mercoledì 2 aprile 2014

Lili Marleen

di Rainer Werner Fassbinder.

con: Hanna Schygulla, Giancarlo Giannini, Mel Ferrer, Karl Heinz von Hassel, Hark Bohm, Erik Schumann, Gottfried John, Udo Kier, Rainer Werner Fassbinder.

Drammatico

Germania, Italia (1981)












Chiuso il cerchio "dobleriano" con la catarsi definitiva di "Berlin Alexanderplatz", Fassbinder si ritrova, reduce dal suo lavoro più impegnativo e per certi aspetti anche più osannato, nel 1981 a continuare il ciclo sulla Germania nazista e sulla donna, inaugurato nel 1979 con "Il Matrimonio di Maria Braun"; "Lili Marleen", tuttavia, è anche e sopratutto una pellicola sul prezzo del successo, oltre che un'efficace metafora sull'amoralità; considerato ovunque come il film più "fastidioso" e meno riuscito dell'autore, merita invece di essere riscoperto ed apprezzato.


Zurigo, 1939; la bella cantante di origini tedesche Willie (Hanna Schygulla) vive una tormentata storia d'amore con il pianista Robert (Giancarlo Giannini), ebreo e membro di un'organizzazione per l'espatrio dei perseguitati dalla Germania nazista; rimasta a Monaco a causa dell'ingerenza di David (Mel Ferrer), padre di Robert che non vede di buon occhio il legame del figlio con una ragazza tedesca, Willie si fa raccomandare dall'ufficiale nazista Henkel (Karl Heinz von Hassel) come cantante presso un piccolo locale, dove, in coppia con lo scanzonato pianista Hans Taschner (Hark Bohm), canta "Lili Marleen", classico della canzone tedesca risalente al 1916; il successo sarà immediato e tale da plasmarla come vera e propria icona della Germania in guerra.


"Lili Marleen è una caramella dal sapore di Danza Macabra!" parola di Joseph Goebbles; o meglio, di Rainer Werner Fassbinder, che mettendo tale definizione in bocca ad uno dei personaggi suggerisce la perfetta chiave di lettura del film direttamente allo spettatore; e di fatto la parabola di Willie è la storia di un amore impossibile, di una dannazione personale e nazionale, di una serie di lutti e separazioni continue contornata dalla fama e dallo sfarzo e narrata con brio ed eleganza; come Maria Braun, Willie è la Germania, che reduce dallo smacco della disfatta della Grande Guerra cerca un riscatto dalla forma di svastica. Willie è un personaggio a-morale, che non si fa remore nell'usare i gerarchi nazisti pur di arrivare alla fama, proprio come avvenuto nella realtà con l'attore Gustaf Grundgens, la cui parabola di dannazione artistica fu portata su schermo lo stesso anno da Istvàn Szabò in "Mephisto". Eppure, a differenza del Hendrik Hoefgen del film di Szabò e della Maria Braun del primo capitolo della tetralogia, Willie ritrova una forma di morale, personale e nazionale, nell'amore per Robert, per l'ebreo, ossia per il perseguitato; moralità che ha la forma della collaborazione con la resistenza tedesca, il cui leader Weissenborn è interpretato dallo stesso Fassbinder e che qui trova una delle rare rappresentazioni filmiche; la lotta per la propria coscienza è però una battaglia persa: Willie accetta passivamente le lusinghe dei generali e i regali dello stesso Fuhrer, tra cui spicca una casa totalmente bianca, perfetta contro-metafora del lerciume interiore del personaggio. Lo scontro tra i due opposti diviene così duplice metafora: da un lato della psicologia schizofrenica del personaggio, dall'altro delle forze opposte ed inconciliabili che strisciavano nella Germania nazista; opposizione che prende anche la forma dello scontro tra arte e dittatura: laddove "Lili Marleen" viene ostracizzata e censurata dalle autorità, è il popolo che ne canta i versi con passione, prova di come nessun impeto autoritario possa snaturare la forza espressiva presente in ogni opera d'arte.


Ed è nella rappresentazione "fisica" delle forze opposte che il film riceve le critiche più aspre; se Fassbinder azzecca la descrizione dei gerarchi delle SS come degli scimmioni ottusi e vanesi (fatto salvo il solo personaggio di von Stehlow, unico barlume di ragione in mezzo alla follia, il quale arriva finanche ad aiutare la protagonista nella sua attività sovversiva), di sicuro non trova nella rappresentazione della resistenza ebraica una forma espressiva adeguata; almeno stando alle attestazioni della "critica bene", la quale gli rimprovera di aver tratteggiato il suo Weissenborn come un losco gangster, piuttosto che come un leader carismatico; critiche fondate? Natuaralmente no; anche se il loro "capo" viene si descritto come un individuo laido e perennemente immerso nella notte, l'empatia dell'autore verso i ribelli è da ricercare nella complessità con cui tratteggia tutti gli altri personaggi; dapprima Robert, impersonato da uno splendido Giancarlo Giannini, che per amore è pronto a tutto tranne che a tradire la sua causa; suo fratello Aaron, che in barba ad ogni diplomazia fa letteralmente saltare in aria un gruppo di gerarchi perchè, letteralmente, "di loro non ci si può fidare!"; loro padre David, figura machiavellica, in grado di manipolare i sentimenti del figlio per la salvezza del suo popolo; senza dimenticare i tedeschi "non-giudei", rappresentati da Anna e da suo figlio, la vittima sacrificale mandata costantemente al fronte; e la descrizione "losca" di Weissenborn è, in fin dei conti, nient'altro che la metafora dell'aggressività intrinseca dell'impulso di sopravvivenza, che porta gli oppressi a trasfigurarsi in personaggi solo virtualmente malvagi, la cui genuinità interiore si scontra con l'ipocrisia di Willie, la "sopravvissuta" che per rimanere nell'agio cede la propria anima; e non per nulla è lo stesso Fassbinder a perdersi dietro gli occhiali scuri e l'impermeabile di pelle del "gangster ribelle", regalandogli anche un tocco di ironia, prova di come le accuse di nazionalsocialismo rivoltegli all'epoca fossero infondate, benchè da egli stesso foraggiate.


Personaggio onnipresente è la guerra, evocata in rapide immagini del fronte la cui crudezza è fulgida nonostante la forte carica spettacolare; la guerra è vista da Fassbinder come un massacro di persone senza volto, spesso accomunate dalla sola appartenenza allo stesso campo di battaglia a prescindere dalla loro divisa, i cui unici momenti di felicità, o quanto meno di leggerezza, sono date dalle note, calde e nostalgiche, della canzone, che unisce i soldati di ogni latitudine e, nell'ultimo atto, di ogni fazione.


Guerra che porta alla disintegrazione totale di ogni ambizione e di ogni sentimento; con il procedere della narrazione, che copre tutti e sei gli anni della Seconda Guerra Mondiale, quella di Willie diviene parabola discendente, che la porta dalle stelle alle stalle; il suo "patto con il diavolo" le garantisce il successo durante la dittatura, ma al crepuscolo della stessa anche lei si ammala, canta le celebri note che l'hanno resa famosa senza enfasi e senza forze, per poi ritrovarsi soppiantata dal suo ormai ex-amante, in un passaggio di testimone che ben simboleggia la rinascita della nazione.


E se già la storia in sé fu, per l'epoca, foriera di fraintendimenti, lo stile che Fassbinder adotta per la narrazione rese il film definitivamente indigesto ai critici più conservatori. Assimilata la lezione sulle cromature espressive  di Sirk, il grande autore bavarese la rielabora in chiave moderna esasperandola fino al barocchismo: la fotografia gioca tutto sui contrasti forti di colori caldi, come il rosso acceso ed il blu intenso, o tra tonalità più fredde virate al neon, come i rosa e i verdi; il risultato è spettacolare ed ammaliante, perfettamente contrapposto alle crude sequenze di battaglia, ma di sicuro non può non essere definito "barocco"; termine che calza a pennello, visti gli esperimenti che Fassbinder aveva già portato avanti in "Berlin Alexanderplatz" e che, fortunatamente, riesce a non far scadere nel kitsch (a differenza di quanto accadrà nel successivo "Querelle de Brest"). Fotografia sublime che fa il palio con un montaggio serrato, che il grande autore questa volta esaspera fino al punto di frammentare ogni singola scena in pochissime inquadrature, molte delle quali della durata di pochi secondi, per imprimere alla narrazione un ritmo scostante e sfalsato rispetto ai tempi della storia. Chiude il cerchio della ricercatezza stilistica, la "sublime ossessione" dell'autore per la profondità dell'immagine, che qui raggiunge vette maniacali: ogni singola inquadratura è sporcata da riflessi, scenografie e linee geometriche volte a centuplicarne lo spessore visivo, creando un effetto affascinante ed elegante.


Eccessivo e roboante nello stile, ma al contempo sinuoso e ricercato, "Lili Marleen" è l'apripista dell'ultima fase della carriera del grande autore tedesco; interessante per la storia, per la caratterizzazione dei personaggi, per l'elaborazione delle metafore e visivamente ammaliante, è sicuramente una delle sue pellicole più scostanti, ma non per questo una delle peggiori.

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