mercoledì 30 aprile 2014

R.I.P. Bob Hoskins



1942-2014


Se lo conoscevate solo per "Super Mario bros." e "Chi ha incastrato Roger Rabbit?", adesso è ora di riscoprire il suo talento:



"Il Giorno del Venerdì Santo" di John MacKenzie (1980)



"Brazil" di Terry Gilliam (1985)



"Mona Lisa" di Neil Jordan (1986)



"Ventiquattrosette" di Shane Meadows (1997)



"Il Viaggio di Felicia" di Atom Egoyan (1999)


"Il Nemico alle Porte" di Jean-Jacques Annound (1999)


"Danny the Dog" di Louis Laterrier (2005)

venerdì 25 aprile 2014

The Amazing Spider-Man 2: Il Potere di Electro

The Amazing Spider-Man 2

di Marc Webb

con: Andrew Garfield, Dane DeHaan, Jamie Foxx, Emma Stone, Colm Feore, Sally Field, Chris Cooper, Felicity Jones, Paul Giamatti.

Supereroistico/Fantastico/Azione

Usa (2014)
















 ---SPOILERS INSIDE---

Successo globale sin dal suo primo giorno di programmazione, "The Amazing Spider-Man" riuscì, nell'estate del 2012, a rilanciare la credibilità cinematografica dell'Uomo Ragno e ad avviare una nuova serie di pellicole a lui dedicate; immancabilmente (anche a causa della sua natura di film-episodio) ecco arrivare a soli due anni di distanza il secondo capitolo delle avventure dell'Arrampicamuri basate sulla serie "Ultimate"; con un budget più sostanzioso e uno script affidato al dinamico duo di imbecilli Orci & Kurtzman, "The Amazing Spider-Man 2" si distanzia per i toni dal suo predeccessore e, pur rimanendo confinato nell'ambito del "film-episodio", continua degnamente le avventure di Spidey su Grande Schermo.



Dopo la sconfitta di Lizard e la morte del capitano Stacey (Denis Leary), Peter Parker è ossessionato dal pericolo incombente sulla sua fidanzata, la bella Gwen Stacey (Emma Stone); deciso ugualmente a continuare la sua attività da vigilante mascherato, Spider-Man deve affrontare un nuovo nemico: Electro (Jamie Foxx), ex dipendente della Oscorp che a causa di un grave incidente di laboratorio ha acquisito poteri elettrici.




Abbandonate le atmosefre cupe e notturne, fortemente debitrici del classico di Nolan "Il Cavaliere Oscuro" (2008), Marc Webb immerge le peripezie dell'Uomo Ragno in un contesto totalmente diurno: largo spazio a luci naturali, colori sgargianti e pieni che ben ripropongono la ricchezza cromatica del comic originale, proprio come avveniva nella trilogia di Raimi; gli sceneggiatori Orci, Kurtzman e Jeff Pinkner, dal canto loro, reintroducono lo humor semplice e clownesco che ha reso famoso il personaggio sin dalle sue prime apparizioni, riuscendo ad appaiarlo a dovere con la spettacolarità delle scene d'azione, poche ma concepite e coreografate a dovere.




Tuttavia, piuttosto che sullo scontro con il villain, l'enfasi della narrazione viene posta sulla vita di Peter Parker, sul suo burrascoso rapporto con la bella Gwen, ma anche e sopratutto con l'amico Harry Osborn, new entry alla quale il bravo Dane DeHaan riesce a donare una carica di empatia e repulsività viva e tangibile; ed è proprio il giovane Osborn il vero antagonista di turno: amico fedele ma tradito, che diviene antagonista non per fini strettamente egoistici, quanto per una comprensibile e disperata brama di vita; al contempo, Electro è il semplice "muscolo", il motore dell'azione là dove Osborn è il cervello; un villain ben caratterizzato ma il cui ruolo nella trama è ai limiti del pretestuoso, utile solo ad incasellare un paio di belle scene action (come lo scontro finale) e a far progredire parte della storia; tant'è che Jamie Foxx, nonostante l'impegno, risulta tutto sommato sprecato; così come sprecato è anche il cameo di Paul Giamatti nel ruolo di Rhino, villain grezzo e stereotipato il cui screen-time viene relegato ad un paio di sequenze, anch'esse squisitamente d'azione, nel solo prologo ed epilogo; più gustosa è invece la repellente apparizione di Chris Cooper nei panni di Norman Osborn, patriarca morente e manipolatore alla base dell'intera caratterizzazione del suo giovane erede, e della bella Felicity Jones nei panni di Felicia Hardy, futura Gatta Nera.




La caratterizzazione dei personaggi risulta la vera carta vincente della pellicola; al di là dei due villain principali, anche Spidey viene reso con credibilità; abbandonati i "super-problemi" egoistici e pretestuosi di Raimi e soci, Webb introduce Parker in un contesto verosimile, dove a schiacciarlo sono i sensi di colpa per le vittime che non è riuscito a salvare, il peso per la scomparsa dei genitori, l'amore impossibile per Gwen e il difficile rapporto con l'amico d'infanzia Harry; il passato nel cinema indie del regista si fa sentire: le schermaglie amorose tra Peter e la bella vengono caricate con un enfasi ai limiti del ridicolo, complice l'uso della colonna sonora romantica e smielata e i pessimi e scontati dialoghi; eppure, la love-story riesce lo stesso a funzionare, grazie sopratutto all'impegno di Andrew Garfiled ed Emma Stone, le cui performance sono meno incisive che nella precedente pellicola ma ugualmente credibili.




E se la storia si inceppa, in parte, nel secondo atto a causa di una narrazione troppo lenta e stantia, i quattro autori meritano un plauso per il lavoro certosino volto a ricreare il mondo vivo e complesso del fumetto di partenza; i personaggi iconici, i complotti, i funambolici effetti dell'eugenetica, gli scienziati pazzi e sfrenati ed il burrascoso passato dei coniugi Parker trovano, finalmente, un compimento totale e coerente anche sul Grande Schermo; ogni mistero riguardante gli oscuri piani di Osborn e soci viene qui svelato, portando a compimento quella che era la trama portante del primo film, allora lasciata in sospeso ed ora finalmente completata.




E se per due terzi della sua durata questo "Il Potere di Electro" sembra essere un ritorno alle atmosfere spensierate e colorate dello Spider-Man di Raimi che tanto galvanizzò critica e pubblico nel decennio passato, il terzo atto inverte sensibilmente il tono della narrazione divenendo genuinamente cupo, in un recupero dell'atmosfera notturna ed opprimente del primo capitolo; proprio come nel fumetto, anche in questa trasposizione cinematografica l'amore tra Peter e Gwen viene punito in un epilogo genuinamente spiazzante, dove la morte della ragazza non viene né nascosta né addolcita, ma mostrata esplicitamente, riuscendo a distruggere ogni aspettativa e a colpire nel segno.




Più ameno del suo predecessore e al contempo meno incisivo, "The Amazing Spider-Man 2" è comunque un sequel riuscito: un film-fumetto divertente e a tratti squisitamente coinvolgente; di sicuro non una pietra miliare nel filone, ma lo stesso un ottimo esempio di cinema di intrattenimento disimpegnato ma efficace.

mercoledì 23 aprile 2014

Nymphomaniac- Volume 2

Nymphomaniac: Vol. II

di Lars Von Trier

con: Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgaard, Shia LaBeouf, Stacy Martin, Jamie Bell, Willem Dafoe, Mia Goth, Jean-Marc Barr, Michael Pas, Udo Kier.

Erotico/Drammatico

Danimarca, Inghilterra, Germania, Belgio (2013)















---SPOILERS INSIDE---

Seconda parte della storia di Joe, in "Nymphomaniac- Volume 2" Von Trier cambia decisamente i toni rispetto ai cinque capitoli del precedente Volume 1, esacerbando la componente drammatica ed iconoclasta ed ammantando ancora più pesantemente le avventure della sua protagonista in un'alone di dannazione.


Joe (Charlotte Gainsbourg) continua a narrare a Seligman (Stellan Skarsgaard) le sue avventure sessuali e non; incapace di provare orgasmi, la donna comincia una serena e spensierata convivenza con l'amato Jérome (Shia LaBeauf), dal quale ha anche un figlio, Marcel; disperatamente alla ricerca del piacere, Joe si avvicina al masochismo grazie al sadico "K" (Jamie Bell), comincia a lavorare per lo strozzino "L" (Willem Dafoe) ed alleva la giovane e scapestrata "P" (Mia Goth).


Nei tre capitoli conclusivi, Von Trier si limita a descrivere la caduta in disgrazia di Joe, lo sfaldarsi delle sue certezze e dell'equilibrio che sembrava aver raggiunto in "The Little Organ School"; Joe cala sé stessa in un universo di perversioni, diviene per la prima volta oggetto passivo pur di ritrovare l'orgasmo perduto ed il sesso diviene castigo infernale piuttosto che coronazione di una dipendenza; la maternità per la donna è solo un ostacolo al piacere, che rimuove senza rimorso alcuno, se non quello di aver perduto l'uomo della sua vita; la vera esperienza genitoriale viene compiuta nel tutorato di "P", al contempo successore, figlia ed amante, ossia coacervo di tutte le aspettative che un essere umano può riporre nel prossimo.


Ed è nella narrazione di tale "discesa" che Von Trier calca la mano; le pratiche erotiche più volgari vengono dipinte con uno humor nero irresistibile, come nella scena dei cucchiai da dolce o del menage a trois "abortito"; la sessualità continua ad essere mostrata esplicitamente solo per brevissimi istanti; al suo posto è la violenza a divenire protagonista: sia essa la violenza a fini erotici che Joe sperimenta nel sesto capitolo, "The Eastern and Western Church (The Silent Duck)", sia quella distruttiva a cui si lascia andare nel suo lavoro.


In "The Mirror", il settimo capitolo, Joe tenta di "disintossicarsi" dalla sua dipendenza da sesso andando in rehab presso una comunità psichiatrica; ma la sua esuberanza sessuale è davvero una malattia? Von Trier non ha dubbi: non lo è, lo scandalo vive solo nell'ipocrisia della mentalità borghese, la quale tende a rimuovere tutto ciò che può essere etichettabile come "sporco" e "inusuale" dalla superficie della società, in ossequio ad un puro spirito di apparenza; l'ipocrisia dei "normali" viene aborrita in favore di una naturalità si peccaminosa ed oscena, ma pura perchè non costretta all'interno di schemi precostituiti.


In "The Gun", ottavo ed ultimo capitolo, Joe comincia a lavorare per lo strozzino "L"; l'esperienza maturata con "K" le permette di torturare efficacemente le sue vittime da un punto di vista fisico e l'enciclopedica conoscenza delle debolezze maschili le permette di manipolarle anche sul piano psicologico; due sono gli elementi cardine di questo capitolo, ideali cartine di tornasole di tutta l'opera: il discorso sulla pedofilia ed il rapporto con "P".
Dinanzi ad una vittima apparentemente priva di difetti, Joe inizia a raccontare delle storie oscene per sondare le sue inclinazioni sessuali; con grande sorpresa della donna e sopratutto dello stesso uomo, questi scopre di essere attratto dagli infanti: esterrefatta, Joe lo loda e lo premia; dinanzi alla reazione indignata di Seligman, Joe afferma come di fatto provasse pietà per quell'essere: un uomo che come lei ha dovuto reprimere la sua sessualità, nascondere un'inclinazione oscena e su cui non ha potere; ma, e sopratutto, Joe afferma di aver stimato la sua vittima per essere riuscita a scardinare la sua tendenza e ad evitare che questa esplodesse ferendo degli innocenti.


La storia di "P" è invece più complessa ed affascinante; Joe conosce la ragazza, vittima di una famiglia disfunzionale e schiava della sua insicurezza, per addestrarla come suo rimpiazzo nel giro delle estorsioni; tra le due nasce un rapporto stratificato e completo; perduta la possibilità dell'orgasmo a causa delle ferite infertele da "K", Joe sublima la sua sessualità tramite una maternità altera, datale da un uomo ("L") per il quale non prova nulla, in completa antitesi rispetto alla sua maternità naturale: Marcel viene descritto come un novello anticristo e non a caso, nel capitolo precedente, Von Trier cita la celebre scena d'apertura del suo precedente (e controverso) "Antichrist" (2009); rapporto materno che presto sboccia in un amore puro, non casto ma neanche totalmente sessuale perchè privo dell'orgasmo: l'unico contatto fisico tra le due avviene quando "P" succhia il seno di Joe, ossia quando compie un gesto si smaccatamente sessuale, ma al contempo materno. "P" diviene una nuova Joe, la quale è schiava non del sesso, ma della violenza, ossia di una devianza totale; ed arriva anche a soppiantare la madre surrogata seducendo un ormai adulto Jérome, con il quale, alla fine dell'episodio, picchia a sangue Joe e la umilia due volte: facendosi prendere come lui fece con Joe nella sua prima esperienza, ma con più foga, e urinandole in testa, in una declinazione femminile e disperata del mito di Edipo.


L'erotismo di Joe viene questa volta tratteggiato in modo costantemente osceno ed esplicitamente blasfemo; nella prima scena, un flashback della sua infanzia, la ragazza ha una visione durante un orgasmo: la meretrice di Babilonia e Messalina; Von Trier rievoca i simboli classici e cristiani della perversione femminile in modo da calare la sua protagonsita all'interno di un simbolismo a lui caro: quello dell'anticristo; eppure, l'autore continua al contempo nella sua opera dialettica mediante il personaggio di Seligman, contrappunto razionale ed erudito il quale riesce a trovare nelle esperienze della donna sempre e comunque un lato positivo; e di fatto, nella conculsione dell'ultimo capitolo, è egli stesso che, in un gioco di specchi con il suo autore, stigmatizza la percezione maschilista della sessualità femminile come ipocrita, rimarcando come sia il solo sesso femminile di Joe (non per nulla battezzata con un nome maschile) ad ingenerare scandalo, non le sue azioni di per loro stesse.


Il tono didascalico e citazionista (tra gli altri l'amato Tarkowsky) aiutano la comprensione delle metafore più barocche, ma Von Trier sbaglia clamorosamente il finale di questa sua lunga e splendida disanima sulla donna e sul corpo; se in precedenza l'autore si poneva verso la protagonista (ossia verso la donna, un mondo che egli stesso e per sua ammissione dice di non comprendere) con una curiosità vera, un distacco intellettuale ed una genuina voglia di comprensione, nell'epilogo si contraddice clamorosamente rivoltando come un calzino l'intera caratterizzazione (simbolica e non) dei due protagonisti: Seligman diviene un mostro insensibile mentre Joe si tramuta in una assassina; perché un tale capovolgimento repentino ed ingiustificato? Von Trier potrebbe davvero credere ad una sorta di determinismo sessuale per cui tutti gli uomini sono bestie mentre le donne sono vittime e/o carnefici; ma allora perchè spendere le tre ore e mezzo precedenti a sondare, scandagliare, costruire e decostruire personaggi e situazioni in cerca di un significato più profondo? La risposta va allora cercata altrove, in un territorio meno "intellettuale" e più schiettamente narrativo: la voglia compiaciuta di spiazzare lo spettatore, di distruggere ogni sua certezza e lasciarlo uscire dalla sala con l'amaro in bocca.


Scelta imperdonabile, che purtroppo guasta il lavoro fatto dall'autore nei capitoli precedenti; l'operazione "Nymhpomaniac" può quindi si essere catalogata come "riuscita", ma il tono manicheo e ruffiano di questo "Volume 2" abbassa di molto il valore di quella che avrebbe potuto essere un'opera geniale e coraggiosa.

mercoledì 16 aprile 2014

Lola


 di Rainer Werner Fassbinder

con: Barbara Sukowa, Armin Mueller-Sthal, Mario Adorf, Matthias Fuchs, Helga Feddersen, Karin Baal, Ivan Desny, Hank Bohm, Karl-Heinz von Hassel, Christine Kaufmann, Elisabeth Volkman, Y Sa Lo, Gunther Kaufmann.

Commedia/Grottesco

Germania (1981)










---SPOILERS INSIDE---

Stretto tra reminiscenze cinematografiche classiche ("L'Angelo Azzurro" e "Gilda") e la forte impronta iperealista e postmoderna propria degli anni '80, ancorato alla tradizione dell'Action Theatre e di Brecht ma fortemente dinamico nella messa in scena, "Lola" è il terzo capitolo della riflessione fassbinderiana sulla Germania post-nazista, nonchè il più riuscito dell'intera tetralogia.


1955: in una cittadina della Germania dell'Ovest vive Lola (Barbara Sukowa) cantante e prostituta nel bordello di Schukert (Mario Adorf), grosso speculatore edilizio locale i cui affari vengono messi in subbuglio dall'arrivo di Von Bohm (Armin Mueller-Sthal), nuovo assessore all'edilizia dal carattere forte ed irreprensibile; conosciuta la fama del nuovo arrivato, Lola fa una scommessa con il suo ruffiano: riuscirà a sedurre Von Bohm senza ricorrere a trucchi o mestizie.


Come Maria Braun e Willie, anche Lola è la Germania, una nazione ora non più afflitta dalle incrostazioni della guerra e pronta a ricominciare, letteralmente, a ricostruirsi; e sempre come Maria Braun, Lola incarna il lato più intraprendente e schietto della ripresa; ma questa volta Fassbinder non bada a compromessi ed a mezze misure: la sua donna non è un essere umano che cerca di sopravvivere, ma una semplice prostituta pronta a vendersi al migliore offerente pur di campare; Lola non ha scrupoli di coscienza, non piange né recrimina per il suo lavoro; l'unica volta in cui si arrabbia per la compravendita di cui è oggetto lo fa solo per motivi circostanziali ed è subito pronta a rimettersi in gioco; Lola non aborrisce il degrado di cui essa stessa è parte: vive benissimo nel lerciume da cui proviene e vuole, letteralmente, essere solo lasciata vivere in pace; per lei non vi è riscatto finale, non vi è una catarsi liberatoria, non la morte né la dimenticanza: alla fine torna al punto di partenza, con un matrimonio solo formale ed il possesso di un locale che di fatto la qualifica semplicemente come "borghese", ma pur sempre oggetto del suo ex magnaccia. E la fisicità sensuale ed acerba di Barbara Sukowa incarna perfettamente l'ideale di una donna bellissima, ma marcia, che Fassbinder caratterizza come una Rita Hayworth volgare ed ancora più selvaggia, una "Gilda" dannata e irredenta eppure irrefrenabilmente attraente.


Attorno a Lola gravitano i tre personaggi-simbolo di un'epoca, le tre forze che si battono per conquistare il cuore (e il culo) della Germania: Von Bohm, burocrate dalla morale inflessibile, Schukert, imprenditore lestofante pronto a tutto pur di guadagnare, ed Esslin, intellettuale sinistrorso ed idealista. Lo scontro tra i tre è però fluido ed ambiguo: non vi è attrito vero e proprio tra i loro punti di vista e le loro azioni, quanto una serie di schermaglie reciproche volte ad ottenere di volta in volta un guadagno (economico o meno che sia), che si tramutano in opposizione solo quando le cose precipitano; Von Bohm è pienamente cosciente della mala fede di Schukert e di come il piano edilizo altro non sia che una manovra intavolata assieme ai politicanti per ottenere un arricchimento indebito; eppure egli è altresi cosciente della necessità dell'azione di personaggi del genere per ottenere un bene più grande: la restaurazione della società civile; Esslin, a sua volta, stigmatizza pubblicamente le manovre di Schukert e si avvicina a Von Bohm nella speranza di un cambiamento; personaggio del quale egli rappresente il lato più idealista ed intransigente, meno ancorato alla realtà e perciò meno pragmatico; eppure, proprio Esslin vive e suona nel bordello di Schukert ed intrattiene una relazione, prettamente intellettiva, con Lola; l'intellettuale altri non è che una appendice dello status quo: una sorta di organismo simbiotico che deve attacchire presso qualcun altro pur di sopravvivere; e di fatto nel terzo atto egli volta idealmente la sua bandiera facendosi assumere dallo stesso Schuckert una volta compresa l'impossibiltà di sconfiggerlo.


Ed è Schukert, con il suo bordello, a costituire il lato più ottuso e marcio della società: un imprenditore affarista formatosi lucrando durante la guerra, sposo solo formale di una ex nobildonna (caratterizzata come una Margaret Thatcher ante literam) che vive e prospera in un postribolo ove rifornisce dei piaceri più bassi tutti i politici ed i funzionari locali; Schukert è l' "uomo nuovo" del Secondo Dopoguerra, una via di mezzo tra un semplice speculatore ed un gangster vero e proprio, la cui immoralità si contrappone alla forte morale di Von Bohm trionfando in un finale nerissimo ed acido, nel quale Fassbinder mostra la vittoria della Seconda Generazione tedesca, quella creasciuta durante la Guerra e che ha colonozzato la Germania dando vita alla infausta Terza Generazione, che già aveva dipinto quattro anni prima



Gli incontri e scontri tra i tre personaggi avvengono in due luoghi simbolo: il comune ed il bordello, ossia i centri del potere; Lola cela la sua doppia anima inizialmente sdoppiandosi in due personaggi: la selvaggia prostituta e l'angelica e raffinata innamorata; Schukert usa Lola per i suoi fini mentre Esslin cerca di superarlo nella compravendita della bella; nel momento in cui comprende di non poter vincere, decide di distruggere ogni equilibrio rivelando a Von Bohm la vera natura della donna e, con essa, quella della società che è chaiamto a gestire: un postribolo in cui tutto può essere comprato ed in cui tutti si ingozzano, sotto lo sguardo distratto del primo ministro Adenauer, che Fassbinder rievoca in una stramba foto d'epoca con cui apre e chiude la pellicola.


E se la città ed il bordello sono i terreni dello scontro, il trofeo è appunto Lola, la Germania, donna bellissima ed ambigua; messa subito in chiaro l'immoralità della patria e della Seconda Generazione (le cornacchie e i rapaci, o anche, e più semplicemente, "la spazzatura ed i cessi"), Fassbinder si diverte a dare una caratterizzazione ambigua alla sua eroina; Lola è sicuramente una donna in cerca di una posizione sociale migliore, così come lo sono le sue compagne; eppure, in lei alberga una disillusione totale che la porta a preferire lo squallore del bordello e la prostituzione ad ogni forma di riscatto; la prostituzione non viene descritta come forma di umiliazione, ma come strumento per l'affermazione personale che non degrada la donna; il pozzo nero dell'immoralità è già stato superato: Lola non ha vergogna di sé, ne vuole provarla; anzi, è la paura di separarsi dal quel mondo che tanto conosce ad ingenerare in lei vero terrore, al punto di troncare la relazione con Von Bohm e di abbandonarsi ad una danza scatenata una volta che questi scopre la sua vera occupazione. Persino il matrimonio non è foriero di vero cambiamento: una volta acquisito il premio, Von Bohm è vincitore meramente formale (non per nulla, Fassbinder chiude il film con un quesito: "Sei felice?", "Si" risponde il personaggio, senza però mostrare vero convincimento) e Lola torna ad essere l'oggetto da comprare, pur essendo ora parte di quella classe borghese che in precedenza serviva, divenendo il simbolo di una moralità di sola facciata e, per questo, assolutamente ipocrita.


Nel mettere in scena la parabola di Lola, Fassbinder si abbandona definitivamente al postmodernismo barocco: luci al neon dai colori caldissimi illuminano i personaggi in ogni singola scena, persino negli esterni; le transizioni assumono la forma del flou generando un effetto onirico, trasformando la storia in un incubo dal quale è impossibile svegliarsi, un girone infernale tappezzato di velluto, abitato da diavolesse sensuali e gestito da un diavolo in doppio petto, letteralmente "privo della coda pelosa e dell'odore di zolfo" e nel quale ogni moralità viene distrutta dalle note sensuali e selvagge de "I Peccatori di Capri".


Pungente sino al caustico, disilluso e sensualissimo, "Lola" è uno dei film più forti dell'intera carriera di Fassbinder, un atto d'accusa che non fa sconti a nessuno e che sbeffeggia tutto e tutti.

sabato 12 aprile 2014

Noah

di Darren Aronofsky

con: Russell Crowe, Jennifer Connelly, Ray Winstone, Emma Watson, Anthony Hopkins, Logan Lerman, Douglas Booth, Nick Nolte, Mark Margolis.

Usa (2014)



















Ogni volta che Darren Aronofsky si avvicina ai territori della spiritualità accadono danni; era successo nel 2005 con "The Fountain", strambo e compiaciuto mix di esoterismo maya ed influenze indu, perfettamente annoverabile nella corrente "New Age", anch'essa a sua volta miscuglio di suggestioni orientali e sudamericane che tanto furoreggiava negli anni '90 nei peggiori ambienti radical chic; succede oggi con "Noah", dove l'autore, noto lettore della Cabala, rilegge il Diluvio Universale in chiave ecologista e veg; con esiti involontariamente ironici e di pessimo gusto.


Come il Pasolini del Ciclo del Mito, anche Aronofsky ambienta la sua epica biblica in un mondo primordiale al di fuori del tempo e dello spazio, una mitica "Età del Ferro" ove ogni riferimento a qualsiasi civiltà viene evitato; in ossequio alla tradizione giudaico-cabalistica, la razza umana viene scissa in due stirpi diverse ed inconciliabili: i Figli di Caino, portatori di tutti i peccati, ed i Figli di Seth, fautori della volontà divina; Noah (Russell Crowe) è l'ultimo della stirpe di Seth e Dio comunica con lui tramite delle visioni, come tramandato nella Bibbia; le risate cominciano quando il profeta si reca in visita da suo nonno Matusalemme (Anthony Hopkins, oramai abbonato ai ruoli da vecchio saggio in film in costume), ancora vivo e vegeto, il quale lo aiuta ad avere un'altra visione rivelatrice... grazie ad un tè lisergico; Noah comprende di dovere costruire un'Arca per la salvezza del creato, ma si inimica Tubal-Cain (Ray Winstone), volitivo proto-tiranno della stirpe di Caino.


La concezione del peccato degli uomini di Aronofsky è semplicemente sbagliata; glissato ogni riferimento alla violenza e alla decadenza morale (fatto salvo il solo episodio dell'uccisione di Abele), l'autore riduce il male umano a due sole attività: il consumo di carne e l'edificazione delle città; il vegetarianismo e la vita all'aria aperta, nella visone dell'autore, sono le uniche vie della salvezza, praticate dalla stirpe di Seth ed  aborrite da quella di Caino; l'uccisione dell'animale ai fini del sostentamento e la creazione di una civiltà organizzata sono l'espressione suprema del Male, nonchè una forma di dominazione dell'Uomo sul Creato, come se nel resto del Vecchio Testamento non si facesse menzione del favore del Creatore verso il sacrificio di animali o sull'edificazione di civiltà; Aronofsky si rifà nuovamente alle suggestioni New Age, sbatte in faccia al pubblico il suo credo vegano ai limiti dell' hippie e tronca ogni possibile forma di sintesi tra le due visioni opposte; anche nel delirio finale, Noah resta il buono mentre Tubal-Cain è sempre il diavolo tentatore, come se tutto il film fosse un gigantesco sermone di un predicatore puritano piuttosto che la tesi di un dotto lettore delle Sacre Scritture.


E il tono serioso e predicatorio con cui Aronofsky conduce il tutto non può che rafforzare quest'impressione; la sua filosofia da ragazzetto alternativo e spocchioso fuoriesce da ogni singolo fotogramma, a ricordarci come il peccato sia in fondo nelle piccole cose, nel desiderio di una famiglia, in ciò che si mangia, dove si vive; fatto sta che il suo eroe, Noah, benchè descritto come uomo mite, non si fa problemi ad imbracciare le armi e ad uccidere chiunque gli capiti a tiro, senza avere il minimo rimorso di coscienza; e come ogni quacchero che si rispetti è pronto a giustificarsi dicendo che Dio è con lui, aumentando la già alta percentuale di cattivo gusto.
Se proprio qualcosa va salvato nella visione dell'autore, questo non può che essere la rilettura della Creazione, dove riesce a far convivere le tesi creazioniste con quelle evoluzioniste, regalando almeno per un attimo l'impressione di trovarci innanzi ad una pellicola seria piuttosto che ad uno sproloquio.


E se la lettura del Diluvio appare indigesta, del tutto risibile è l'estetica adottata dall'autore per la sua messa in scena; il mondo di "Noah" è una via di mezzo tra una preistoria fantasy ed il post-apocalittico alla Mad Max; ecco dunque apparire dal nulla guerrieri in cotta di maglia, scudi fatti con fogli di lamiera ondulati (!) e fabbri che forgiano armi usando caschi da saldatore (!!!); e se già questo basterebbe per mandare all'aria ogni forma di sospensione dell'incredulità, Aronofsky alza il tiro ridisegnando gli Angeli Caduti (definiti "Vigilanti" come nella tradizione ebraica) come dei golem di pietra e luce capaci di mutarsi in rocce, sorta di Transformers ancestrali dalle movenze goffe ed assolutamente ridicole; e quando questi cominciano a combattere al fianco di Noah per difendere l'Arca sembra davvero di assistere ad una sorta di spin-off della saga de "Il Signore degli Anelli" in acido o ad un sandalone spacciato per mistica visione del passato.


Spocchioso, manicheo, assolutamente ridicolo e malriuscito, "Noah" non è una rilettura del Vecchio Testamento, quanto il delirio di un bibbiofilo vegano sotto pesanti dosi di mescalina; e spiace davvero vedere un cast affiatato ed in parte sprecato per un incubo autoriale simile.

mercoledì 9 aprile 2014

I Racconti di Canterbury

di Pier Paolo Pasolini

con: Hugh Griffith, Laura Betti, Ninetto Davoli, Franco Citti, Pier Paolo Pasolini, Vernon Dobtcheff, Josephine Chaplin, Alan Webb.

Italia, Francia (1972)



















Secondo capitolo della "Trilogia della Vita", "I Racconti di Canterbury" prosegue la rappresentazione pasoliniana di una società borghese ancora embrionale nella quale il sesso, l'amore, la spiritualità e la morte si rincorrono senza sosta.


Nel portare in scena l'opera omonima di Jeffrey Chaucer, Pasolini prediglige le novelle più licenziose ed erotiche; il corpo umano, come lui stesso affermerà, diviene il suo modello; la rappresentazione del sesso si fa qui più esplicita: le scene di nudo aumentano e gli amplessi sono ripresi in modo ancora più diretto; la gioia del sesso diviene di nuovo paradigma della felicità terrena e della spensieratezza di un epoca perduta.


L'atmosfera leggera e solare viene accentuata dalla splendida fotografia di Tonino delli Colli e sopratutto dai costumi di Danilo Donati, che predilige tinte sgargianti che si contrappongono in maniera vivida ed efficace ai colori smorti delle scenografie naturali (le strade di Canterbury e dei paesi rurali dell'Inghilterra); l'umorismo viene esasperato sia grazie all'uso della colonna sonora (foriera di splendide canzoni tradizionali britanniche), che delle gag, le quali sfociano sovente nello slapstick vero e proprio; su tutti è l'episodio del "Lazzarone" (Ninetto Davoli) ad essere il più divertente, nel quale Pasolini omaggia un'altra celebre figura della tradizione inglese: Charlie Chaplin.


Tuttavia, man mano che la narrazione procede ci si rende conto di come l'autore prediliga, di tanto in tanto, una risata beffarda e sardonica al riso gioviale; l'umorismo nero la fa da padrone in uno degli episodi più riusciti, quello del traditore, nel quale un fattore che arrotonda i suoi guadagni denucniando i libidinosi stringe un patto con il diavolo, ritrovandosi dannato a causa delle sue stesse parole; il tema della morte è in questo secondo capitolo della trilogia più presente e pregnante; la morte è violenza, cupidigia, avidità; la morte viene ritratta come un castigo per gli scellerati, una punizione per gli ottusi, i quali non possono contare su nessuna salvezza estrema.


Se "Il Decameron" si chiudeva con una visione paradisiaca, "Canterbury" si chiude con una visione infernale: il viaggio onirico di un frate cupido nel girone peggiore dell'Inferno, quello per i chierici, condannati a dimorare nel deretano di un satanasso; ed è nella rappresentazione folle e carnale di questo oltremondo beffardo e terribile che il film trova la perfetta catrarsi: un punto di arrivo nel quale confluiscono i tre temi centrali per creare un climax corrosivo e visionario.


Leggero e amaro, "I Racconti di Canterbury" non può contare sulla freschezza del suo predecessore, né sulla carica visiva del successivo "Il Fiore delle Mille e una Notte" (1974), ma resta comuqnue uno dei film più visionari e divertenti del grande autore emiliano.

giovedì 3 aprile 2014

Nymphomaniac- Volume 1

Nymphomaniac: Vol. I

di Lars von Trier

con: Stacy Martin, Charlotte Gainsbourg, Stellan Skarsgaard, Shia LaBeouf, Christian Slater, Uma Thurman, Connie Nielsen, Sophie Kennedy Clark.

Erotico

Danimarca, Inghilterra, Francia, Germania, Belgio (2013)














---SPOILERS INSIDE---

Cercare di dare una dignità artistica alla pornografia è un'impresa ai limiti dell'impossibile; Oshima Nagisa ci aveva tentato con lo scandaloso "Ecco l'Impero dei Sensi" (1976) e con il suo seguito "L'Impero della Passione" (1978), fallendo miseramente; ora tocca a Lars von Trier, il cui cinema è da sempre foriero di provocazioni e scandali e che già con "Antichrist" (2009) si era avvicinato al limite tra il cinèma veritè e il porno; "Nymphomaniac- Volume 1" non è però la pellicola "oscena" che tutti si aspettavano: il sesso c'è, ma non è quasi mai mostrato esplicitamente; sopratutto, più che un film sul sesso, è, nella migliore tradizione del cineasta danese, un film sulle ossessioni e sulle paranoie private e comuni.


Londra; in una fredda notte, il mite ed erudito Seligman (Stellan Skarsgaard) soccorre Joe (Charlotte Gainsbourg), ninfomane apparentemente reduce da un brutale pestaggio; una volta a casa di lui, Joe comincia a narrare al suo soccorritore la storia della sua vita: la scoperta della sessualità avvenuta a soli due anni, i giochi erotici fatti sin da piccoli con l'amica "B" (Sophie Kennedy Clark), la sua perdita della verginità, avvenuta a quindici anni con lo scanzonato Jèrome (Shia LaBeouf), le sue innomerevoli avventure sessuali, ma anche il complesso rapporto con i genitori (Christian Slater e Connie Nielsen) e l'ossessione per il suo primo (e forse in realtà unico) amore.


Il tono di Von Trier è al solito algido e distaccato; camera a spalla, luce imrpovvisata e attori al naturale come il Dogma '95 impone(va), "Nymphomaniac" non comporta nessuna evoluzione stilistica nella filmografia dell'autore, che trova come uniche note originali delle splendide incursioni nella video-art (i diagrammi, spesso usati a fini umoristici) e nell'uso della colonna sonora, che mischia reminiscenze kubrickiane ai Rammstein. Quello di Von Trier è qui come non mai un cinema di contenuto, totalmente basato sulla descrizione del personaggio di Joe e sul suo confronto con Seligman, suo ideale alter-ego, talvolta semplice confessore, talatra vero e proprio psicoanalista; se la prima ammette candidamente l'immoralità della sua vita e della sua sfrenata pulsione sessuale, il secondo cerca di razionalizzarla, di creare un contrappunto ad ogni sua confessione; il punto di vista sulle vicende, benchè narrativamente ancorato a Joe, si sfasa in un duplice racconto, in una sintesi volta a capire quanto di davvero immorale e scandaloso vi sia negli episodi narrati.


Narrazione che si snoda nel corso di cinque capitoli, ognuno dei quali volto a svelare un frammento della vita e della personalità di Joe ed ognuno costituente un racconto a sè stante. Il primo capitolo, "The Compleat Angler" è l'ideale introduzione al mondo della ninfomania; Joe e la sua amica "B" viaggiano su un treno ingaggiando una sfida di sesso; la pulsione sessuale diviene così gioco, vera e proprio gioco a punti purgato di ogni riferimento carnale vero e proprio; per chi vive la sessualità come un'ossessione irrefrenabile, il coito può tramutarsi in caccia, o, meglio, pesca come spiegato da Seligman, dove è la donna ad adescare la preda con la sua esca (il suo corpo) e l'uomo diviene pesce da prendere all'amo per avere una ricompensa (un sacchetto di dolci); metafora ittica azzeccata, che Von Trier giustappone con ironia alle immagini sensuali, tutte basate (come nel resto del film) sulla fisicità acerba ma irresistibile dell'esordiente Stacy Martin.


Il secondo capitolo, "Jèrome", è il più complesso e divertente tra tutti; Joe e "B" in passato avevano fondato una comune di ninfomani volte alla venerazione del sesso nella sua accezione strettamente carnale e compulsiva, ostracizzando ogni forma d'amore e criticando la chiusura mentale della società perbenista e puritana mediante la provocazione di stampo religiosa, con un inno satanico ad aprire le sedute ed un mantra che recita "mea vulva, mea maxima vulva"; intenzioni che si sfaldano quando "B" si innamora, contravvedendo ai suoi stessi dettami. Ma anche Joe, pur più razionale e selvaggia, non è immune al virus dell'amore, che per le ha fattezze di Jèrome, colui che la liberò dalla verginità e che ora si ripresenta nella sua vita come suo datore di lavoro; quello tra i due è un vero e proprio duello: entrambi sono attratti l'uno dall'altra in una accezione non solo fisica, ma nessuno lo vuole ammettere; lo scontro tra sessi viene metaforizzato mediante la schermaglia amorosa, la quale tuttavia non porta da nessuna parte: alla fine, Joe tornerà alla sua quotidianità fatta di incontri casuali e strettamente sessuali e Jèrome scapperà via con un'altra donna.


Nel terzo capitolo, "Mrs. H", Von Trier delinea il caos della vita di Joe, fatta di una serie di incontri giornalieri (fino a dieci) regolati in modo fiscali per permetterle di incontrare il maggior numero di parter possibili; ma quando uno di questi lascia moglie e figli per trasferirsi da lei, Joe deve fronteggiare la moglie piantata, identificata solo come "Mrs. H" ed interpretata da una Uma Thurman in stato di grazia; Von Trier descrive il caos mentale generato dal tradimento appoggiandosi totalmente alla performance della Thurman, che improvvisando la parte inveisce contro Joe stigmatizzandone il comportamento; il matrimonio in frantumi, la distruzione della famiglia e il trauma generato sui figli diviengono per Joe il peccato, inteso, come specificato all'inizio della pellicola, in un senso strettamente laico, lontano dai dogmi della religione; peccato ancora più grave di quello originario, ossia della lussuria, e che Joe confessa senza ricevere assoluzioni di sorta.


Il capitolo quarto, "Delirium", è il più toccante, nel quale ritorna l'atavica paura dell'autore per gli ospedali; il padre di Joe sta morendo e lei assiste alle sue ultime ore di vita e al delirio mentale che precede la morte; unico capitolo in bianco e nero: il colore è assente, la monocromia diviene vestito del lutto, o meglio della perdita intesa anche come perdizione; il sesso, ora, è una punizione fisica ed una forma di umiliazione per l'incapacità di ovviare al dolore fisico che attanaglia il genitore e a quello affettivo della protagonista; umiliazione che diviene totale e definitiva di fronte alla reazione fisica al lutto, l'eccitazione, scevra da tendenze necrofile ma stigmatizzata da Joe in quanto immorale; Seligman però attenua il tono: la reazione incontrollata del corpo dinanzi ad un grande stress non è una vergogna, ma un mero dato fisico.


Ultimo capitolo: "The Little Organ School"; Seligman confessa a Joe il suo amore per Bach, per i suoi cori polifonici reinvanti tramite l'organo a canne e per la numerologia, in particolare per la stringa di Fibonacci, della quale due dei numeri (3+5) erano presenti nel momento in cui Joe perdette la verginità; la donna assimila la lezione e gli spiega come anche nella sua vita ci sia un trio di voci polifoniche che le hanno regalato piacere: una voce di basso, ossia un uomo più sensibile e delicato; un'esecuzione da mano destra, più selvaggio e dominatore; ed infine una terza voce, il perno dell'armonia: Jèrome, con il quale ha miracolosamente riaperto i rapporti; tuttavia, nella scena che chiude il capitolo (e con esso il film), Joe scopre, tra le braccia dell'amato, di non provare più sentimenti di sorta.


La pornografia di Von Trier riesce miracolosamente a non scadere mai nel volgare o nel compiaciuto; l'autore sa sempre quando mostrare gli amplessi e quanto mostrarne; non eccede nel vouyerismo, nè nella provocazione (a differenza di quanto accadeva in "Antichrist") lasciando che siano i racconti a stupire ed ammaliare, più che le immagini dei rapporti; e nonostante questo, "Nymphomaniac" è un'opera altamente visiva, nel quale il gusto per la pittoricità delle inquadrature evocative proprio dell'autore ritorna più forte che mai, cone nel prologo del quarto capitolo; e in cui la camera a mano e il montaggio sfasato ben riescono a raccontare la deriva mentale di una donna al limite. E se l'immoralità viene sempre tenuta a freno è probabilmente anche a causa della divisione in due parti dell'intera opera: stando all'anteprima contenuta sui titoli di coda, il "Volume 2" in uscita a breve pare essere il vero "film scandalo"; fatto sta che, grazie alla certosina caratterizzazione e alle splendide metafore, questo "Nymphomaniac- Volume 1" può essere tranquillamente considerato come uno degli esiti migliori del cineasta danese.