martedì 30 luglio 2013

Dèi della Peste

Götter der Pest

di Rainer Werner Fassbinder

con: Harry Bear, Hanna Schygulla, Margarethe Von Trotta, Gunther Kaufmann, Ingrid Caven, Jan George.

Drammatico/Noir

Germania (1969)
















Geniale, sregolato, sperimentatore, appassionato, anticonformista.... non esistono abbastanza epiteti per descrivere Rainer Werner Fassbinder, regista prolifico ed eclettico responsabile, assieme a Werner Herzog ed a Wim Wenders, della rinascita del cinema tedesco nella seconda metà del '900; con 44 regie effettive tra cinema e tv ed un pugno di sceneggiature portate sul Grande Schermo postume, Fassbinder è il regista europeo più prolifico della storia (non mondiale, visto l'inarrivabile primato di 80 e rotti film di Takashi Miike), nonchè, come si diceva, uno degli autori più eclettici di sempre, in grado di usare stili narrativi ed estetici differenti per quasi ogni pellicola, pur portando avanti determinati crismi estetici e contenutistici che caratterizzeranno gran parte della sua produzione, come l'omosessualità sradicata da ogni tabù, l'amore visto come oppressione e dominio di un soggetto su di un altro e la follia d'amore; senza contare, naturalmente, il ricorso ad un gruppo di attori, ristretto ma affiatato, presente in tutti i suoi film, tra i quali troviamo Hanna Schygulla, Margarete Von Trotta, Gunther Kaufamnn e, più avanti, Gottifried John, Volker Spengler e Barbara Sukowa.


Attivo dalla fine degli anni '60 ai primissimi anni '80, l'autore tedesco esordisce nel lungometraggio con "L'Amore è più Freddo della Morte" (1969), ma è solo con il suo terzo film, il noir melò "Götter der Pest", che giunge alla ribalta in patria; "Dèi dela Peste" è il perfetto paradigma della prima parte della carriera di Fassbinder: un noir in bianco e nero che omaggia la tradizione del genere, non tanto di quello classico americano (che sarà rivisitato dall'autore con il successivo "Il Soldato Americano" del 1970), bensì nella sua declinazione francese, il polar di stampo melvilliano; nel portare in scena le disavventure del recidivo Franz Walsch (Harry Bear), uscito di galera e alla disperata ricerca di una vita che sia una, Fassbinder, paradossalmente, non si rifà tanto a Melville, quanto a Jean-Luc Godard ad al suo "Bandè à Part" (1964); l'impianto classico del noir viene così scardinato fin dalle fondamenta, ma, a differenza di quanto fatto dall'autore francese, Fassbinder imprime alla narrazione un'impronta smaccatamente melodrammatica; piuttosto che costruire un canonico racconto hard-boiled, l'autore preferisce sviscerare la psicologia del protagonista e il suo rapporto con gli altri personaggi; in particolare, enfatizza il rapporto con il ruolo che ognuno di essi ricopre all'interno della storia; il protagonista, in ossequio alla classica fatalità propria del noir, diviene così soggetto passivo, mai attivo nel racconto: apatico e distaccato, Franz è cosciente della futilità di ogni sua azione e perciò si abbandona agli eventi; non per nulla, l'ultima battuta che pronuncia è "a ciascuno il proprio mestiere".


Sono quindi i comprimari a portare avanti l'azione: Johanna Reiher (Hanna Schygulla, una delle muse del regista), figura angelica e salvifica, Margarethe (Margarethe Von Trotta), donna innamorata, l'enorme "Gorilla" (Gunther Kaufmann), che incarna il lato violento della storia, e sopratutto il commissario di polizia (Jan George), il cui antagonismo verso Franz viene ben simboleggiato dalla sua entrata in scena: un primo piano in carrellata laterale da destra a sinistra, perfettamente giustapposta all'entrata in scena di Franz, ove il carrello si muove in direzione opposta.


Del gruppo di protagonisti, Fassbider mostra sempre il lato più umano: durante una scampagnata, Franz e "Gorilla" si divertono a rincorrersi e far finta di picchiare un vecchio amico, come un gruppo di ragazzini troppo cresciuti; Johanna, innamorata di Franz, si dispera per la sorte dell'amato e l'informatrce Magdalena tradisce tutto e tutti non per cattiveria, ma solo per sopravvivere; nella narrazione, inoltre, il grande autore comincia a declinare quello che sarà uno dei topoi centrali della sua produzione: il menagè a trois come sublimazione di un amore omosessuale latente; di fatto, il terzetto di protagonisti si comporta come una coppia: sia Franz che "Gorilla" amano la bella Margarethe, eppure la mancanza di rancore verso Gorilla e una frase esplicita fanno presupporre un amore latente di Franz verso i suoi confronti; tema che Fassbinder sviscererà nel suo massimo capolavoro "Berlin Alexanderplatz" (1980); ed è ironico come l'autoe già qui omaggi il romanzo omonimo di Doblin ribattezzando il protagonista "Franz Bieberkoff" in una delle prime scene.


Dove la pellicola mostra un limite assoluto è, purtroppo, nel coinvolgimento; Fassbinder trattiene ogni forma di emozione, immerge la storia in un'atmosfera glaciale e la conduce con distacco, finendo fatalmente per farla risultare fredda; "Goetter der Pest" si configura, quindi, come un'operazione riuscita, ma priva di empatia, un polar dove la superficie glaciale non ricopre una tempesta di sentimenti, ma solo la volontà di un grande autore di cominciare a declinare i temi a lui cari; in quest'ottica, il film diviene importante per capire la poetica di Fassbinder, ma poco interessante da seguire; poco male: in pochissimi anni, Fassbinder farà esplodere la sua passione per il melodramma alla Douglas Sirk in tutto il suo fragore, generando pellicole a dir poco indimenticabili.

lunedì 29 luglio 2013

Batman Begins

di Christopher Nolan

con: Christian Bale, Michael Caine, Liam Neeson, Katie Holmes, Cillian Murphy, Morgan Freeman, Rutger Hauer, Ken Watanabe.

Supereroistico/Azione

Usa (2005)
















---SPOILERS INSIDE---

Alla metà esatta degli '00, l'invasione dei supereroi al cinema diviene esasperante; ogni singolo personaggio Marvel ha una sua (orrenda) pellicola campione di incassi e sequel, prequel, omaggi e parodie spuntano ad ogni angolo; nell'orgia di ciarpame in calzamaglia, tuttavia, spunta una vistosa assenza: Batman, ovvero il personaggio-simbolo dei comics al cinema nei primi anni '90; in realtà un quinto film sull'Uomo Pipistrello entrò ufficialmente in lavorazione già alla fine del millennio, ma l'orrore suscitato nel pubblico da "Batman & Robin" (1997) portò ben presto la Warner a sospendere il progetto; fu solo dopo i successi di Spider-Man e soci che la major, di concerto con la fida Dc Comics, decise di riavviare il progetto, nella speranza di cavalcare l'onda del revival delle maschere al cinema; e per farlo non bada a spese: un budget di 150 milioni di dollari e una campagna promozionale imponente, portata avanti ad hoc per far scordare il pozzo del ridicolo nel quale il personaggio era sprofondato; l'aspetto più curioso dell'operazione è però di carattere strettamente artistico: dopo vari rinvii e licenziamenti (tra i quali spunta quello del duo Kevin Smith-Darren Aaronofsky), il progetto viene affidato a David S.Goyer, già regista e sceneggiatore dell'insulso "Blade Trinity (2004) ingaggiato per la sua ben più florea carriera di scrittore di comics, e sopratutto a Christopher Nolan, enfànt prodigè arrivato ad Hollywood dall'Inghilterra (guarda caso come i migliori autori di comics delle due decadi e mezzo precedenti), con all'attivo il cult del 2000 "Memento", ma alla sua prima esperienza con un budget multimilionario; scelta che frutterà bene, sotto tutti i punti di vista.




E' infatti del grande regista inglese l'idea di ripartire da zero, di ricreare da capo il personaggio di Batman ed il suo mondo, narrandone le origini, cosa che al cinema non si era mai vista; "Batman Begins" diviene così un "reboot", ossia una reinvenzione che non tiene conto dei precedenti adattamenti e che si pone come nuovo inizio della saga cinematografica del Cavaliere Oscuro. Lungi dall'essere un semplice film di origini, la pellicola di Nolan si concentra quasi esclusivamente sul personaggio di Bruce Wayne; partendo dalla graphic novel "Batman: Anno Uno" del mitico Frank Miller, Goyer e Nolan riscrivono le origini del vigilante in modo completo ed articolato; Bruce Wayne diviene un orfano sconvolto per la tragica perdita dei genitori ed ossessionato dall'idea di giustizia, che fin da subito discerne tale concetto da quello della semplice vendetta; il racconto sulla formazione di Wayne, sul suo apprendistato e dei primi passi come Batman, lungi dall'essere un semplice resoconto sulla nascita di un eroe, è un vero e proprio spaccato della psicologia del personaggio; il suo rapporto con il padre diviene la pietra d'angolo su cui poggia la caratterizzazione, la quale, però, non si appiattisce mai sul semplice tema dal doppio (a differenza di quanto avveniva nell'opera di Miller), prediligendo una complessità che porta il protagonista a confrontarsi con il ricordo del genitore, con i suoi insegnamenti e con le proprie inclinazioni.




Altro punto fermo nella caratterizzazione è il tema della paura, che si sostanzia sia nel villain (lo Spaventapasseri), e, sopratutto, nella scelta dell'eroe di usare la propria paura (i pipistrelli, escamotage con cui viene spiegata la scelta del simbolo) per circuire i suoi avversari; Batman diviene così, per la prima volta su schermo, non un semplice super-eroe, ma un personaggio dotato di pregi e difetti, sotto la cui maschera vive un uomo debole ed insicuro che lotta per affermare la propria identità; tema perfettamente declinato nello scontro con il mentore Ras'Al Ghul: personaggio totalmente reinventato su schermo, Ras è l'archetipo del giustiziere super-umano, il quale non disdegna il massacro pur di purgare la società dal male; Batman diviene così il simbolo per la lotta alla giustizia all'interno del sistema, un personaggio che, sebbene conscio del suo ruolo di vigilante illegale, non non si reputa al di sopra dell'ordine costituito e che anzi si batte per riformarlo; in sostanza, il Batman di Nolan è il primo (e finora unico) giustiziere non giustizialista del cinema americano.


E lo stile con cui Nolan mette in scena le avventure dell'eroe è a dir poco azzeccato; spazzate via le derive pop e naif di Schumacher, Nolan immerge Batman in un contesto metropolitano di stampo realistico, che deve molto all'estetica di William Friedkin e sopratutto a Michael Mann; Batman è un uomo dalle abilità limitate, che può contare solo sui gadget di sua produzione: ecco dunque introdotto l'inedito (su schermo) personaggio di Lucius Fox, responsabile dell'armamentario dell'eroe, tra cui spunta la celebre Batmobile, qui rivista in chiave "guerriglia urbana" come un tank blindato, simile al carro da guerra ideato, sempre da Frank Miller, nell'imprescindibile "Il Ritorno del Cavaliere Oscuro"; il lato umano del personaggio viene invece enfatizzato dal rapporto con il maggiordomo Alfred, incarnato da un sempre ottimo Michale Caine, il quale ricorda a Batman/Bruce Wayne i suoi limiti e diviene per la prima volta figura attiva nelle azioni del personaggio; il concetto di legalità, infine, viene incarnato dal Commissario Gordon (Gary Oldman, finalmente tornato alla ribalta nel cinema hollywoodiano), simbolo del sistema che resiste alla corruzione dilagante.




Il Batman di Nolan è in tutto è per tutto un personaggio da film noir; perfettamente interpretato da Christian Bale (il cui viso angelico cela uno sguardo talvolta inquietante e il cui corpo statuario rende finalmente credibili le acrobazie del personaggio), Batman non è qui un eroe che vigila la città sgominando bande di teppistucoli, ma un giustiziere che combatte il dilagare della corruzione, incarnata dal boss mafioso Falcone, le cui attività illecite distruggono la città come un cancro ben più pericoloso ed inquietante dei piani-burletta dei canonici super cattivi di turno; Batman diviene così, come più volte rimarcato nel corso del film, un simbolo di speranza, non tanto nella giustizia astratta, quanto nell'affermazione del principio legalitario che, in una qualsiasi società civile, dovrebbe essere infuso nella cittadinanza; la paura, come si diceva, è lo strumento con cui tale principio viene propugnato: non la paura di un semplice giustiziere pronto a picchiare chi non si pieghi ai suoi voleri, bensì quella di un principio inattaccabile, di un'idea di giustizia personale ed incorruttibile perché messa al servizio della moltitudine; non per nulla, nel bel finale Batman redarguisce Gordon affermando che non dovrà mai essere ringraziato: è solo un crociato al servizio del sistema.




Nella sceneggiatura di Goyer, però, non tutto funziona a dovere: l'uso dei flashback non sempre paga, sopratutto nella prima parte, dove la ricostruzione dei primi anni di vita di Bruce Wayne appare macchinosa; il personaggio di Rachel Dowes, inoltre, è superfluo, utile solo a dare un interesse romantico al protagonista, a tratti pretestuoso e poco credibile su schermo, vista anche la pessima performance di una Katie Holmes a dir poco fuori parte; il personaggio dello Spaventapasseri, inoltre, non buca lo schermo, nonostante la bravura di Cillian Murphy, e serve più che altro a sviare l'attenzione dalla trama portante e dal ritorno del vero antagonista; non paga, infine, l'idea di inserire in un contesto del tutto realista un climax fumettistico, che appare a tratti ridicolo. Nolan, dal canto suo, non sembra a suo agio nel dirigere le scene d'azione: scialbe e monotone, si compongono di inquadrature strette ed un montaggio fin troppo serrato, nella peggiore tradizione del cinema americano post-Michael Bay, tanto da rendere a tratti insopportabile la visione.



Difetti che, per fortuna, non inificiano del tutto la visione: in un panorama di kolossal beceri e di comic movie da ragazzini ritardati, "Batman Begins" rappresentò, all'epoca, un caso a parte, la dimostrazione che un personaggio vecchio di quasi settant'anni e distrutto da adattamenti stupidi poteva ancora dare molto al cinema... e non solo; sarà forse un caso, dunque, il fatto che gli incassi, all'epoca, furono tutto fuorché stellari?

V per Vendetta

di James McTeigue

con: Hugo Weaving, Natalie Portman, Stephen Rea, John Hurt, Stephen Fry, Rupert Graves.

Usa, Inghilterra, Germania (2005)




















All'inizio degli '80 si assiste ad una vera e propria rinascita del comic americano indipendente, per merito di un gruppo di autori inglesi che, formatisi grazie ai supereroi della Silver Age, reinventano il concetto stesso di super-uomo e, sopratutto, il media fumettistico; scrittori del calibro di Neil Gaiman, Jamie Delano e, sopratutto, Alan Moore rivoltano come un calzino la narrativa pop sia dal punto di vista formale che contenutistico; serie quali "Hellblazer" e "The Sandman" portano la narritiva per baloon a conoscere temi sociali o metafisici declinati, per la prima volta, con serietà e cognizione di causa, come mai era avvenuto in Occidente; il concetto stesso di narrazione a fumetti viene ripensato tramite lo strumento della graphic novel, la quale predilige storie dallo sviluppo orizzontale e completo alla semplice narrazione episodica ed autoconclusiva del fumetto americano; proprio la graphic novel porta ad inquadrare il fumetto all'interno della narrativa vera e propria, grazie ai successi di Alan Moore, in particolare dei suoi capolavori "Watchmen" e, appunto, "V for Vendetta".


Pubblicato tra il 1982 e il 1985, in una cupa edizione in bianco e nero, "V for Vendetta" è il primo vero successo editoriale di Moore, già conosciuto presso gli aficionados Dc per il suo ciclo su "Capitan Marvel" e sopratutto per aver reinventato "Swamp Thing"; autore serio ed erudita, Moore immette nella narrativa fumettistica una serie di tematiche fino ad allora solo sfiorate, quali la conflittualità politica, il concetto di rivoluzione e la sottile differenza tra esso e il mero terrorismo, nonché la distopia di stampo orwelliano, per la prima purgata da ogni improbabile deriva sci-fi ed aggiornata ai tempi del Tatcherismo; al centro dell'opera, nella miglior tradizione occidentale, vi è comunque un personaggio unico ed iconico: V, terrorista rivoluzionario colto ed affascinante, la cui identità è celata dall'iconica maschera di Guy Fawks, preso a modello da Moore e dal disegnatore David Lloyd come perfetto emblema della lotta contro un potere corrotto ed autoritario.


La grande differenza tra V e qualsiasi altro supereroe dell'epoca sta, manco a dirlo, nella controversa e spiazzante caratterizzazione; guidato da una sete di vendetta a tratti spasmodica, il giustiziere mascherato non si fa scrupoli ad uccidere e manipolare chiunque lo circondi pur di abbattere il sistema totaliatario che affligge l'Inghilterra futura, incarnato dalla figura del Cancelliere, novello Grande Fratello, e dal suo enturage di ministri/generali; V è in tutto è per tutto un anti-eroe, la cui crociata libertaria assume spesso le fattezze del massacro terroristico vero e proprio; l'intento di Moore è chiaro: dimostrare come la differenza tra rivoluzione libertaria e mero massacro ideologico sia talmente sottile da scomparire del tutto in determinate situazioni; il giudizio sull'operato del personaggio viene però lasciato in ultima analisi al lettore, il quale assiste alle vicende perlopiù dal punto di vista della giovane Evey, dapprima vittima inconsapevole, poi agente terrorista pronta a tutto pur di riscattarsi dal male subito in passato, metafora della presa di coscienza che trasforma il cittadino da semplice ingranaggio sacrificabile ad individuo pensante e, quindi, incontrollabile da parte del sistema.


Dura ed affascinante, la bellissima opera di Moore viene trasposta, esattamente vent'anni dopo la sua conclusione, in una pellicola hollywoodiana a dir poco spiazzante; spiazzante per via dei nomi coinvolti: i cialtroneschi fratelli Wachowski alla produzione e alla sceneggiatura, l'esordiente McTeigue in cabina di regia; quello che sulla carta poteva essere un adattamento piatto o, peggio, meccanico della graphic novel di partenza diviene, miracolosamente, una sua rilettura, semplificata ed appiattita, ma estremamente coinvolgente; il personaggio di V resta, bene o male, quello del fumetto: un giustiziere ossessionato dalla rivincita contro il sistema, acculturato ed affascinante; tuttavia, rispetto all soggeto originale, le sue azioni sono poste sotto una luce benigna: gli autori vogliono giudicarlo positivamente, giustificare le sue azioni agli occhi dello spettatore enfatizzando il contesto distopico in cui avvengono; i limiti, però, sono palesi: da un lato la distopia immaginata da Moore non rende a dovere sul Grande Schermo, dove anni di adattamenti di Orwell, ufficiali ed apocrifi, hanno plasmato futuri ben più cupi e spaventosi di quello mostrato dal trio Wachowskis/McTeigue (basti pensare a "2022- I Sopravvissuti" del 1973, citato a più riprese in "Cloud Atlas", o al mitico "Brazil" del 1985, in cui Terry Gilliam dà la rilettura definitiva del capolavoro di Orwell "1984"); tuttavia, tematiche quali il controllo della razza, la manipolazione dell'opinione pubblica mediante la disinformazione pilotata ad arte e l'ossessione per il controllo elettronico della massa sono sempre interessanti ed attuali; la violenza intrinseca al protagonista, inoltre, non viene mai celata, né edulcorata: nonostante la forte enfasi posta sulla storia d'amore con Evey (qui interpretata dalla bellissima e bravissima Natalie Portmna), V resta un vigilante dai modi violenti, un terrorista scaltro e manipolatore, nonché un rivoluzionario dai metodi ben poco concilianti; e la performance di Hugo Weaving permette, in defitiva, al personaggio di bucare lo schermo: perennemente celato sotto l'iconica maschera, Weaving recita usando solo il corpo e la voce (tra l'altro magnificamente doppiata nella versione italiana da un Gabriele Lavia redivivo e in stato di grazia), spargendo carisma e fisicità in ogni singola inquadratura. Spiazzante e anche, in proposito, la scelta del resto del cast; a partire da Natalie Portman, in apparenza improbabibe nel ruolo della ribelle, riesce invece a donare al personaggio di Evey una forza ed una determinazione inedita; risulta ancora più stupefacente, però, trovare nel ruolo del Cancelliere John Hurt, che nell'ultimo adattamento di "1984" (il misconosciuto e poco riuscito "Orwell 1984") interpretava il protagonista, il ribelle Winston Smith; trovarlo nei panni del Grande Fratello porta ad una simpatica riflessione sul finale del capolavoro di Orwell: il sistema ha schiacciato Smith e lo ha inglobato fino a renderlo l'emblema stesso dell'oppressione.


E se la regia di McTeigue riesce nel non facile intento di non far risultare noiosa una storia ambienta quasi esclusivamente in interni e basata unicamente sui dialoghi tra V ed Evey e tra il detective Finch ed i suo assistente, davvero miracoloso è il lavoro dei Wachowski sullo script; la tematica della lotta per l'affermazione delle idee è trattata in modo spicciolo, ma efficace: V diviene, in questa visione, l'archetipo del leader rivoluzionario, agguerrito ma conscio dei propri limiti in quanto espressione del sistema che vuole abbattere; d'altro canto è Evey a rappresentare la coscienza dormiente del cittadino, la quale, assopita nella quotidianità ordinaria del lavoro, viene risvegliata solo quando il sistema tenta di soffocarla, fino a realizzare l'effettiva malignità dello stesso una volta (ri)scoperto il passato che ne ha permesso la creazione; se V è l'ideale rivoluzionario, senza volto perchè comune ad ogni individuo, Evey è l'individuo stesso, o meglio, la coscienza individuale risvegliata dall'idea; e davvero non si può restare che estasiati di fronte al finale, semplicistico quanto si vuole, ma estremamente efficace.


"V per Vendetta" è un adattamento semplificato, ma riuscito, una pellicola coinvolgente e a tratti complessa,; talmente efficace da essere divenuto, malgrado l'ignavia dei suoi realizzatori, l'emblema stesso del concetto di rivolta nell'Europa del XXI secolo... quando si dice che un'opera sopravvive ai suoi realizzatori.

domenica 21 luglio 2013

A Dangerous Method

di David Cronenberg.

con: Michael Fassbender, Keira Knightly, Viggo Mortensen, Vincent Cassel, Sarah Gadon.

Biografico

Canada, Inghilterra, Germania, Svizzera (2011)
















Stretto tra due capolavori del calibro di  "La Promessa dell'Assassino" (2007) e "Cosmopolis" (2012), "A Dangerous Method" rappresenta il punto più basso della (altrimenti strepitosa) filmografia di David Cronenberg, in cui l'autore abbandona i suoi temi tradizionali per dedicarsi ad un inutile e tedioso ritratto dell'illustre psichiatra e filosofo Carl Gustav Jung (1875-1961), padre della moderna psichiatria.




Basato su un dramma teatrale di Christopher Hampton e su un libro di John Kerr (qui in veste di sceneggiatori), la pellicola segue le vicende del giovane Carl Gustav Jung (Michael Fassebender), del suo incontro con la conturbante Sabina Spielrein (Keira Knightly), dapprima sua paziente, poi collega ed amante, della sua amicizia con lo sregolato filosofo Otto Gross (Vincent Cassel) e del confronto con l'ingombrante figura di Sigmund Freud (Viggo Mortensen).




L'intera narrazione altro non è che una gigantesca metafora del sistema psichico freudiano classico: Jung è l'Io cosciente, un essere umano incastrato tra le pulsioni sessuali verso la Spielrein provenienti dal suo Es, rappresentato dal lascivo e sfatto Otto Gross, e i freni razionali ed opprimenti dalla figura paterna e padronale di Freud, vero e proprio Super-Io pronto a sopprimere qualsiasi impulso di affermazione dell'uomo; il padre della psichiatria viene inoltre dipinto per quello che, di fatto, era: un oscurantista che predicava la ricerca del vero mediante la scienza psichiatrica, per poi imporre prepotentemente il suo punto di vista, parziale e viziato dalle sue personali inclinazioni, su tutto lo scibile umano; metafora che, sulla carta, pareva vincente, ma che su pellicola si rivela quantomeno debole: la didascalicità sottesa è francamente ridicola e fa apparire il tutto non come il frutto di un autore con oltre 30 anni di onorata carriera alle spalle, quanto come quello di un liceale che decide di creare un piccolo saggio teatrale per dimostrare di aver compreso le figure storiche appena conosciute.


Non aiutano alla riuscita le interpretazioni dei due protagonisti; se Fassebder è talmente contenuto e pacato da divenire legnoso nelle scene più importanti, trasformando Jung in una sorta di manichino timorato di Dio, la Knightley è del tutto fuori controllo fin dalla primissima sequenza: isterica e sopra le righe come il personaggio richiede, la sua performance diviene subito ridondante, poiché basata unicamente sulla sua espressività elevata all'ennesima potenza, risultando a tratti genuinamente ridicola ed insopportabile. Gli unici a salvarsi sono i reduci di "Eastern Promises": Cassel trattiene ogni istrionismo, tratteggiando lo sfatto Gross come un vagabondo affascinante, mentre Mortensen è semplicemente perfetto nei panni del tirannico Freud.



Il grande regista canadese fallisce anche nella messa in scena; il suo proverbiale stile freddo e distaccato qui si fa talmente rigoroso da apparire ingessato e bolso; anche sul piano della costruzione della scena, l'intera pellicola si configura come una sorta di teatro filmato, tradendo per l'appunto le origini teatrali del testo di base, in cui sono solo uno sparuto gruppo di primi piani a trasmettere la sensazione di essere di fronte ad un'opera cinematografica; persino quando il suo occhio si sofferma sulle forme acerbe della Knightley, Cronenberg non riesce né a turbare, né a stupire, tanto da arrivare a ricordare, per l'aridità dello stile e per la pretenziosità dei contenuti, il peggior Woody Allen (ed è tutto dire); ed è un paradosso puro il fatto che, appena 6 mesi dopo, l'autore torni a dimostrare tutto il suo talento e la sua carica distruttiva in quel "Cosmopolis" ambientato quasi totalmente all'interno di un'automobile.




Fiacco, noioso e genuinamente inutile, "A Dangerous Method" è una film buono solo per far comprendere ai profani la grandezza della figura di Jung, del suo metodo psicanalitico e filosofico e delle sperimentazioni della Spielrein, tutt'oggi alla base della medicina psichiatrica.

The Punisher

di Jonathan Hensleigh

con: Tom Jane, John Travolta, Laura Harring, Ben Foster, Roy Scheider, Samantha Mathis, Kevin Nash.

Azione/supereroistico

Usa (2004)


















A partire dal 1998 si assiste all'invasione dei film supereroistici nelle sale, in particolare delle trasposizioni di personaggi dell'universo Marvel; in appena 6 anni vengono prodotte 2 pellicole su Spider-Man, 2 sugli X-Men, 2 su Blade, senza contare i vari Hulk, Daredevil, Elektra e simili; in una simile rincorsa al personaggio da sfruttare, non poteva mancare il revival di uno dei simboli del media fumettistico mainstream: il Punisher, alias Frank Castle, che già aveva calcato gli schermi nell'omonima pellicola del 1989; per la gioia di tutti i suoi fans (e solo la loro), il Punisher torna ad imbracciare le armi in un nuovo film nel 2004, sfoggionado persino la sua iconica t-shirt con teschio bianco, con esiti tutt'altro che memorabili.



La storia di base è sempre quella: Frank Castle (Tom Jane) è un agente dell'FBI e reduce della guerra in Medio Oriente; durante un'operazione sotto copertura, Castle uccide il figlio del boss Howard Saint (John Travolta), il quale di tutta risposta gli massacra l'intera famiglia... proprio tutta: durante una riunione che comprende zii e nipoti, si assiste ad una carneficina in pieno sole dal quale il nostro si salva a stento; sopravvissuto alla morte grazie alle cure di un misterioso stregone vodoo (!), Castle mette in atto la sua proverbiale vendetta.




Cerchiamo subito di mettere in chiaro le cose: questo "Punisher" non è né un film d'azione, tantomeno un apologo sulla vendetta; è, più semplicemente, un cinecomic travestito da trasposizione, più vicino per costruzione della storia ad un fumetto che ad un film: è il solito gigantesco primo atto, che porta in scena unicamente la genesi dell'eroe e poco altro.
Il punto di riferimento cartaceo è la serie a fumetti con protagonista il vigilante italo-americano apparsa sulle pagine del periodico "Marvel Knights", ad opera del geniale Garth Ennis (che in seguito curerà anche la serie "Punisher MAX", la quale, per atmosfera e caratterizzazione del personaggio, sembra un vero e proprio adattamento su carta del film di Glodblatt) e caratterizzata da un umorismo folle e grottesco; ecco dunque che anche su schermo una trama in partenza seria ed adulta viene sviluppata come una sorta di commedia splatter, in cui i personaggi sono tutti rigorosamente sopra le righe e la violenza è talmente parossistica da spingere al sorriso; il Punisher qui presentato non è un soldato stanco e schiavo del proprio istinto omicida, ma un mattacchione che preferisce imbastire una ridicola storia di tradimento per disfarsi dei suoi nemici e che combatte, a turni come in uno strambo videogame non interattivo, una serie di macchiette folli e stupide (tra cui spicca il mitico personaggio de "Il Russo", protagonista di una breve sequenza di lotta, l'unica davvero memorabile di tutto il film).




L'atmosfera cupa e tormentata del film dell'89 cede qui il passo ai paesaggi assolati di Tampa, scelta quantomeno risibile visti i contenuti; i personaggi, inoltre, sono piatti e bidimensionali, a partire dal protagonista e dal villain; Frank Castle è semplicemente un vigilante in cerca di vendetta, che nell'ultimo atto si "evolve" (notare l'uso delle virgolette) nel canonico giustiziere della notte american style, che si crede migliore di tutto e tutti a causa della tragedia che lo ha colpito, facendo raggiungere al film vette di cattivo gusto davvero inusitate; tant'è che per cercare di dargli un minimo di spessore, nella parte centrale si assiste persino ad una crisi alcolemica che ne dovrebbe giustificarne le azioni, ma che si rivela solo come un modo pacchiano per cercare di dare una sorta di psicologia a buon prezzo; non aiuta, infine, la scelta di Tom Jane come interprete: dotato del fisico necessario a rendere credibile il personaggio, Jane è però sprovvisto della proverbiale "faccia da duro" necessaria per tale tipo di ruoli, tant'è che il suo Punisher più che uno psicopatico vendicativo sembra un cagnolino bastonato che si difende; d'altro canto, il villain Howard Saint, interpretato da un evanescente John Travolta, non ha carisma né incute timore, tant'è che lo stesso epiteto di cattivo pare calzargli stretto; l'unico personaggio azzeccato resta quello della sua compagna, Livia, che buca lo schermo grazie alla presenza della bellissima Laura Harring.




Dulcis in fundo: la regia di Hensleigh è piatta e monocorde, senza guizzi nè invenzioni; se si escludono, naturalmente, le citazioni di "Interceptor- Mad Max" (1979) dal quale vengono ripresi pari pari l'inquadratura dell'uccisione della famiglia e il climax, senza un minimo di ritegno.
Nella migliore tradizione del comic-movie del periodo, "The Punisher" non rende giustizia alla controparte cartacea, tantomeno ai modelli di riferimento, ossia gli action-movie degli anni'70, che qui rivivono solo sotto forma di scialba citazione.

Hellboy



di Guillermo del Toro


con: Ron Perlman, Selma Blair, Rupert Evans, Doug Jones, John Hurt, Karel Roden, Bridget Hodson, Corey Johnoson.


Supereroistico/Fantastico/Azione


Usa (2004)












Con l'exploit supereroistico dei primi anni 2000, tornano in auge anche le trasposizioni dei supereroi del fumetto underground; particolare fortuna ha avuto in particolare quella di Hellboy, diretta nientemeno che da Guillermo del Toro, all'epoca reduce da un altro adattamento fummettistico: il bel "Blade II" (2002).



Pubblicato per la prima volta dalla Dark Horse Comics (casa editrice "madre" del fumetto di nicchia statunitense), Hellboy vede la luce nel 1993, ad opera di Mike Mignola, già autore di punta della DC Comics, per la quale ha disegnato alcune delle più interessanti storie dell'universo di Batman dell'epoca, come "Gotham by Gaslight" e il nerdissimo "Batman vs. Predator"; protagonista di storie dall'impianto lovecraftiano e caratterizzate da uno stile grafico bidimensionale tipo collage di indubbio fascino, Hellboy altro non è che il classico anti-eroe made in Usa: un demone cresciuto da umani che collabora con un'agenzia governativa per la difesa contro il paranormale, il Bureau of Paranormal Research and Defense;le storie delle quali è protagonista sono caratterizzate da una fantasia sfrenata, imperniata su una mitologia orrorifica classica mista ad influenze del Vecchio Testamento e dei miti arcaici e lovecraftiani, da un umorismo cinico e a tratti sfrontato e da un'inconsueta brevità; ogni volume presenta infatti storie autoconclusive, gli story-arc più lunghi non superano i 2-3 volumi massimo, sganciando così la serie dalla serializzazione episodica mainstream.


Nel passaggio su pellicola, sfortunatamente, molti degli elementi caratteristici del comic vanno persi; per comprendere meglio questo "processo di semplificazione", bisogna tenere conto del (atroce) contesto nel quale il film vede la luce. L'anno è il 2004: pubblico e critica sono estasiati dai polpettoni Marvel sui supereroi con superproblemi; la Starlite flms acquisisce i diritti per l'adattamento del personaggio di Mignola con un'unica, perfettamente apparente, intenzione: cavalcare il successo di "Spider-Man" e affini per ottenere un ottimo riscontro di critica e di pubblico; ecco dunque che la narrazione viene avviata, subito dopo l'incipit, dal punto della recluta Myers (sorta di nerd inetto che dovrebbe catturare le simpatie, al solito, dello spettatore medio americano) piuttosto che da quello del rosso demone in impermeabile; la trama portante, inoltre, viene inutilmente spezzettata per dar spazio ad un'improbabilissima storia d'amore "a 3" tra il demone, l'agente e la bella pirocinetica Liz, il cui esito è scontato fin dalle primissime battute; quel che è peggio, tuttavia, è la scialba caratterizzazione dell'eroe e degli antagonisti; nell'infelice tentativo di dare a Rasputin e compagna una qualche rilevanza drammatica, gli autori decidono di imbastire tra i due una love-story smielata, come se questi due stregoni immortali e dannati fossero in realtà due tee-ager innamorati (e lo scopo di tale velleità è talmente scontato che non occorre nemmeno sottolinearlo); sorte peggiore spetta al protagonista, il quale diviene una specie di "Peter Parker degli Inferi": insicuro e cialtrone, Hellboy viene dipinto come un adolescente in piena crisi ormonale e il suo memorabile umorismo nero viene relegato ad una serie di battutine sconce lanciate durante i duelli; il fondo viene raggiunto, manco a dirlo, nel finale, dove l'eroe acquista coscienza della sua natura grazie alle paroline dell'inutile gregario, in un tripudio di moralismo da seconda elementare.


Messa da parte la storia (il solito racconto di origine e formazione con tutti i luoghi comuni del caso), è la regia di del Toro a porre una pietra tombale sulla pellicola: meccanica e poco ispirata, si fregia di scene d'azione ben congegnate ma del tutto prive di pathos e tensione; dulcis in prufundus: il design di creature e scenografie è perlopiù scialbo e incolore, lasciando basiti solo per la trovata nel nazista-zombie-ninja, alla faccia della visionarietà sfoggiata nel precedente "Il Labirinto del Fauno" (2002); se proprio vi è un lato positivo dato alla pellicola dall'autore messicano, esso risiede nella scelta del protagonista: Ron Perlman, stimato caratterista qui promosso per la prima volta a protagonista, che dona fisicità e carisma ad un personaggio altrimenti piatto e stereotipato.

venerdì 19 luglio 2013

Spider-Man 2

di Sam Raimi

con: Tobey Maguire, Kirsten Dunst, Alfred Molina, James Franco, Rosmary Harris, J.K. Simmons.

Supereroistico/Commedia

Usa (2004)
















Con un incasso di oltre 400 milioni di dollari, un sequel per il primo "Spider-Man" (2002) era inevitabile; ecco dunque che due anni dopo l'intero cast artistico e tecnico torna alla carica con questo "Spider-Man 2", pellicola che ripropone la medesima formula del suo predecessore elevandola al quadrato; ed il risultato, manco a dirlo, è lungi dal poter essere definito come "riuscito".




Concentrandosi ancora più marcatamente sul personaggio di Peter Parker, Raimi confeziona un film supereroistico dove, di fatto, di supereroistico c'è davvero poco: il 90% della durata è dedicata alle traversie del giovane Parker, al suo complesso rapporto con la bella Mary Jane e alle brutte sorprese che la vita gli riserva; decisione a dir poco inutile: a cosa serve spendere 200 milioni di dollari di budget in effetti speciali, se poi tutta l'enfasi finisce sulle disavventure di un comune fotoreporter? Ciò che è peggio è che la caratterizzazione del personaggio è totalmente sbagliata; forse per tentare un'immedesimazione più profonda tra il protagonista e lo spettatore medio, Parker viene descritto come un imbecille sfigato, una sorta di Fantozzi ventenne a cui davvero non ne va bene una; il ridicolo lo si tocca in una scena in particolare, ossia quando l'eroe decide di rinunciare ai suoi poteri e vivere una vita comune... muovendosi al ralenty sulle note di "Raindrops keep fallin' on my head"; scena che, a detto dello stesso regista, dovrebbe commuovere lo spettatore, ma che sembra uscita dritta dritta da una parodia dei trio Zucker-Abrhams-Zucker. 




Dal canto suo l'ex enfante prodige dirige tutto il film con il pilota automatico: dialoghi pretestuosi, fotografia dai colori talmente caldi che sembra uscita da Bollywood e azione a singhiozzo sono le caratteristiche principali di un film che non avvince né convince; lo stile di Raimi si ravvisa solo in due sequenze: il bello scontro tra il supereroe e il cattivo nella metropolitana, adrenalinico e drammatico come pochi e con un bel finale, e la nascita di Doc Ock, nel quale l'autore fa rivivere le sperimentazioni in soggettiva della trilogia di "Evil Dead", facendoci capire che sotto sotto qualcosa di buono sa ancora imbastirla, tant'è che si concede persino un cammeo assieme al collega e amico John Landis.




Non aiuta alla riuscita del film nemmeno la trama, divisa su due tronconi narrativi che si amalgamano malissimo: da un lato il confronto con il villian Dr. Octopus (interpretato da un Alfred Molina a dir poco sprecato), dall'altra, come accennato, le disavventure del nerd dietro la maschera rossa; e se la caratterizzazione del personaggio è bislacca, a dir poco improbabili sono le sue schermaglie romantiche con Mary Jane: per aggiungere un pò di pepe, i due intavolano una pretestuosa relazione con terzi, lei con il figlio di J.Jonah Jameson, che nei fumetti era ben altro personaggio, lui con l'anoressica figlia del padrone di casa, il Sig. Diktovic (!!!), finendo per tediare inutilmente i nervi dello spettatore, il quale ovviamente già conosce come la storia andrà a finire.




Quel che resta della narrazione si concentra sullo scontro tra Spidey e Doc Ock, oltre che su una sottotrama riguardante la vendetta di Harry Osborn; quest'ultima, in particolare, è poco più di un riempitivo e serve solo a concedere un piccolo climax a metà film e ad aggiungere un finale parzialmente aperto; lo scontro con il villain è invece a dir poco spiazzante; se il duello tra i due è, al solito, meccanico e scontato (con tanto di fanciulla in pericolo da salvare alla fine del terzo atto, come da tradizione), è la caratterizzazione del personaggio a lasciare basiti; nella peggiore tradizione del blockbuster buonista, Octopus non è più lo scienziato megalomane del fumetto, ma la vittima di un suo esperimento finito male, schiavo dei suoi stessi tentacoli e del rimorso per la perdita della sua bella moglie; la sua non è cattiveria, ma mancanza di libero arbitrio: paradossalmente, il vero eroe è lui poiché agisce sotto una forma di condizionamento che, nell'economia della sceneggiatura lo rende inutilmente buono, ma che grazie al carisma di Molina e alla pessima caratterizzazione dell'arrampicamuri, lo promuove a vera e propria figura drammatica; nel finale si assiste così ad un corto-circuito empatico senza pari: non si può non tifare per la vittoria del villain sull'odioso eroe e si resta purtroppo delusi quando è il primo a soccombere e ad essere successivamente dimenticato.





Lungo, noioso e malriuscito, "Spider-Man 2" rappresenta il perfetto esempio di comic-movie della prima metà del XXI secolo: costoso e inutile, sciatto e privo di sostanza alcuna, in cui le emozioni sono limitate ai titoli di testa e alla bella sequenza della metropolitana.



EXTRA:

Più emozioni in 3 minuti di titoli che in 2 film interi!


Hulk

The Hulk

di Ang Lee

con: Eric Bana, Nick Nolte, Jennifer Connelly, Sam Elliott, Josh Lucas.

Supereroistico/Drammatico

Usa (2003)
















Tra la miriade di personaggi creati da Stan Lee, l'incredibile Hulk merita sicuramente un posto d'onore per la fama che ha acquisito nel corso degli anni; nato nel 1962, il gigante di giada si caratterizza inizialmente come semplice "omone che spacca tutto", alter ego del pacato scienziato Bruce Banner che, in un eccesso di pretestuosità senza eguali, dovrebbe simboleggiarne una sorta di "lato oscuro", ma che di fatto si attesta come semplice controparte cartacea dei mostroni nipponici che tanto furoreggiavano all'epoca negli Usa; il personaggio acquista un'effettiva dignità drammatica solo nel 1977, grazie alla splendida serie Tv, nella quale viene per la prima volta enfatizzato il lato drammatico del personaggio di Banner: costretto ad una fuga perenne e ad una vita ai margini della società civile, lo scienziato combatte con tutto sé stesso per reprimere il suo lato "verde", finché non impara a dominarlo e a sfruttarlo per fare del bene; incarnazione talmente ben riuscita che Stan Lee deciderà di trapiantarla di peso nel fumetto, ove il gigante comincerà, dopo 15 anni di distruzione gratuita, ad avere una caratterizzazione effettiva.


Sull'onda del trabordante successo di "Spider-Man" (2002), la Universal decide, un anno dopo, di trasporre sul Grande Schermo le avventure del gigante verde, puntando al rilancio; se infatti nella pellicola dedicata al tessiragnatele la regia era stata affidata dalla Sony a Raimi, per Hulk non si bada a compromessi e viene chiamato in cabina di regia un autore d'essai vero e proprio: Ang Lee; cosa abbia a che fare l'autore di capolavori quali "Il Banchetto di Nozze" (1993) e "I Segreti di Brokeback Mountain" (2005) con un personaggio a fumetti è un enigma tutt'oggi senza risposta; fatto sta che, forte di un budget stratosferico, il regista hongkonghese si diverte fin dalle prime inquadrature a costruire l'intero film come un gigantesco albo a fumetti semovente: movimenti di camera laterali, colori saturi, split-screen e montaggio analogico mimano perfettamente l'effetto comic su schermo, avvicinando questa trasposizione ad un cinecomic vero e proprio.


Lo stile iperbolico di Lee rappresenta però al contempo uno dei principali difetti della pellicola, poiché cozza irrimediabilmente con una trama talmente seria da sfiorare il ridicolo; la sceneggiatura scritta a sei mani da John Turman, Michael France e James Schamus predilige infatti il lato umano del personaggio all'azione pura e semplice: Bruce Banner (Bana) viene tratteggiato come uno scienziato mite, dominato dalla tirannica figura paterna (Nolte, magnifico come sempre), la cui trasformazione in Hulk lo porta a confrontarsi con il suo lato oscuro; peccato che nel riscrivere le origini del personaggio gli autori ne tradiscano lo spirito; Banner diviene il mostro, infatti, non a causa di una serie di radiazioni che danno vita alla sua rabbia, ma a causa degli esperimenti a cui il padre lo sottoponeva in tenera età; ne consegue che Hulk non è un'incarnazione della rabbia repressa, bensì una sorta di semplice abominio da controllare; l'intera narrazione si focalizza così sullo scontro tra padre e figlio, con il primo che assume, verso la fine, l'improbabile forma di villain mutante, senza però riuscire ad appassionare come si deve, vista l'ovvietà della caratterizzazione che viene data ai due.


Il poco divertimento che la pellicola concede risiede, neanche a dirlo, nelle scarne sequenze d'azione: tre in 2 ore e 20 di durata, di cui la prima è inguardabile a causa degli avversari scelti: un gruppetto di cani mutanti, tra cui spicca un improbabile barboncino mannaro; il risultato finale è quanto meno spiazzante: troppo serio per divertire, troppo ridicolo per appassionare, questo "Hulk" è un ibrido poco riuscito di aspirazioni psicoanalitiche basiche ed estetica fumettistica fuori controllo; poco male: l'incasso non esorbitante porterà la Marvel Studios, nel 2007, a ricreare da capo il personaggio su schermo, con un reboot firmato dal duo Louis Laterrier/Edward Norton molto meno ambizioso e, per questo, più riuscito.

giovedì 18 luglio 2013

La Promessa dell'Assassino

Eastern Promises

di David Cronenberg

con: Naomi Watts, Viggo Mortensen, Vincent Cassel, Armin Mueller-Stahl, Jerzy Skolimowski, Mina E. Mina, Sarah-Jeanne Labrosse.

Noir

Canada, Usa, Inghilterra (2007)
















---SPOILERS INSIDE---

Nel 2007, con quasi quarant'anni di onorata carriera alle spalle, David Cronenberg si confronta per la prima (e finora unica) volta con un genere a lui insolito: il noir; il risultato è un triplice trionfo: l'ennesima pellicola (dopo "La Zona Morta" e "Spider" ) apparentemente lontana dai suoi temi, ma che in realtà gli permette di continuare il suo personale discorso sulla mutazione e sull'identità, la sua prova di regia più secca e rigorosa ed un noir dalla costruzione semplicemente geniale.



La notte del 20 dicembre, a Londra, la prostituta 14nne Tatiana (Sarah-Jeanne Labrosse), di origini russe, dà alla luce una bambina, che viene subito presa in custodia dall'infermiera levatrice Anna (Naomi Watts), anch'essa di origini russe; incuriosita dalla tragica sorte della ragazza, Anna decide di tenere il di lei diario per ricostruirne l'oscuro passato: sarà questo il primo passo che la porterà ad avvicinarsi al mondo della mafia russa in Inghilterra, rappresentato dal boss Semyon (Armin Mueller-Stahl), suo figlio Kirill (Vincent Cassel) e il loro braccio destro, il laconico autista Nikolai (Viggo Mortensen).


Il mondo della mafia russa viene dissezionato dall'occhio di Cronenberg e dalla penna di Steven Knight in modo chirurgicamente preciso; usi e costumi prendono vita grazie alla caratterizzazione dei personaggi e alle loro idiosincrasie, come l'avversione per l'omosessualità e il rapporto ambivalente verso la pedofilia: il vizio di Soyka viene infatti punito violentemente all'inizio del film, mentre nulla viene rimproverato al boss Semyon, reo di aver stuprato la piccola Tatiana; perno dell'organizzazione mafiosa è il "Vory v Zakone", il codice dei ladri, vero e proprio verbo della condotta che i criminali russi seguono come un libro sacro; Cronenberg, dal canto suo, esalta la componente fisica della tradizione criminale dell'est Europa: il corpo diviene foriero di simboli e marchi atti ad identificare ogni singolo soggetto, a raccontarne la storia e le attitudini; di fatto, la scena dell'incisione delle stelle sul corpo di Nikolai è costruita come una sacra cerimonia, un battesimo che dà la vita mediante il riconoscimento di un nuovo status sociale, che dona una nuova identità per il personaggio tramite l'incisione di una serie di tatuaggi; e il corpo di Nikolai diviene esso stesso feticcio filmico nella ormai celebre sequenza della sauna, in cui viene percosso, martoriato, squarciato e penetrato sotto l'occhio gelido e ieratico dell'autore, che qui si abbandona alla fisicità più genuina; il corpo è qui totem identitario definitivo, non per nulla i due criminali aggrediscono il personaggio di Mortensen scambiandolo per il figlio del boss a causa dei marchi impressi sul suo corpo.


La relazione tra soggetto e identità è di nuovo al centro della riflessione cronenberghiana; come il Tom Stall di "A History of Violence", anche Nikolai è un uomo stretto tra due ruoli differenti e antitetici: è un poliziotto sotto copertura, costretto così a seguire un codice morale che non riconosce come suo (il Vory v Zakone) e a comportarsi in maniera del tutto opposta alla sua vera natura; quest'ultima, di fatto, prende il sopravvento solo in due sequenze: il bellissimo finale, dove, ormai divenuto boss incontrastato dell'organizzazione, siede in solitudine, pregando in silenzio e con una palese espressione di tristezza sul viso, a rimarcare la sua repulsione per il ruolo che è costretto a ricoprire; e la scena del postribolo, dove dopo aver violentato una giovane prostituta la incita a resistere regalandone un santino: unica sequenza nell'intera filmografia di Cronenberg in cui il grande autore sembra, per un attimo, voler mettere da parte la sua proverbiale stoicità in favore di un'empatia genuina verso i personaggi, riuscendo davvero a commuovere senza scadere nel ricattatorio; la confusione identitaria del personaggio viene marcata dall'autore anche con uno stratagemma sottile e geniale: il look di Nikolai ricorda molto quello di Ed Harris in "A History of Violence", come a suggerire allo spettatore l'ideale continuità tra le due pellicole.


Il personaggio di Anna, d'altro canto, è il classico esempio di "essere umano privo di radici": deplora le sue origini russe e per tutto il film cerca di rimanerne a distanza; solo nel finale accetta il suo passato atavico, proferendo poche semplici parole nella sua lingua madre; e lo fa per custodire la piccola Christine, figlia di Tatiana: in pratica accetta il doppio ruolo di donna dell'est e madre. Gli unici personaggi dotati di una personalità rigida sono i due gangster, ossia Kirill e suo padre Semyon; il primo rappresenta la parte più volgare della mafia russa: perennemente sfatto e sopra le righe, soffre anche di un complesso di inferiorità verso il più dotato Nikolai (rimarcato nella scena della cantina, dove quest'ultimo viene inquadrato, dal punto di vista di Kirill, con inquadrature dal basso verso l'alto, ad enfatizzarne l'alta statura morale e materiale), nonché verso il padre, che cerca sempre di compiacere senza mai riuscirci davvero. Il personaggio di Semyon è invece il perfetto esempio del mafioso in terra straniera: dai modi eleganti e flemmatici, si insinua dolcemente nella vita di Anna, rivelando a poco a poco e inesorabilmente la sua natura genuinamente maligna.


Se lo stile di Cronenberg, come detto, raggiunge qui il vertice del rigore senza mai scadere nello sciatto, non meno lodevole è il lavoro di sceneggiatura operato da Knight, il quale ribalta, in parte, la classica costruzione del noir; di fatto, la storia si consuma tutta nei primi minuti del film, con l'uccisione di Soyka e la morte di Tatiana; per i restanti 90 minuti assistiamo alle conseguenze di azioni effettuate nel passato: la narrazione è quasi esclusivamente descrittiva, concentrandosi sui personaggi e le loro relazioni, nonché sulla scoperta del passato di Tatiana, tradita dalle fallaci "promesse dell Est" ("Eastern Promises" appunto), che l'hanno portata ad emigrare in Occidente solo per trovare la sventura; la proverbiale fatalità finale dell'Hard Boiled viene qui evitata in favore di un clomax solo apparentemente risolutivo, che Cronenberg costruisce in modo secco e volutamente artefatto, con un semplicissimo piano a due per il bacio tra Nikolai ed Anna; e a coronare del tutto il film come capolavoro ci pensano le strepitose interpretazioni degli attori: dalla laconicità carismatica di Mortensen (giustamente nominato all'oscar e ad un'altra dozzina di premi internazionali) alla dolcezza materna della Watts, passando per un Armin Mueller-Stahl paterno e terribile ed uno strabiliante Vincent Cassel volgare, perennemente sopra le righe e (perciò) semplicemente perfetto.


Come nella migliore tradizione del noir francese e del romanzo popolare russo, "Eastern Promises" è un film in apparenza freddo, la cui patina rigorosa e distaccata cela un turbine di passioni irrefrenabile ed irresistibile; Cronenberg, dal canto, porta a compimento la sua disanima sulla relazione tra corpo ed identità: nei successivi "A Dangerous Method" (2011) e "Cosmopolis" (2012) la sua ricerca filosofica si concentrerà dapprima sulla storia della psicologia e, nel secondo, sulla dissezione del post-umanesimo imperante nel 21mo secolo.