la tematica religiosa al centro di bene o male tutta la storia). Allo stesso modo, si da per scontato che i robot possano davvero provare le stesse emozioni delle creature organiche, senza però comprendere come possano farlo laddove non hanno le stesse sensazioni, lacuna che "Blade Runner" evitava caratterizzando gli androidi come esseri organici (e che è comune a quel "Detroit- Become Human" ulteriore esempio di fantascienza tanto pretenziosa, quanto pressapochista); tantomeno viene anche solo fatto intuire perché i robot sentano la necessità di vestirsi come gli umani, pur non avendo nulla da nascondere sotto gli abiti (conformismo? Affermazione di individualità?).
Si arriva poi ad una contraddizione imbarazzante quando si arma l'esercito americano, ossia quello che ha il compito di snidare e distruggere la vita artificiale, con dei robot dotati di individualità e coscienza. E non si parla di superarmi in grado di cambiare le sorti del conflitto e che gli Americani userebbero per puro interesse, bensì di due robottini messi a caso per dare più spazio ad una normale sequenza di bombardamento.
Quello di "The Creator" è così un universo che poteva essere affascinante, ma che finisce per essere totalmente solo assurdo.



La storia, nella sua semplicità, doveva essere coinvolgente per funzionare, ma finisce per lasciare freddi.  Il rapporto tra Joshua e la piccola Alfie è forzato, soprattutto nelle battute iniziali, dove passa da un'unione data dalla convenienza ad una forma di affetto che nasce in modo sin troppo spontaneo.
I dialoghi sono didascalici, ma non è per forza di cose un problema. Lo è, semmai, l'inesrpessività cronica di John David Washington, che recita (è proprio il caso di dirlo) come un automa, senza lasciar trasparire il dolore e l'emotività che il personaggio dovrebbe in teoria avere.
Oltre il rapporto padre/figlia, c'è solo la questione del conflitto, risolto nel più classico "buoni contro cattivi", senza mai neanche poter anche lasciar sorgere il dubbio nello spettatore che in un mondo dove l'intelligenza artificiale è uguale in tutto e per tutto all'uomo, possa esisterne una dotata di cattive intenzioni, facendo calare una coltre di improbabilità sul tutto.
Ad ammazzare definitivamente il coinvolgimento ci pensa poi lo humor che, pur limitato alla sola prima parte, talvolta lascia basiti per quanto è fuori luogo; quando poi si scade nel ridicolo involontario, con quella scimmia armata di detonatore, la visione si fa davvero insostenibile.




Se si vuole trovare qualcosa di buono in questo pastrocchio pretenzioso, questa è data unicamente dall'occhio di Edwards per le immagini, talvolta davvero evocative; le quali assumono un valore persino maggiore quando ci si accorge che il budget dell'intro film è di circa 80 milioni di dollari, ossia neanche la metà di molti altri blockbuster che non possono vantare neanche la metà della bellezza estetica qui sfoggiata. Peccato che tale mestiere venga messo al servizio del nulla.
Sorge quindi una domanda: perché in molti hanno lodato l'originalità di "The Creator"? La risposta giusta è inquitante: forse siamo talmente abituati a vedere blockbuster tratti da libri, fumetti o concepiti come sequel o spin-off di qualcos'altro che la semplice mancanza della scritta "tratto da" fa credere a molti spettatori (anche critici professionisti, forse solo sulla carta) che tutto quel che mostrano sia nuovo o ben fatto. Pura e semplice illusione.

lunedì 4 dicembre 2023

Napoleon

di Ridley Scott.

con: Joaquin Phoenix, Vanessa Kirby, Tahar Rahim, Rupert Everett, Mark Bonnar, Paul Rhys, Ludivine Sagnier, Eduard Phillipponnat, Abubakar Salim.

Biografico

Regno Unito, Usa 2023














Ogni volta che Ridley Scott si è confrontato con la Storia, gli esiti sono stati disastrosi. L'esempio più rappresentativo è il pessimo "Kingdom of Heaven", che anche in quella sua versione director's cut pur superiore alla theatrical, presenta inesattezze e facilonerie ridicole e non solo sul piano della verosimiglianza storica; o anche quel "1492- La Conquista del Paradiso" che trasformava la rievocazione storica in pallido racconto di genere. E se "Il Gladiatore" non è, né ha la pretesa di essere un film storico, l'unico vero exploit in costume credibile da lui diretto resta l'esordio "I Duellanti", il quale è pur sempre basato su di un romanzo storico, quindi in teorica più facile da adattare in modo credibile su grande schermo.
La figura di Bonaparte, poi, non ha mai avuto particolare fortuna al cinema. L'exploit migliore è più famoso è il "Napoleone" di Abel Gance, di quasi cento anni fa, il quale all'epoca fu un flop clamoroso; così come un flop furono il pur bello "Waterloo" e lo stralunato "Désirée", con Napoleone interpretato dal marcantonio Marlon Brando; senza contare il mitologico biopic di Stanley Kubrick, passato davvero alla storia come il più grande capolavoro giammai girato e il cui script pare sia stato fonte di ispirazione per Scott.
Le aspettative per "Napoleon" erano quindi basse e la poca fede che si poteva riservare nel progetto riguardava solo l'ovvia componente spettacolare. Da questo punto di vista, il film non è affatto una delusione, visto che si è rivelato un kolossal bello da vedere, ma genuinamente ridicolo.




Si parte da una considerazione ovvia ma non scontata: la versione cinematografica, di 140 minuti circa, è solo una parte dell'intero film, la cui versione integrale di circa quattro ore è rimandata all'anno prossimo, direttamente sulla piattaforma streaming di Apple. Raccontare ascesa al potere, affermazione e caduta di Napoleone Bonaparte in neanche tre ore è un'impresa semplicemente folle e Scott se ne infischia, tanto che questo montaggio è palesemente monco, passa di palo in frasca da un evento all'altro mischiando vita pubblica e priva del personaggio a tratti senza soluzione di continuità, saltando anche eventi importantissimi, come la campagna in Italia.
Anche il carattere di Napoleone viene maciullato dalla scure del montatore, basti vedere la ricostruzione della battaglia di Austerlitz, dove la geniale strategia del condottiero viene ridotta ad un trucchetto riuscito solo perché l'armata nemica è talmente stupida da non essersi accorta di aver ripiegato su di un fiume ghiacciato.




Ed è proprio il ritratto che Scott fa del personaggio a lasciare perplessi. Nelle sue stesse parole, è sempre stato affascinato dal fatto che un uomo venuto dal nulla e che ha ottenuto tutto fosse sottomesso al sentimento amoroso verso una donna che non poteva controllare. Una chiave di lettura interessante, tanto che se tutto il film si fosse concentrato unicamente sulla storia d'amore e passione con Giuseppina, forse "Napoleon" sarebbe riuscito davvero a rompere la maledizione dei film sul personaggio. Ma l'autore, fatalmente, decide di mischiare tutto, creando un pastrocchio dove il minutaggio dedicato agli andirivieni tra i due amanti finisce per fagocitare le parti più interessanti e importanti, causando cadute di ritmo e di tono paurose.




Il Napoleone che ne esce fuori è un uomo ambizioso, ma neanche troppo, un soldato che vuole ottenere il potere senza che allo spettatore sia dato sapere davvero il perché; non il condottiero famelico e guerrafondaio della Storia, quanto un uomo in cerca di riscatto dalle umili origini e dal suo status di corso francese, che a causa degli eventi finisce per diventare imperatore di Francia. In pratica, un omuncolo che si crede geniale, ma che ottiene il potere per puro caso, più interessato all'amore che all'affermazione personale.
Anche qui, si è di fronte ad una lettura che sarebbe anche stata interessante, se solo Scott non avesse avuto la pretesa di essere un biopic vero e proprio; se fosse stato un ritratto d'autore (à la Sokurov, per intenderci), non gli si sarebbe potuto rimproverare più di tanto, ma la volontà di raccontare tutta o quasi la storia di Bonaparte affossa ogni possibile verosimiglianza e credibilità del ritratto che ne emerge.
Il quale, tra l'altro, non funziona neanche se preso a sé: Phoenix è stranamente stoico in ogni singola scena, mentre la scelta di far interpretare Giuseppina a Vanessa Kirby, di quasi quindici anni più giovane del protagonista, è semplicemente ridicola, tanto che anche nel racconto è diventata più giovane e il rapporto tra i due è stato praticamente invertito: non è più Napoleone a usarla per farsi strada negli ambienti altolocati, quanto lei ad usarlo per salvarsi dalla miseria. La loro diventa così una semplice storia di amore e gelosia.



Se si guarda alla ricostruzione della storia bellica, le cose si fanno ridicole, a dir poco. Napoleone non vuole conquistare nuovi territori ed espandere la sua influenza sul resto d'Europa come un condottiero dell'antichità, quanto farsi improbabile difensore della pace; tant'è che la battaglia di Austerlitz viene combattuta per lesa maestà e la campagna in Russia per pura ripicca, in una lettura degli eventi che non sta né in cielo, né in terra. E se la ferocia degli scontri è sempre presente (oltre allo splatter, è anche lo spettacolo a fare capolino, con quella cannonata contro le piramidi tanto improbabile quanto fantasmagorica), il fatto che le battaglie ritratte siano poche non fa filtrare lo stato degli eventi che furono, al punto che, nell'ambito del racconto, non si può neanche parlare di Guerre Napoleoniche vere e proprie; con l'ovvia conseguenza che quella conta dei morti che appare a fine film risulta davvero straniante.




Il mestiere di Scott come artigiano delle immagini perlomeno continua ad essere presente. La bellissima fotografia del sempre bravo Dariusz Wolski immerge gli eventi in colori autunnali, trasformando il racconto in una storia crepuscolare decisamente ammaliante; e le immagini, ricostruite sulla scorta dei quadri del XIX secolo, sono a tratti genuinamente belle.
Le scene di guerra sono fortunatamente ben coreografate e montate (sono lontani, per fortuna, gli orrori de "Il Gladiatore", "Kingdom of Heaven" e "Black Hawk Down", con quel maledetto otturatore chiuso e il montaggio subliminale che ammazzava ogni possibile intelligibilità); su tutte, è la battaglia di Waterloo, per ovvi motivi, a ricevere il trattamento migliore, con scene di massa così ben enfatizzate da far sembrare il frutto un'opera degli anni d'oro del cinema bellico.
Se c'è un rimprovero da fare alla messa in scena, riguarda un unico aspetto, benché sia anche il più bizzarro: il racconto abbraccia vent'anni di vita dei personaggi, ma questi non invecchiano praticamente mai, come si avesse voluto risparmiare sul make-up necessario.



Tolto l'aspetto estetico-stilistico, che vale anche al netto di questa strana ingenuità, "Napoleon" è un film sbagliato, che sfoggia tutta la sbruffonaggine di Scott quando si tratta di raccontare la realtà; o per lo meno lo è in questa versione, dalla quale il ritratto del personaggio che emerge è talmente fantasioso da oltrepassare i limiti della parodia.