giovedì 6 febbraio 2014

RoboCop

di Josè Padilha

con: Joel Kinnaman, Gary Oldman, Abbie Cornish, Michael Keaton, Samuel L.Jackson, Jackie Earle Haley, Michel Kenneth Williams, Jennifer Ehle, Jay Baruchel, Marianne Jean-Baptiste.

Fantascienza/Cyberpunk/Azione

Usa (2014)
















---SPOILERS INSIDE---

Ci sono film che, sebbene perfetta espressione del periodo storico in cui sono stati prodotti, resistono bene alla prova del tempo, caratterizzandosi, anche a decenni di distanza dalla loro uscita, come opere ancora perfettamente godibili; ci sono poi film che cercano di catturare lo zeitgeist della loro epoca e di anticipare il futuro prossimo, i quali, se costruiti con oculatezza ed una buona carica visionaria, acquistano finanche un valore ulteriore una volta trascorsi anche molti anni dalla loro produzione. Il "RoboCop" di Paul Verhoeven appartiene sicuramente a quest'ultima categoria: girato nel 1987, il film era un sapiente mix di azione, fantascienza cyberpunk, revenge movie e pungente satira politica, in grado di anticipare tendenze cinematografiche e politiche ancora distanti nel tempo.


La storia del poliziotto Alex Murphy (il grande Peter Weller, nel suo ruolo più celebre) era l'archetipo stesso del poliziesco noir anni '50 mischiato con la fantascienza robotica: ucciso in servizio da un gruppo di balordi, Murphy rinasce come RoboCop, ibrido uomo-macchina costruito come prototipo dalla multinazionale Omni Consumer Product in vista della privatizzazione della sicurezza nella città di Detroit; lo sbirro cyborg comincia così a ripulire le strade della città, finchè nella sua mente non riaffiorano i ricordi della sua vita passata; ricordi che lo portano a recuperare la sua umanità e a vendicarsi dei suoi assassini, solo per scoprire come uno dei dirigenti della OCP (Ronny Cox) fosse in realtà colluso con loro; RoboCop deve quindi scontrarsi anche con il sistema che lo ha creato.





Se la trama portante era archetipica e, per questo, scontata, il vero interesse della pellicola dell' '87 risiedeva in altro, in particolare nella splendida caratterizzazione del suo protagonista e nella pungente disanima di un capitalismo prossimo venturo impazzito, perfetto erede della speculazione sfrenata della "reaganomic" dell'epoca. Murphy/RoboCop viene concepito come una perfetta macchina da guerra urbana, un carro armato vivente in grado di eseguire gli ordini e non fermarsi di fronte a nulla pur di far rispettare la legge (in particolare le prime tre direttive del suo codice di programmazione, ispirate alle tre leggi della robotica di Asimov); tuttavia, a metà del secondo atto, la parte umana rinasce e Murphy riscopre sè stesso: da macchina implacabile diviene moderno mostro di Frankestein, la cui umanità interiore è perfettamente integrata nel suo corpo fatto di lamiere d'acciaio; Verhoeven metteva ben in risalto la tragedia dell'uomo che perde parte della sua umanità, ossia il suo corpo in primis, ma sopratutto gli affetti, e che si ritrova solo ed alienato; ma ancora più riuscita era la satira di stampo politico: con una carica di humor nero sagace e caustico, Verhoeven metteva alla berlina l'onnipotenza delle multinazionali e il mito del capitalismo produttivo; nel futuro di "RoboCop" ogni cosa è un prodotto, persino gli organi vitali, ora prodotti dalla Yamaha; un futuro in cui l'edonismo e lo spirito prevaricatorio porta i dirigenti delle multinazionali a massacrarsi a vicenda pur di riuscire nei loro intenti; l'uomo-macchina diviene così ultima frontiera del businness: una creatura totalmente asservita alla multinazionale d'appartenenza, tanto da non poter procedere contro i suoi alti funzionari per perseguirli, in ossequio alla sua quarta direttiva di programmazione; ritratto sagace che prendeva anche la forma di folli servizi giornalistici e spot pubblicitari sopra le righe, che spezzavano la narrazione creando un mondo futuribile vivace e credibile; tant'è che molte delle previsioni fatte si sono sciaguratamente avverate, in primis l'onnipotenza delle multinazionali.





A completare la riuscita dell'opera ci pensavano le belle sequenze d'azione, lo spettacolare design del cyborg ad opera del geniale Rob Bottin e, sopratutto, lo stile registico; Verhoeven, provocatore nell'anima, eccedeva con la violenza, creando scene forti e disturbanti, su tutte l'uccisione di Murphy, la cui crudeltà era talmente esplicita che persino la produzione ne rimase scioccata e decise di ammorbidirla in sede montaggio (la versione integrale è però visionabile nel DVD Director's Cut distribuito a partire dal 2007); violenza spesso appaiata a massicce dosi di humor nero, come nella famosa scena dell'uccisione del consigliere OCP da parte del mostruoso ED-209, o nella sequenza della prima ronda del cyborg o, ancora, nella surreale scena, verso la fine del secondo atto, in cui uno dei cattivi viene investito da una valanga di liquami tossici, trasformandosi in un mutante sfatto ed incespicante solo per essere, subito dopo, investito e fatto esplodere da un auto in corsa; violenza e humor nero che Verhoeven teneva sempre sopra le righe, nell'intento di aumentare la carica satirica del film, che, a sua detta, era una sorta di rilettura yankee della Resurrezione, con un Gesù di metallo che, tornato in vita, porta pace e giustizia sulla terra nel migliore dei modi americani: massacrando i peccatori! Lettura iperbolica e parodistica che, fortunatamente, non faceva scadere la pellicola nel ridicolo; e se proprio di capolavoro non si può parlare, "RoboCop" è sicuramente un piccolo gioiello di fantascienza cyberpunk unita all'action, in cui la carica iconoclastica aggiunge una profondità inedita per un prodotto hollywoodiano anni'80.






Enorme successo al botteghino e cult amatissimo da tutti i cultori della fantascienza distopica ed intelligente, "RoboCop" finì presto per diventare, fatalmente, tutto quello che un vero film satirico non dovrebbe essere: un prodotto commerciale; con due sequels semplicemente orrendi e di cattivo gusto (nonostante nel progetto fossero coinvolti due grandi artigiani del cinema fantastico quali Irvin Kershner e Fred Dekker e eprsino Frank Miller), una serie tv mediocre e due serie di cartoni animati, la pellicola nata come esorcismo dello spirito materialista americano finì per diventare essa stessa un mero prodotto d'intrattenimento; e il poliziotto cyborg da icona pop ultraviolenta e sagace fini per diventare in beniamino dei bambini (!!!); il che non deve nemmeno stupire più di tanto se si pensa che in quegli anni persino il cult trash-splatter "The Toxic Avenger" (1984) finì con il diventare un cartone animato per infanti (!!!!!!!!!!!).
Rifare un film affascinante e ancora fresco, lo si è ripetuto più volte, è un'operazione rischiosa e utile solo da un punto di vista prettamente economico; e nella migliore tradizione dei remake hollywodiani degli ultimi anni, anche la resurrezione di RoboCop ha comportato un processo lungo e complesso; avviato ufficialmente quasi dieci anni fa dalla MGM, il film entra in produzione nel 2012 per la regia di Darren Aronofsky; inspiegabilmente, il regista decide di abbandona la pellicola dopo quasi un anno di pre-produzione, come farà in seguito anche con "Wolverine-l'Immortale" (2013); il progetto viene quindi affidato a Josè Padilha, regista brasiliano reduce dal successo dei dittico "Tropa de Elita" (2007-2010), nel quale ritraeva impietosamente la guerriglia tra le bande di narcos e le violente forze speciali della polizia nelle favelas di Rio de Janeiro; coadiuvato uno script quasi perfetto e da un ottimo cast, Padilha riesce nel miracolo di aggiornare il cult del 1987 senza tradirne lo spirito e cogliendone perfettamente i pregi.






La storia di base è la medesima della pellicola originale, arricchita però da qualche particolare inedito: Alex Murphy (Joel Kinnaman) è un poliziotto di Detroit onesto ed implacabile; felicemente sposato con la bella Clara (Abbie Cornish, al solito bellissima e bravissima) e padre amorevole, Murphy viene risucchiato in una spirale di morte quando, assieme al collega Lewis (Micheal Kenneth Williams, il Chalky White di "Boardwalk Empire") scopre un caso di collusione tra la malavita locale e un gruppo di poliziotti corrotti; ferito a morte, Murphy diviene così il prototipo di un nuovo progetto della multinazionale OmniCorp: un cyborg ibrido uomo-macchina che, in caso di successo, porterebbe la multinazionale ad arricchirsi lucrando sulla sicurezza interna degli Stati Uniti.






Sullo scheletro del film originale, Padilha e lo sceneggiatore esordiente Joshua Zetumer allestiscono una narrazione complessa e stratificata; il setting è sempre futuristico, ma questa volta ancora più credibile: gli Stati Uniti stanno colonizzando il pianeta e le multinazionali specializzate in armamenti hanno praticamente privatizzato la guerra; la satira politica di stampo umorista viene qui rimpiazzata da una visione fantapolitica inquietante e dai toni drammatici, splendidamente sintetizzata nel prologo: in Iran, le truppe artificiali della OmniCorp guidate dall'armiere Mattox (Jackie Earle Haley) dimostrano la loro efficienza in diretta tv, in un programma gestito da un teleimbonitore filocorporativo (un Samuel L.Jackson inquietante); i droni attaccano solo i soggetti marcati, finchè tra loro non appare un bambino armato di coltello, annichilito da un enorme (e ancora più minaccioso) ED-209; l'intento polemico è questa volta rivolto all'annosa questione della libera vendita delle armi e della guerra come businness del 21° secolo; la guerra è nuovo prodotto, il quale però non può essere venduto su suolo americano perchè i robot sono ritenuti troppo freddi, incapaci di distinguere il bene dal male; RoboCop diviene così il prototipo del "prodotto americano": un robot in cui la parte umana sopperisce alle carenze emotive della macchina; tuttavia, l'uso del cyborg umanoide è solo uno specchietto per le allodole: il vero intento del presidente della OmniCorp Sellars (un Michael Keaton redivivo e più in forma che mai, che caratterizza il personaggio come una sorta di Steve Jobs cinico e vorace) è quello di far abrogare la legge che limita l'uso dei robots per la difesa interna, ossia manipolare l'opinione politica mediante un prodotto, "vendere" al pubblico un illusione di sicurezza solo per avere un guadagno maggiore.






La disanima della società capitalista fuori controllo, collusa con i media ed incurante delle conseguenze delle proprie azioni, viene messa in scena da Padilha senza la minima traccia di humor (recuperato in extremis solo nelle ultimissime battute), ed anzi accentuando i toni cupi e para-apocalittici; il mondo di "RoboCop" è "più vero del vero", la perfetta iperbole di un occidente in cui la smania di conquista e di guadagno ha sepolto ogni altro valore. Iconoclastia che questa volta è parte portante della trama principale: il ruolo dei delinquenti è puramente pretestuoso e ben presto sono i personaggi di Keaton e dei poliziotti corrotti a rivelarsi come i veri villains della pellicola; RoboCop incarna così ancora maggiormente il valore della legge costituita, diviene una sorta di giustiziere ancora più incorruttibile in quanto non spinto meramente dalla vendetta personale e che agisce sempre e comunque nei limiti del legale; un giustiziere che però non può nulla contro i potenti (Sellars e il corrotto capo della polizia), il cui potere permette loro di limitare quello stesso strumento che hanno creato per sradicare il crimine; un crimine perseguibile finchè si riversa per le strade, poichè utile alla vendita del prodotto (il cyborg, ossia "l'arma"), ma inattaccabile quando minaccia l'ordine costituito, sia esso di natura politica o economica; RoboCop è così ora più che mai l'uomo-oggetto, l'eroe da sfruttare per la propaganda e poi distruggere quando diviene una minaccia, a prescindere dalla sua natura e dal suo scopo.






Padilha pone maggiormente l'accento sulla trasformazione dall'uomo in macchina; ecco dunque apparire il personaggio inedito del dr.Norton (Gary Oldman), moderno dr.Frankestein a cui spetta il compito perfezionare l'uomo-arma; questo perchè appena riportato in vita come cyborg, Muphy è ancora un uomo dotato di libero arbitrio, che ne limita le prestazioni rispetto ai droni, privi di emozioni e quindi di scrupoli; Murphy attraversa così una serie di fasi nelle quali acquista o perde la sua umanità: inizialmente è ancora dotato di tutte le sue emozioni, che lo portano a ricongiungersi con i suoi cari, ma subito dopo diviene una macchina totale, privo di ogni sensazione che ne possa limitare le prestazioni; il cyborg prende il sopravvento sull'uomo, ridotto a vero e proprio zombie esecutore delle direttive impiantatigli nel cervello; poco alla volta, però, l'anima dell'uomo riemerge fino a formare un ibrido totale ed ideale, in grado stavolta di superare persino i limiti di programmazione impostigli dai superiori; e Oldman e Kinnaman riescono a dare un ritratto credibile del "mostro" e del suo creatore: il primo è uno scienziato che accetta di collaborare con Sellars solo per migliorare la vita dei malati; il secondo si rivela perfetta maschera espressiva: freddo e determinato quando deve dar vita al glaciale cyborg, e al contempo empatico e commovente nel delineare la tristezza dell'uomo dentro la macchina.






E sempre a differenza di Verhoeven, Padilha limita la violenza, lasciata sempre fuori campo; salvo che nella scena più agghiacciante: la scoperta di ciò che resta di Murphy; il regista mostra esplicitamente le rimanenze del corpo dell'eroe, ridotto ad un ammasso di organi ed arti tenuti insieme artificialmente, creando una sequenza al contempo disturbante e commovente, come se fosse uscita dalla mente di Shinya Tsukamoto o del Cronenberg degli anni '70. 






Padilha si conferma anche magistrale autore action: ogni scena d'azione, oltre ad avere una precisa valenza narrativa e non solo esclusivamente spettacolare, è girata con uno stile diverso, ma sempre con perizia; si va dalla camera a mano con montaggio serrato per il prologo in Iran al montaggio spezzato per la sparatoria del locale ad inizio film, nel quale l'autore si rifà ai dettami del cinema d'azione statunitense più convenzionale, costruendo il tutto, però, basandosi sulla fisicità degli attori e sulla coreografia millimetrica della scena, avvicinandosi ai territori di Paul Greengrass piuttosto che a quelli di Michael Bay; più controllate e ancora più spettacolari sono le sequenze in cui è RoboCop a premere il grilletto: dall'addestramento con Mattox e i droni in Cina allo scontro finale con gli ED-209, furioso e spettacolare, passando per la splendida resa dei conti con il boss della mala, girata al buio e calata in uno splendido contrasto tra il rosso accesso della visione notturna del cyber-poliziotto ed il grigio di quella dei criminali; spettacolarità garantita anche dal bel mecha design, che pur non raggiungendo i livelli di genialità dell'originale di Bottin, ricrea RoboCop in modo convincente, sopratutto nella sua versione 1.0, aggiornamento hi-tech dell'originale dell' '87; più insipido è invece il design "monocromatico" dell'armatura 3.0, che comunque si fa notare per l'estrema eleganza.






Il "RoboCop" del 21mo secolo è una piccola sorpresa: un gioiello di fantascienza politica ed umana perfettamente mischiato con il cinema d'azione più intelligente; il ritorno della fantascienza americana nei territori del cyberpunk e della distopia, filoni ignorati fin troppo a lungo dalle major di Hollywood; e sarà forse un caso che a dirigerlo sia stato un brasiliano e non uno yankee?

4 commenti:

  1. bella recensione, bravo dani hai un'ottima penna. vivo o morto tu verrai con me ;)

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    1. grazie, ma non dire in giro che ti ho comprato per un dollaro :D

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  2. Nonostante nella tua recensione tu abbia menzionato le "direttive primarie", ti sei completamente dimenticato che c'è una seconda serie ispirata all'originale RoboCop: Prime Directives. Tutto sommato quel seguito "alternativo" ha del buono se scavi sotto gli effetti low budget...
    Piccola nota di un tuo pignolo amico :P

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  3. Si, è una miniserie del 2000 se non erro, non l'ho citata perchè purtroppo è inedita al di fuori degli Stati Uniti e perchè (ancora peggio) non è riuscita nell'intento di resuscitare il nostro amico Robo :(

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