martedì 30 luglio 2013

Dèi della Peste

Götter der Pest

di Rainer Werner Fassbinder

con: Harry Bear, Hanna Schygulla, Margarethe Von Trotta, Gunther Kaufmann, Ingrid Caven, Jan George.

Drammatico/Noir

Germania (1969)
















Geniale, sregolato, sperimentatore, appassionato, anticonformista.... non esistono abbastanza epiteti per descrivere Rainer Werner Fassbinder, regista prolifico ed eclettico responsabile, assieme a Werner Herzog ed a Wim Wenders, della rinascita del cinema tedesco nella seconda metà del '900; con 44 regie effettive tra cinema e tv ed un pugno di sceneggiature portate sul Grande Schermo postume, Fassbinder è il regista europeo più prolifico della storia (non mondiale, visto l'inarrivabile primato di 80 e rotti film di Takashi Miike), nonchè, come si diceva, uno degli autori più eclettici di sempre, in grado di usare stili narrativi ed estetici differenti per quasi ogni pellicola, pur portando avanti determinati crismi estetici e contenutistici che caratterizzeranno gran parte della sua produzione, come l'omosessualità sradicata da ogni tabù, l'amore visto come oppressione e dominio di un soggetto su di un altro e la follia d'amore; senza contare, naturalmente, il ricorso ad un gruppo di attori, ristretto ma affiatato, presente in tutti i suoi film, tra i quali troviamo Hanna Schygulla, Margarete Von Trotta, Gunther Kaufamnn e, più avanti, Gottifried John, Volker Spengler e Barbara Sukowa.


Attivo dalla fine degli anni '60 ai primissimi anni '80, l'autore tedesco esordisce nel lungometraggio con "L'Amore è più Freddo della Morte" (1969), ma è solo con il suo terzo film, il noir melò "Götter der Pest", che giunge alla ribalta in patria; "Dèi dela Peste" è il perfetto paradigma della prima parte della carriera di Fassbinder: un noir in bianco e nero che omaggia la tradizione del genere, non tanto di quello classico americano (che sarà rivisitato dall'autore con il successivo "Il Soldato Americano" del 1970), bensì nella sua declinazione francese, il polar di stampo melvilliano; nel portare in scena le disavventure del recidivo Franz Walsch (Harry Bear), uscito di galera e alla disperata ricerca di una vita che sia una, Fassbinder, paradossalmente, non si rifà tanto a Melville, quanto a Jean-Luc Godard ad al suo "Bandè à Part" (1964); l'impianto classico del noir viene così scardinato fin dalle fondamenta, ma, a differenza di quanto fatto dall'autore francese, Fassbinder imprime alla narrazione un'impronta smaccatamente melodrammatica; piuttosto che costruire un canonico racconto hard-boiled, l'autore preferisce sviscerare la psicologia del protagonista e il suo rapporto con gli altri personaggi; in particolare, enfatizza il rapporto con il ruolo che ognuno di essi ricopre all'interno della storia; il protagonista, in ossequio alla classica fatalità propria del noir, diviene così soggetto passivo, mai attivo nel racconto: apatico e distaccato, Franz è cosciente della futilità di ogni sua azione e perciò si abbandona agli eventi; non per nulla, l'ultima battuta che pronuncia è "a ciascuno il proprio mestiere".


Sono quindi i comprimari a portare avanti l'azione: Johanna Reiher (Hanna Schygulla, una delle muse del regista), figura angelica e salvifica, Margarethe (Margarethe Von Trotta), donna innamorata, l'enorme "Gorilla" (Gunther Kaufmann), che incarna il lato violento della storia, e sopratutto il commissario di polizia (Jan George), il cui antagonismo verso Franz viene ben simboleggiato dalla sua entrata in scena: un primo piano in carrellata laterale da destra a sinistra, perfettamente giustapposta all'entrata in scena di Franz, ove il carrello si muove in direzione opposta.


Del gruppo di protagonisti, Fassbider mostra sempre il lato più umano: durante una scampagnata, Franz e "Gorilla" si divertono a rincorrersi e far finta di picchiare un vecchio amico, come un gruppo di ragazzini troppo cresciuti; Johanna, innamorata di Franz, si dispera per la sorte dell'amato e l'informatrce Magdalena tradisce tutto e tutti non per cattiveria, ma solo per sopravvivere; nella narrazione, inoltre, il grande autore comincia a declinare quello che sarà uno dei topoi centrali della sua produzione: il menagè a trois come sublimazione di un amore omosessuale latente; di fatto, il terzetto di protagonisti si comporta come una coppia: sia Franz che "Gorilla" amano la bella Margarethe, eppure la mancanza di rancore verso Gorilla e una frase esplicita fanno presupporre un amore latente di Franz verso i suoi confronti; tema che Fassbinder sviscererà nel suo massimo capolavoro "Berlin Alexanderplatz" (1980); ed è ironico come l'autoe già qui omaggi il romanzo omonimo di Doblin ribattezzando il protagonista "Franz Bieberkoff" in una delle prime scene.


Dove la pellicola mostra un limite assoluto è, purtroppo, nel coinvolgimento; Fassbinder trattiene ogni forma di emozione, immerge la storia in un'atmosfera glaciale e la conduce con distacco, finendo fatalmente per farla risultare fredda; "Goetter der Pest" si configura, quindi, come un'operazione riuscita, ma priva di empatia, un polar dove la superficie glaciale non ricopre una tempesta di sentimenti, ma solo la volontà di un grande autore di cominciare a declinare i temi a lui cari; in quest'ottica, il film diviene importante per capire la poetica di Fassbinder, ma poco interessante da seguire; poco male: in pochissimi anni, Fassbinder farà esplodere la sua passione per il melodramma alla Douglas Sirk in tutto il suo fragore, generando pellicole a dir poco indimenticabili.

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