sabato 30 marzo 2013

La Casa 2

Evil Dead II- Dead by Dawn

di Sam Raimi

con: Bruce Campbell, Sarah Berry, Dan Hicks, Kassie Wesley, Denise Bixler, Richard Domeier.

Horror/Splatter/Commedia/Slapstick

Usa (1987)















Il primo "The Evil Dead" è stato un esordio folgorante e, purtroppo, come spesso accade agli enfant prodige, Raimi non riesce a bissare il successo al suo secondo film, quel "I Due Criminali più Pazzi del Mondo" che voleva dirigere come esordio, rivelatosi un vero e proprio bagno di sangue al botteghino. A Raimi e ai suoi collaboratori Rob Tapert e Bruce Campbell (Joel Coen si distacca dal gruppo in questo periodo, inaugurando una carriera a dir poco sfolgorante), urge così tornare in carreggiata con un film facilmente vendibile al pubblico; decidono così di creare un sequel al loro fortunato esordio e, nella fase di finanziamento, trovano persino l'appoggio di Dino De Laurentiis, il quale è entusiasta di aiutare il team creativo. Con un budget di oltre 3 milioni di dollari, Raimi crea così una strana continuazione al cult dell'82, del quale funge persino da remake






Il primo atto, infatti, si apre con Ash (Bruce Campbell) diretto verso il cottage del film precedente, stavolta accompagnato dalla sola fidanzata Linda (Denise Bixler); risvegliati gli ectoplasmi sumeri tramite la lettura del Necronimicon, Ash uccide la ragazza posseduta, viene posseduto anch'egli da uno spirito e, miracolosamente, sopravvive alla notte; al cottage, però, presto arrivano nuovi ospiti: la dottoressa Nowby (Sarah Berry), figlia dell'archeologo che ha ritrovato il Libro dei Morti, il suo assistente (Richard Domeier) e due montanari (Dan Hicks e Kassie Wesley).



L'idea di rifare la trama del primo film pare sia stata dovuta a mere ragioni produttive: Raimi e la sua Renaissance Production pare non possedessero i diritti del prequel, quindi non potevano usarne le scene finali per agganciarsi a questo secondo film. Da qui l'idea di creare un piccolo remake come introduzione; il che, tra l'altro, ha causato confusione presso il pubblico: per alcuni Ash, dopo essere sopravvissuto a stento allo chalet maledetto, pare sia voluto tornarci per un'altra notte follia.



Con budget nettamente superiore all'originale, Raimi può davvero sbizzarrirsi: i suoi movimenti di macchina si fanno ancora più vertiginosi ed impossibili, la messa in scena ancora più folle e il livello dello splatter aumenta. "Evil Dead II", fortunatamente, non è la mera fotocopia dell'originale, quanto più una sua versione più amena: laddove il capostipite era un horror splatter puro, in cui gli elementi comici si affacciavano timidamente solo nel terzo atto, "Evil Dead II" è una vera e propria commedia horror; il personaggio di Ash, interpretato da un Bruce Campbell perfetto erede di Harold Lloyd, diviene una maschera comica vera e propria: per tutta la durata del film viene sbeffeggiato, percosso e scaraventato a destra e a manca dai demoni come se fosse il protagonista di una slapstick comedy degli anni '20; e infatti il punto di riferimento di Raimi qui non è più Lucio Fulci, bensì i cartoon di Tex Avery e Chuck Jones; la messa in scena diviene così smaccatamente grottesca: gazie all'uso di grandangoli che distorcono totalmente le prospettive, sembra di assistere ad un episodio di Tom & Jerry con Campbell al posto del povero gatto; l'umorismo è perennemente sopra le righe, con punte di gustosa volgarità che producono una serie di scene da antologia, su tutte il confronto tra Ash e la sua "mano posseduta", perfetto esempio di gag demenziale immerso in un'atmosfera orrorifica.


"Evil Dead II" è, però, anche un horror splatter perfettamente riuscito: la violenza è ai massimi livelli, con mutilazioni ed occhi volanti che si susseguono senza sosta; il gore viene intrecciato fin dalle prime scene all'umorismo demenziale, creando un mix spiazzante: si ride e ci si disgusta, al contempo, delle peripezie dei malcapitati, assistendo alla loro decimazione come se si fosse davanti ad un cartoon crudele e fuori controllo; fortunatamente Raimi non è un comune autore di B-Movie: il tasso di violenza è, si, elevato e l'atmosfera giocosa e divertita potrebbe ridurre il tutto ad una pellicola trash compiaciuta, ma il regista ha il perfetto controllo della messa in scena, sa perfettamente dove spingersi con la provocazione e dove fermarsi per non far scadere il tutto nella volgarità gratuita; anche  grazie a motivi di censura, che imposero un'assurda colorazione scura per il sangue, il gioco al massacro non scade mai nel futile: tutto quello che viene mostrato è sempre subordinato all'urgenza di divertire, più che di provocare gratuitamente le reazioni di pancia o di grana grossa; la maestria stilistica di Raimi, è inutile sottolinearlo, rende poi il film decisamente migliore rispetto alle ottuse e sgrammaticate commedie horror dell'epoca, rendendo "Evil Dead II" una pellicola sicuramente di cattivo gusto, ma mai stupida.



A tratti è tuttavia avvertibile una stanchezza nella regia, i cui picchi arrivano tutti nel secondo atto, il che rende palese la natura meramente commerciale dell'operazione; pare infatti che Raimi volesse creare come sequel diretto al primo film quello che poi sarebbe stato il capitolo finale, ossia il mitologico "L'Armata delle Tenebre", ma non abbia potuto farlo a causa della ritrosia di alcuni investitori.
Difetto che non inficia più di tanto la visione: "Evil Dead II" resta un sequel scoppiettante, estremamente divertente nella sua estrema ma controllata follia.

venerdì 29 marzo 2013

Beetlejuice- Spiritello Porcello

Beetle Juice

di Tim Burton

con: Michael Keaton, Geena Davis, Alec Baldwin, Winona Ryder, Jeffery Jones.

Fantastico/Commedia

Usa (1988)












Dopo aver lavorato per anni come illustratore e animatore presso la Disney e aver realizzato un paio di splendidi cotrometraggi, Tim Burton esordisce al lungometraggio nel 1985, con "Pee-Wee's Big Adventure", pellicola divertente, ma impersonale, in cui il ruolo del geniale autore americano è ridotto a quello di mero mestierante.


Nel 1988. ottenuto un cospicuo budget e la pressoché totale libertà creativa, Burton dirige quello che può essere considerato il suo vero esordio, "Beetle Juice", commedia fantastica con venature horror, in cui l'autore fissa per sempre il suo stile e i temi che, bene o male, lo accompagneranno per tutta la carriera.
Dopo un incidente stradale, i coniugi Adam e Barbara Maitland (Alec Baldwin e Geena Davis), novelli sposi, si ritrovano defunti e confinati nella loro villa in campagna; i guai cominciano quando una famiglia di vivi acquista la casa e irrompe nella non-vita dei due; per liberarsi degli incomodi, i Maitland decidono di rivolgersi allo strambo Beetlejuice (Michael Keaton), spettro folle e demente specializzato in "bio-esorcismi".


La fantasmogoria gotica di Burton irrompe così per la prima volta su schermo, con effetti fantastici; lo stile dell'autore è palesemente influenzato dal gotico dei primi del '900 (il design di personaggi ed ambienti, in particolare, si rifà alle illustrazioni per bambini dell'epoca), ma la sua genialità è unica: Burton mischia il gotico vittoriano con il pop americano, l'espressionismo di Robert Weime con l'horror della Universal, lo stop motion di Svankmajer ai modellini in cartapesta.


Il risultato è originale e abbagliante: per tutta la durata del film le invenzioni stilistiche, gli effetti scenografici e le maschere dei personaggi, disegnate dallo stesso Burton, danno vita ad una sorta di parata di Halloween filmata, riempiendo l'occhio di colori caldi giustapposti a scenografie polverose; con Burton il design diviene cinema: le sue inquadrature, fatte di grandangoli eccessivi e movimenti di macchina basilari, sono del tutto subordinate alla valorizzazione scenografica, donando allo stile estetico la dignità di un vero e proprio personaggio.



L'estetismo gotico e visionario, però, non è il centro assosulto ed unico della pellicola: "Beetle Juice" è anzitutto una commedia sovrannaturale esilarante e goliardica; Tim Burton comincia qui il suo discorso sulla filosofia del diverso: il "freak", qui rappresentato da i due spettri protagonisti e dal personaggio di Winona Ryder, è protagonista assoluto ed il solo foriero di vera dignità; la diversità, intesa come non-omologazione ai valori estetici e sociali, per Burton è l'effettiva normalità: ad essere mostruosi non sono i fantasmi o le creature oltremondane, ma i normalissimi vivi che invadono la privacy dei Maitland; I Deetz sono il perfetto opposto dei Maitland: laddove questi ultimi sono umili e tranquilli, perfetto esempio della famiglia piccolo-borghese americana, i primi sono snob e superbi, metafora della borghesia pseudo-intellettuale, foriera solo del vuoto della mente; la loro "normalità", infatti, cela una serie di vizi e stupidità che Burton svela con complicità, ma senza autocompiacimento: la sua è un'analisi acuta e divertita, mai davvero polemica. Geniale è anche il modo con cui l'autore descrive l'Oltretomba: un apparato burocratico in panne, immerso in colori saturi e crepuscolari, in cui i morti attendono "per sempre" di essere collocati da qualche parte, sorta di reminiscenza kafkiana immersa nel profondo degli Stati Uniti e nella cultura pop.


Perfetto controaltare di tale visione del freak è quella che, invece, l'autore riserva per Beetlejuice: introdotto come elemento iconoclastico, lo "spiritello porcello" svela, quasi subito, la sua natura arraffona ed individualista; Beetlejuice altro non è che l'incarnazione del lato peggiore dell'attitudine imprenditoriale americana; una volta iniziata la sua attività, egli si intromette sempre di più nella vita dei Maitland per ottenere sempre di più: più spazio (infesta il plastico di Adam), più lavoro (cerca in tutti i modi di convincere i coniugi a proseguire con le burle), fino a reclamare la mano della giovanee "viva" Lydia, climax definitivo che simboleggia l'edonismo individualista insito nel personaggio. Michael Keaton si dimostra semplicemente perfetto per il ruolo: divertente e divertito, è un ciarlatano non morto dalla lingua forcuta e dai modi rozzi ed istrionici, le cui battute e la cui mimica sfondano lo schermo e si imprimono definitivamente nell'immaginario collettivo.


"Beetle Juice" è una pellicola divertente, graffiante, visionaria, folle e perfettamente riuscita: il primo vero lavoro di Tim Burton e tutt'ora uno dei suoi migliori.

mercoledì 27 marzo 2013

Funny Games U.S.

Funny Games

di Michael Haneke

con: Michael Pitt, Naomi Watts, Tim Roth, Brady Corbet, Devon Gearhart.

Usa, Francia, Inghilterra, Austria, Germania, Italia (2007)











Esattamente dieci anni dopo aver diretto l'originale "Funny Games" (1997), Haneke esordisce in una produzione americana con il remake del suo capolavoro; la domanda da porsi, ovviamente, è: perché?
A detta del grande autore, il suo intento era quello di portare il suo film ad un pubblico più ampio, quello dei multisala, che solitamente diserta le piccole produzioni europee in favore dei blockbusters di Hollywood; la presenza di un cast americano di prim'ordine che recita in inglese avrebbe garantito un'ampia distribuzione alle tesi del maestro austriaco, che avrebbero così raggiunto anche gli spettatori meno attenti e più superficiali; la verità in merito a questa operazione, a quanto pare, è invece più semplice e pragmatica.



Il progetto di un remake a stelle e strisce del film '97 pare fosse in cantiere da anni ad Hollywood: rifare "Funny Games" in America, con un grosso budget e un cast di richiamo, avrebbe potuto facilmente portare alla totale snaturazione del lavoro originale (e basta dare un occhiata a qualsiasi remake/reboot fatto ad Hollywood negli ultimi dieci anni per accorgersi dell'effettiva urgenza di un'eventualità del genere); per evitare scempi, Haneke si è così proposto alla produzione come regista, riuscendo ad ottenere, per fortuna, il totale controllo dell'operazione: nasce "Funny Games U.S.", non un semplice remake, ma l'effettiva fotocopia del film originale.



Era infatti impossibile aggiungere o sottrarre qualcosa all'opera di Haneke, perfetta già così com'era; il grande autore si limita così a rifarla tale e quale, riproponendola inquadratura per inquadratura, senza cambiare una virgola al tutto e aggiungendo giusto due particolari del tutto irrilevanti per lo svolgimento (uno schiaffo all'inizio del sequestro ed una risata durante la scena del rewind); l'opera originale viene così ripoposta nella sua integrità; tuttavia, il cambio del cast non permette più di effettuare il nesso di continuità con "Benny's Video", facendo perdere un risvolto importante al film.


Il divertimento, comunque è assicurato: questo remake riesce a stordire e disturbare quanto l'originale, anche grazie al supporto dell'ottimo cast, su cui spiccano un Michael Pitt istrionico e luciferino e una Naomi Watts in stato di grazia.




"Funny Games U.S:" è una pellicola inutile, ma riuscita: chi non ha mai visto l'originale l'apprezzerà di più e magari potrà avvicinarsi al cinema del maestro austriaco.

Howard e il Destino del Mondo

Howard the Duck

di Willard Huyck

con: Ed Gale, Lea Thompson, Tim Robbins, Jeffrey Jones.

Fantastico/Commedia/Avventura

Usa 1986
















A sentirlo oggi, con la pessima nomea che la sua trasposizione filmica gli ha procurato, potrebbe sembrare strano, falso, semplicemente impossibile, ma Howard il Papero è stato uno dei migliori (se non il migliore) nonché il più interessante albo pubblicato dalla Marvel negli anni '70 e '80.
Creato dal compianto Steve Gerber nel lontano 1973, il personaggio nasce come un vero e proprio scherzo fatto a Stan Lee (e di riflesso al lettore): nel numero 19 di "Adventure into Fear", un gruppo di personaggi capeggiati dal silenzioso ed imponente "Uomo-Cosa" doveva fronteggiare una crisi dimensionale, che fondeva i vari universi; il più stravagante effetto, nella storia, è quello di introdurre il personaggio più strambo, sboccato e incazzato che il fumetto americano ricordi, Howard il Papero appunto, che, sigaro d'ordinanza in bocca, si presenta al lettore come una sorta di Paperino adulto ed arrabbiato, tanto che per anni la stessa Disney cercherà di bloccarne la pubblicazione.
Giunto da un mondo parallelo dove l'anatra si è evoluta in forma intelligente, Howard si unisce all'Uomo-Cosa e soci, ma viene ucciso dopo poche pagine, precipitando in una sorta di pozzo senza fondo. L'intenzione di Gerber era chiara: sfottere il pubblico aggiungendo un personaggio strambo in una storia già di suo folle. Ma il successo che questa sua prima apparizione generò, costrinse Stan Lee e l'autore a "resuscitare" il pennuto, prima in un paio di storie in appendice a "Man-Thing", poi in una serie regolare: "Howard the Duck", che inizio nel 1976 e si concluse in parte nella prima metà degli anni '80. Il successo fu stratosferico anche in Italia, dove la mitica Editoriale Corno importò le storie, ribattezzando il personaggio con l'italianissimo "Orestolo il Papero".




A decretare il successo della serie e la sua riuscita, è una formula per l'epoca inedita e spiazzante: Howard non è un supereroe con superproblemi, o un superuomo dotato di carisma, intelligenza e pazienza. Howard è l'incarnazione stessa dell'uomo comune, alienato in una società che non comprende e dalla quale non viene compreso né accettato. Howard è, in tutto e per tutto, un avatar del suo autore: Gerber, ebreo, sinistrorso e pacifista, si trovava spiazzato dall'America di quei turbolenti anni '70 e con il suo personaggio decide di esorcizzare le use angosce e frustrazioni.
Un avatar che si ritrova, proprio come il suo autore, catapultato in un mondo strambo, popolato da folli "scimmie pelate" che si comportano in modo umorale ed illogico. E Gerber fa di tutto per spiazzare il lettore: arrivato sulla Terra, in preda alla disperazione più nera, Howard decide di suicidarsi già nel primo numero della serie. A salvarlo dagli impulsi autodistruttivi e dalla depressione più nera è solo l'amicizia (che talvolta sfocia in attrazione) con la bellissima Beverly Switzler, l'unica scimmia pelata che sopporta, una ragazza giovane, disinibita e un pò toccata che lo accompagnerà per tutta la sua vita editoriale.




Le loro avventure viaggiano costantemente su due binari opposti e complementari: da un lato la disanima acida ed irriverente della società, dall'altro un gusto estremo per il grottesco, che si tramuta in un vero e proprio sfottò dei cliché fumettistici, che Gerber si diverte a ridicolizzare ed infrangere.
Con piglio caricaturale, Howard distrugge, di numero in numero, tutte le convinzioni della società americana: il progresso non è che una sciarada che permette ai ricchi di arricchirsi sulle spalle dei poveri e a discapito dell'ambiente; la violenza, generata dalla cultura pop del cinema di arti marziali d'accatto che tanto furoreggiava all'epoca, altro non era che un mezzo per creare mostri e distruggere l'innocenza, in una delle storie più toccanti; la classe borghese, ricca e strafottente, con le sue mode e vizi non fa che causare danni ai più deboli. Nel ciclo di storie più famoso, Howard viene persino candidato alla Casa Bianca, svelando l'inconsistenza e le contraddizioni del sistema democratico a stelle e strisce.



Cattiveria che si sposa perfettamente con una caratterizzazione psicologica inedita per l'epoca in cui il fumetto andò in stampa: oltre che una carattere, Howard ha anche una vera e propria psicologia, che lo porta sovente a scontrarsi con sé stesso e la propria incapacità di omologarsi, causandone, ad un certo, un vero e proprio crollo psicologico.
Altro binario della serie era, come anticipato, la parodia delle testate supereroistiche, rilette in chiave demenziale; ecco dunque apparire sin dai primissimi numeri una serie di villain del tutto improbabili e dalla caratterizzazione volutamente provocatoria: l'Uomo Rapa dallo Spazio Profondo, venuto sulla Terra per provare i piaceri del sesso, il Sonnambulo, artista frustrato che di notte sfoga la sua rabbia pestando chi lo opprime, la Vecchietta dell'Autobus, perennemente preoccupata dei propri reni, satira della stupidità dell'uomo medio; e su tutti, il Dottor Bong, vera e propria nemesi del papero, ex giornalista sfigato che scopre come la penna possa portare ad una vera e propria riscrittura del reale per tramutarsi in una sorta di Dottor Moreou ossessionato dalle curve della procace Beverly.
Gli scontri con questa amena galleria di personaggi vengono risolti da Gerber in modo folle e anticlimatico: la violenza che caratterizza tutt'oggi i comic viene deprecata e il conflitto risolto a suon di umorismo, in una serie di catarsi sempre più folli ed affascinanti.
Ma il vero nemico di Howard, ovviamente, era un altro: il malessere; in una rilettura più verosimile del mantra del "supereroe con superproblemi", Howie e Beverly sono insidiati da minacce ben più pericolose del supercriminale di turno, come la mancanza di posto di lavoro fisso o di un tetto sulla testa o, talvolta, della salute mentale o psichica, in ossequio ad una visione del mondo che, per quanto grottesca e folle in superficie, appare in fin dei conti più realistica di quanto si fosse mai visto sulla carta a fumetti.





Quando, alla metà circa degli anni '80, George Lucas acquisì i diritti del fumetto, le produzioni audiovisive tratte dai fumetti Marvel erano semplicemente orripilanti; tolta la bella serie televisiva tratta da "L'Incredibile Hulk", cult dell'epoca tutt'oggi apprezzabile, le trasposizioni, sempre per il piccolo schermo, degli Avengers e di Capitan America erano semplicemente inguardabili. Grande trepidazione, quindi, ci fu quando il papà della famosa "Galassia lontana lontana" decise di trasporre sul Grande Schermo uno dei personaggi più amati della Casa delle Idee in un lungometraggio ad altro budget, che avrebbe dovuto rappresentare uno dei blockbuster di punta dell'estate del 1986. Malauguratamente, Lucas non aveva la minima idea di cosa farsene di Howard e del suo pazzo mondo: affidata la regia all'amico Willard Huyck, già autore dello script di "Indiana Jones e il Tempio Maledetto" (1984) e regista dello scialbo "La Miglior difesa è... la Fuga" (1984), Lucas si ritaglia il suo solito ruolo di produttore-demiurgo, imbastisce una grossa produzione, i cui valori sono tutt'oggi apprezzabili, per creare un film ameno, indeciso sul tono e sul target, che finisce così con l'essere genuinamente trash.





La sagacia del personaggio viene relegata ai dialoghi con cui Howard schernisce i suoi compagni; il senso del grottesco latita, così come l'umorismo acido; e ad una trama ironica e parodistica se ne preferisce una incredibilmente seria, dai risvolti fortemente dark, infarcita, però, di rimandi provocatori e sexy.
Nei primi minuti, il film sembra rifarsi in parte al tono goliardico e provocatorio del comic, aggiornandolo alla sensibilità anni '80: il povero paperotto Howard (interpretato da Ed Gale, bardato in un costume-animatronic tutto sommato stupefacente) arriva a Cleveland, descritta come un coacervo di umani violenti ed arrapati, che si divertono a picchiare il papero come in un film della Troma mentre si abbandonano alla lascivia in mezzo a strade e vicoli sudici. Beverly (interpretata dalla bella Lea Thompson) è ora una cantante rock di second'ordine sfigata e stupida, che finisce per innamorarsi sin da subito del suo strambo compagno. E lo scienziato Phil (un giovanissimo Tim Robbins) è, come da tradizione, un perfetto esponente della stupida razza delle "scimmie pelate", che si comporta più da idiota che da scienziato. Tuttavia, man mano che il minutaggio corre, ci si accorge di come il tutto venga orchestrato in maniera sin troppo seria: alla cattiveria e al senso di grottesco che sarebbero stati necessari per rendere il tutto credibile, si sostituisce una melanconia troppo marcata e fuori posto, visto che si sta pur sempre parlando di un papero antropomorfo sfottente e disilluso. E', tuttavia, nella seconda metà del film che le cose precipitano.




Abbandonato l'umorismo e i sottotesti sessuali (compresi gli ormai famosi nudi delle papere antropomorfe), la storia intraprende una svolta horror del tutto inaspettata. Il nemico di turno, lungi dall'essere un essere grottesco, è un improbabile demone spaziale che i nostri "eroi" devono rispedire al mittente. A farla da padrone sono da qui in poi atmosfere horror condite da una spiazzante dose di body horror, come nella sequenza in cui il posseduto dottor Jenning (Jeffrey Jones) usa un tentacolo orale per ricaricarsi di energia dinanzi ad una schifata Beverly, sequenza che porta alla mente i tentacle-rape di "Urotsukidoji" e affini. L'uso di un registro horror pregnante e ai limiti del gore era normale anche nel cinema per ragazzi dell'epoca, ma in "Howard the Duck" appare fuori luogo, forzato, troppo dark.





Tanto che alla fine ci si domanda a quale target questa trasposizione voglia rivolgersi: troppo camp per essere presa sul serio, troppo adulta per essere considerata un'opera bambini. "Malriuscita" è il termine adatto per definirla, persa com'è in una serie di influenze troppo eterogenee e mal amalgamate da uno script claudicante. Al punto da divenire, appunto, un vero e proprio saggio del tash: un'accozzaglia senza né capo né coda di situazioni e personaggi.





Non c'è da stupirsi, quindi, del flop immane che il film fu all'epoca: schifato dallo spettatore comune, odiato dai fans del fumetto; un duro colpo per la Marvel, che non riusci più a stuzzicare l'interesse delle major per i suoi personaggi per almeno altri 12 anni. 
Dal canto suo, invece, Lucas è tutt'oggi convinto che un giorno la gente riscoprirà "Howard e il Destino del Mondo" per il capolavoro che è; peccato che a quasi trent'anni dalla sua uscita sia giustamente ricordato solo per il disastro artistico e commerciale che fu; e per aver distrutto l'eredità di un personaggio che su carta aveva ben altra caratura.

martedì 26 marzo 2013

Il Vendicatore

The Punisher

di Mark Goldblatt

con: Dolph Lundgren, Lou Gossett Jr., Jeroen Krabbé, Kim Miyori, Nancy Everhard.

Azione

Australia, Usa (1989)















La Marvel è oggi la casa editrice di comics più famosa al mondo; nel corso di quasi 70 anni di attività è stata in grado di creare, assieme alla DC Comics, un duopolio pressocchè immortale ed intoccabile all'interno del panorama del fumetto mainstream supereroistico americano; divenuta anche casa di produzione cinematografica nel 2007, ha dato vita all'ondata di cinecomics che ormai ha colonizzato l'immaginario filmico collettivo; è dunque ironico il fatto che il primo vero e proprio adattamento cinematografico di un personaggio del suo roaster sia avvenuto solo nel 1986; tralasciando i serial degli anni '40 e qualche scalcinato film per la televisione prodotto tra la fine degli anni '70 ed i primi anni '80, l'onore di portare la bandiera Marvel sul Grande Schermo è spettato ad "Howard e il Destino del Mondo", con tutte le conseguenze immaginabili.
La "febbre" dei cinefumetti, d'altro canto, sarebbe esplosa solo qualche anno dopo con il "Batman" di Tim Burton; e proprio nello stesso anno in cui l'Uomo Pipistrello trionfava al botteghino, un altro personaggio Marvel si affacciava al cinema; un personaggio misconosciuto al pubblico generalista, nonchè uno tra i più cupi, oscuri e (all'epoca) meno riusciti: Frank Castle, alias The Punisher. 


Creato nel 1974 da Jerry Conway, il Punisher esordisce sulle pagine de "L'Uomo Ragno" addirittura come villain, per poi essere quasi subito promosso ad eroe e a protagonista di una testata propria; caratteristiche del personaggio sono l'assenza di super-poteri, l'uso di armi da guerra di ogni tipo per massacrare i criminali, il cinismo e, sopratutto, un iconico teschio bianco, simbolo di morte, sul petto al posto del classico logo del supereroe.
Personaggio nato sulla scorta del successo de "Il Giustiziere della Notte" (1974) e di tutti i vigilantes privati che si sono visti al cinema negli anni '70; tanto che la sua origin story non si discosta di un millimetro dal canone: ex berretto verde decorato in Vietnam, Castle, figlio di immigrati italiani, ingaggia una guerra senza quartiere contro la mafia ed il resto della criminalità organizzata newyorkese dopo che la moglie ed i figli restano vittime, sotto i suoi occhi, di uno scontro a fuoco tra clan a Central Park.





L'idea di un eroe-giustiziere che massacra i criminali è, senza mezzi termini, semplicemente aberrante: il Punisher è in un certo senso la perfetta personificazione dell'idea, tipicamente americana, per cui un cittadino deluso dalla legge può tranquillamente e impunemente uccidere i "cattivi" continuando a restare dalla parte del giusto, come se si fosse in un far west di asfalto e cemento; negli anni '80 trasportare un personaggio del genere su pellicola era impresa semplice: praticamente tutti gli eroi dei film d'azione di Hollywood erano in qualche modo epigoni del giustiziere impersonato da Bronson; il Punisher sarebbe così potuto divenire tranquillamente una sorta di John Rambo metropolitano dal passato ancora più tragico; per fortuna non è andata così.





Lo sceneggiatore Boaz Yakin (in seguito autore dello script dello sfortunato "Prince of Persia- Le Sabbie del Tempo" del 2010), decide di adottare un approccio inedito al personaggio: caratterizzarlo come un vero e proprio anti-eroe, schiavo della sua sete di sangue, la cui ossessione per il castigo lo ha condotto alla deriva; Frank Castle si trasforma così da eroe duro e inflessibile ad una macchina da guerra stanca e disillusa, che continua la sua guerra al crimine per esorcizzare lo spettro del massacro alla sua famiglia, nel vano tentativo di trovare un'irraggiungibile pace interiore; il personaggio acquista così finalmente spessore e il cattivo gusto ad esso intrinseco viene cancellato; la formula è vincente, tant'è che negli anni 2000 dopo sarà ripresa anche nei fumetti da parte di Garth Ennis, che riuscirà così a dare dignità al personaggio anche su carta sulla serie pubblicata su "Marvel MAX", la migliore con protagonista il vigilante italoamericano. Tuttavia, all'epoca l'operazione di caratterizzazione sul personaggio non pagò: i fan furono scontentati dal fatto che il loro beniamino non si divertisse a distruggere tutto e tutti si imbestialirono, addirittura, per il solo fatto che non sfoggiasse il teschio sul petto (!).
Poco male: il Punisher (malamente tradotto come "Vendicatore" nella versione italiana) su pellicola è un personaggio cupo e sfaccettato ed è protagonista non di una semplice storia di origini e vendetta, ma di un intreccio gangster che, assieme alla caratterizzazione dei personaggi e all'atmosfera, avvicina la pellicola ai territori del noir, piuttosto che al semplice action movie.




La metropoli in cui il protagonista si muove è sudicia e buia, sembra uscita dai migliori romanzi hard-boiled piuttosto che dalle pagine di un fumetto; i personaggi sono tutti disillusi e disperati: oltre al protagonista, anche il suo ex compagno, il detective Berkowitz (Lou Gossett Jr.) è follemente ossessionato dall'idea di fare giustizia catturando il Punisher; la sua aiutante (Nancy Everhard), inizialmente inesperta, sarà ben presto contaminata dalle ossessioni del partner; il villain Gianni Franco, piuttosto che essere un semplice cattivo spaccatutto, è un gangster opportunista in grado di dare via tutto per la salvezza del figlio; solo il cattivo principale, la lady della yakuza Tanaka (Kim Miyori) è monodimensionale, ma già il fatto che sia una villain donna in un film d'azione degli '80 le dà un minimo di spessore in più.
Incredibile a dirsi, la riuscita del protagonista dipende anche dal casting: il golem semovente Dolph Lundgren non solo ha il perfetto fisico da macchina da guerra fuori controllo, ma grazie alla sua proverbiale inespressività riesce ad essere credibile come ex sbirro stanco e disilluso.




Alla regia troviamo Mark Goldblatt, grande montatore veterano dell'action (ha montato anche "Terminator" nel 1984, il relativo seguito nel '91 e "True Lies" nel '94, oltre ad aver collaborato al montaggio di "Heat" di Michael Mann) che dimostra ottime doti da regista d'azione; Goldblatt predilige un approccio più fisico e brutale rispetto a quello visto nelle pellicole dell'epoca: le esplosioni sono pochissime e gli scontri si concentrano sulle sparatorie, che qui, però, sono crude e violente e non assumono mai la parvenza ludica propria del decennio di "Commando"; l'atmosfera cupa e nichilista viene sottolineata dalle luci e dalle inquadrature; sono almeno le due sequenze che meritano di essere ricordate: il prologo/epilogo con il carrello in avanti e la voce off del protagonista che recita un soliloquio sulla punizione, e la fine del terzo atto, con Lou Gossett Jr. lasciato solo, in una solitudine disperata ben sottolineata dalle inquadrature e dal montaggio basato sugli stacchi sull'asse.




Sfortunatamente il budget non esorbitante a volte si fa sentire: le scenografie sono talvolta scarnissime e palesemente false, come quelle della scena dell'indagine nelle fogne o di quella dell'assalto alla casa da gioco; inoltre l'umorismo non sempre è messo al posto giusto, rovinando in parte l'atmosfera (ma va detto che c'è ne è davvero poco per una pellicola d'azione del 1989); gli spettatori meno esperti, infine, difficilmente distingueranno questo "The Punisher" da qualsiasi altra pellicola action, data la mancanza di elementi fortemente caratterizzanti per i non appassionati del noir o dell'hard-boiled o per chi non ha letto la serie di Ennis; difetti, questi, che contribuiscono ad abbassare il grado di riuscita della pellicola, ma che fortunatamente non lo azzerano.




"The Punisher" è un film crudo, un noir metropolitano che riesce a colpire e a coinvolgere pur avendo bassissime ambizioni; i fan del fumetto dovrebbero recuperarlo e capire come questo sia il modo giusto di rendere il personaggio su pellicola, non come è stato fatto negli orrendi "reboot" degli anni 2000, ossia "The Punisher" del 2004 e "Punisher: War Zone", due pellicole davvero una più brutta dell'altra.

Niente da Nascondere

Cachè

di Michael Haneke

con: Daniel Auteuil, Juliette Binoche, Annie Girardot, Maurice Bénichou, Aïssa Maïga.

Drammatico

Francia, Austria, Germania, Italia (2005)











Dopo l'exploit post-catastrofico di "Il Tempo dei Lupi" (2003), Haneke torna nel territorio, a lui decisamente più consono, della critica alla classe borghese europea contemporanea; "Niente da Nascondere" segna un piccolo punto di svolta nella carriera dell'autore e, al contempo, rappresenta uno dei vertici del suo cinema.




La vita dell'intellettuale parigino Georges Laurent (Daniel Auteuil) viene scombussolata di punto in bianco da un evento sinistro e singolare: uno sconosciuto comincia ad inviarli delle strane videocassette, sulle quali sono impresse le immagini della sua casa; Georges discende, pian piano, in uno stato di paranoia che lo porterà oltre ogni limite.
La paranoia, appunto, è il tema centrale del film; la paura inconscia che un estraneo possa introdursi, non visto ("nascosto" da cui il titolo originale), nella propria vita e rivoltarne i segreti; Georges è il simbolo dell'uomo medio: benestante, sposato con una bellissima donna, apparentemente tranquillo; ma quella di Georges altro non è che una maschera che la sua stessa paranoia scioglierà a poco a poco; tuttavia, Haneke, arrivato a questo punto, sembra porre un quesito allo spettatore: il personaggio che si è così rivelato è il vero io del protagonista o non è altro che una metamorfosi che questo ha subito a causa dello stato di alterazione in cui si trova coinvolto? L'autore non da risposte: il quesito resta perennemente sospeso, in un gioco di specchi in grado davvero di stuzzicare la riflessione di chi l'osserva.
Il mistero stesso dietro le cassette, inutile nasconderlo, resterà senza risposta: esso, alla fin fine, non è che un pretesto che l'autore usa per scoperchiare il marcio che si cela sotto l'apparente normalità del personaggio principale.


Haneke, come sempre, attua un distacco verso il racconto: la pellicola è volutamente fredda e la messa in scena smaccatamente oggettiva; si assiste allo sfacelo del protagonista come attraverso un vetro e le sue paure non prendono mai vera forma.
Tuttavia, verso la fine, l'autore decide di andare in controtendenza rispetto al suo stile abituale: al climax, Haneke mostra per la prima volta la violenza, che torna nelle sue immagini per colpire dritto in faccia il protagonista, e con lui lo spettatore, come non avveniva dai tempi della scena del "rewind" di "Funny Games" (1997)..


"Niente da Nascondere" è una pellicola complessa e affascinante, il perfetto ritorno in forma del grande regista austriaco.

Upside Down

di Juan Solanas

con: Jim Sturgess, Kirsten Dunst, Timothy Spall, James Kidnie.

Fantastico/Romantico

Canada, Francia (2012)












Ci si stupisce spesso, negli ultimi anni, di come la fantascienza sia regredita da "genere" vero e proprio, adulto e metaforico, a mero pretesto per mostrare deliri estetici del tutto fini a sè stessi ("Avatar" del 2009), scene d'azione sciatte e grezze ("Lockout" del 2012) o storiucole da due soldi atte esclusivamente ad intrattenere lo spettatore, senza dargli alcun tipo di contenuto effettivo ("Looper", sempre del 2012); "Upside Down" è uno dei rari casi in cui le tre categorie elencate si fondono perfettamente, senza riuscire a dare nulla di nuovo o di semplicemente valido.


La premessa alla base del film è stuzzicante e originale: esiste, da qualche parte nell'universo, uno strano mondo formato da due pianeti gemelli, le cui gravità si attraggono reciprocamente; gli abitanti del "Mondo di Sopra" sono ricchi e prosperi, quelli del "Mondo di Sotto" sono sfruttati per il benessere dei primi; il giovane Adam Kirk (Jim Sturgess), abitante del Mondo di Sotto, conosce da bambino la bella Eden (Kirsten Dunst), che invece viene dal Mondo di Sopra, e se innamora perdutamente; i due cominciano una tormentata storia d'amore: i rapporti tra gli abitanti dei due mondi sono proibiti; separati dalle autorità, i due ragazzi si perdono di vista per 10 anni, trascorsi i quali Adam rivede per caso la sua innamorata e decide di fare di tutto per tornare da lei.


Gli intenti del regista Juan Solanas (qui al suo secondo lungometraggio di finzione) sono chiari fin dall'inizio: ipnotizzare gli occhi e la mente dello spettatore con le evocative immagini del mondo da lui creato e, al contempo, scaldarne i cuori con la storia, romantica e disperata, dei due protagonisti; di queste intenzioni, però, nessuna giunge a vero compimento.
L'estetica del film è puramente derivativa: gli esterni sono presi pari pari dalle illustrazioni del mitico Moebius, i cui paesaggi onirici ed impossibili vengono meccanicamente riproposti su schermo; gli interni, invece, risentono del lavoro fatto da Syd Mead su "Tron" (1982) e sopratutto del cult di Geroge Lucas "THX 1138- L'Uomo che Fuggì dal Futuro": le linee essenziali del primo e le atmosfere asettiche del secondo vengono letteralmente saccheggiate da Solinas per la creazione della sua "Transwolrd Corp.".


Il peccato veniale dell'estetica del regista è però un altro e ben più grave: l'abuso, sfacciato ed autocompiaciuto, della computer graphic; il film è girato quasi totalmente in blue screen e pesantemente ritoccato dalla color correction; il risultato è semplicemente finto: tutte le luci, i cromatismi e gli effetti ambientali risultano falsi, appiccicati su schermo per creare un effetto spettacolare che, paradossalmente, viene a mancare del tutto; la mancanza di scenografie fisiche, assenti per la quasi totalità del film, impedisce ai personaggi di interagire con il paesaggio, che diviene mero sfondo delle loro azioni, come se fossero dei semplici cartonati appiccicati alle spalle degli attori; i panorami dei "Mondi Gemelli", per quanto il regista si sforzi, non raggiungono il grado di spettacolarità di un qualsiasi film dal vivo, come potrebbe essere ad esempio in un film di Herzog, autore che, al contrario di Solanas, sapeva rendere spettacolare la natura, in tutta la sua purezza e maestosità, senza ricorrere a trucchetti in post-produzione.


Il regista, inoltre, dimostra più volte la sua totale incapacità di concepire una visione emozionante o anche semplicemente coerente: a tratti il film sembra diventare un videogioco su pellicola, sia a causa della falsità delle immagini, sia per le strambe coreografie (come nella scena della fuga alla fine del secondo atto, che sembra uscito da un platform game); dove sia il Cinema, inteso come mezzo di espressione con una formula estetica autonomia, in tutto questo è un mistero; le "regole fisiche" del mondo, inoltre, sono contraddittorie e del tutto arbitrarie: perchè i soggetti di un mondo sottostanno esclusivamente alla sola gravità del mondo di appartenenza? perchè prendono fuoco dopo un ora se a contatto con la gravità opposta? E sopratutto: perchè questa autocombustione tarda ad arrivare nei momenti più importanti del film, come nella scena del primo incontro al locale?
La storia d'amore, fulcro della pellicola, è banale e scontata: i due innamorati sono i classici Romeo e Giulietta della situazione, il cui amore tormentato alla fine trionfa alla faccia di tutto e di tutti; la drammaticità della relazione perde di qualsiasi valenza, poichè l'autore si dimentica di darle un contesto adeguato; il mondo in cui i personaggi si muovono è sciatto: vorrebbe essere una sorta di versione alternativa della distopia di Kafka, con spruzzate di critica verso la brutalità della polizia di frontiera americana, ma non riesce mai a spaventare o anche semplicemente a sembrare cupo; questo perchè, in sede di sceneggiatura, Solanas si dimentica totalmente di dare una spiegazione alla dicotomia tra i due mondi, di approfondire alcuni temi toccati, quali lo sfruttamento del lavoro e la cattiveria del ricco; tutto viene subordinato alla love story tra Adam e Eden, che si consuma, così, inutilmente tra smancerie e risvolti comici triti e ritriti.



"Upside Down" è una pellicola tronfia e malriuscita: il perfetto esempio di come il cinema fantastico odierno si sia ridotto a mero pretesto per storielle da due soldi, ignorando completamente temi ben più seri ed importanti (la ricerca della verità, la distruzione dei tabù, la lotta per la sopravvivenza e l'affermazione della dignità umana) che regrediscono a meri orpelli.

lunedì 25 marzo 2013

Superman IV

Superman IV: The Quest for Peace

di Sidney J.Furie

con: Christpher Reeve, Gene Hackman, Magot Kidder, Mariel Hemingway, Jon Cryer, Mark Pillow.

Fantastico/Supereroistico

Usa (1987)














I magri incassi ai botteghini di "Superman III" e "Supergirl" convinsero, a metà degli anni '80, i Salkind a cedere i diritti di sfruttamento cinematografico di Superman, i quali finirono nelle mani della Cannon, casa di produzione all'epoca specializzata in pellicole di genere dal budget medio-basso; caduta in disgrazia all'inizio degli anni'90, la Cannon all'epoca godeva ancora di un buon nome, nonostante l'estrema bassezza qualitativa delle sue produzioni; il che le permise di ottenere l'intero cast dei precedenti film al completo, compresi Christopher Reeve e Gene Hackman; gli attori, però, tutt'oggi si vergognano di aver preso parte allo scempio conosciuto con il nome di "Superman IV".






Sulla carta il progetto aveva, al solito, tutti i numeri per funzionare: lo script, curato in parte dallo stesso Reeve, ormai innamoratosi del personaggio, vede Superman, preoccupato per l'imminente catastrofe nucleare, infrangere il giuramento di non intromettersi nella Storia umana e bandire dalla Terra tutte le armi nucleari, ergendosi, così, a tutore della Pace; nel frattempo, Lex Luthor, fuggito di prigione, riesce a clonare il supereroe e a crearne la perfetta nemesi: un Uomo Nucleare (Mark Pillow), il cui tocco radioattivo è in grado di distruggere il perfino il corpo dell'Uomo d'Acciaio; dal punto di vista affettivo, invece, il nostro supereroe deve vedersela con un inedito triangolo amoroso: Lacy Warfield (Mariel Hemngway), nuova direttrice del Daily Planet, si innamora perdutamente di Clark, mentre Lois (Margot Kidder) continua la sua love story con l'alter ego Superman.






Di carne a fuoco, quindi, c'è ne è per tutti i gusti: commedia, avventura, azione, al solito mescolati in un unica pellicola; il pezzo forte, però, è un altro: la caratterizzazione che Reeve dà all'eroe; Superman ora è il paladino della Terra intera, non più del solo American Way of Life, viaggia per tutto il mondo aiutando i deboli e riceve perfino il dono delle lingue, parlando in russo all'inizio della pellicola; il personaggio riscopre così le sue origini messianiche divenendo il simbolo della distensione tra Usa ed Urss, tema che in quegli anni veniva frequentata anche dal cinema commerciale (basti pensare a film come "Rocky IV" del 1985 o "Star Trek VI: Rotta verso l'Ignoto" del 1991)
Le buone intenzioni, però vengono frustrate irrimediabilmente da una realizzazione oltre i limiti del trash; lo scarso budget che la Cannon mette a disposizione al regista impone forti tagli negli effetti speciali, che così divengono palesemente falsi e, quindi, ridicoli; davvero non si riesce a credere alle scene di volo o, peggio ancora, alle parti ambientate nello spazio, che sembrano uscite da un B-Movie degli anni '60 piuttosto che da una produzione della seconda metà degli '80; semplicemente ridicola la scena della nascita dell'Uomo Nucleare, risolta con una sequenza in animazione 2d che sembra uscita pari pari da un cartone animato da due soldi; ignobile, poi, il design dello stesso personaggio: uno svedesone pompato, del tutto inespressivo, vestito con uno sgargiante costume da carnevale e che parla con la voce di Gene Hackman (!!!); un villain, in pratica, senza nè arte, né parte, che avrebbe potuto funzionare come nemesi dell'Uomo d'Acciaio solo in un cartone animato.






Il regista, Sidney J.Furie, dal canto suo è una personalità del tutto peculiare: inglese di origine, sale alla ribalta negli anni '60 con la spy-story "Ipcress" (1965), che lancia la carriera del grande Michael Caine; arrivato in America, prosegue la sua carriera in gloria con il bel western "A Sud-Ovest di Sonora" (1966), dove dirige l'inedito duo Marlon Brando/John Saxon; a partire dagli anni '80, però, si perde in una serie di produzioni da due soldi, divenendo un mestierante a buon prezzo; chiamato a dirigere una pellicola non facile, dato lo scarso budget, fa del suo meglio, riuscendo per lo meno a non annoiare.







"Supoerman IV" è una pellicola brutta ai limiti dell'inguardabile, che pone termine alla carriera filmica del mitico supereroe, il quale tornerà sul grande schermo solo nel 2006, quasi venti anni dopo.