lunedì 30 giugno 2014

Memories Burn Bright- Marlon Brando, dieci anni dopo




1 luglio 2004: si spegne Marlon Brando, il più grande attore della Storia del Cinema; nel silenzio della sua vita privata, dopo un abbandono graduale degli schermi dovuto alla depressione e a forti tragedie familiari, se ne va in silenzio, quasi ignorato dalla stampa specialistica e non. Divo onnipotente, attore corteggiato dai registi e venerato dai fans, uomo distrutto dalla vita e dagli eccessi, Brando è stato una vera e propria istituzione del cinema americano, del quale ha attraverso tre epoche, imponendosi come pilastro insindacabile del metodo recitativo.

Uomo dal carattere difficile, scontroso, definitivamente umorale; Brando era solito passare  repentinamente dalla serenità più spensierata all'introspezione più cupa. Fortemente provato da un'infanzia non facile e da un'adolescenza avventurosa, aveva il carattere perfetto per l'applicazione del metodo Stanislavskji-Strasberg, che portò ad un livello di drammaticità all'epoca inconcepibile; "metodo" che ridefinì totalmente sin dagli esordi teatrali post-Actor's Studio e che lo impose come l'incarnazione perfetta di una nuova generazione di attori, i quali non mimavano più le emozioni, ma le vivevano sul palco assieme ai personaggi e al pubblico. Stile che portato al cinema ebbe effetti dirompenti: prima di lui nessun attore riuscì ad incidere le sue emozioni su pellicola in modo così vivido e vibrante, a bucare lo schermo per colpire lo spettatore al cuore e alla mente.

Dotato di un carisma inarrivabile, Brando fu anche icona di stile e sex symbol, sogno per le donne e modello di riferimento per gli uomini; ma nonostante la fama, non dimenticò mai il suo lato umano, che anzi sembrava perseguitarlo sempre di più con l'avanzare degli anni; militante della prima ora per l'indipendenza di Israele negli anni '40, apripista nelle marce per i diritti umani degli anni '60, arriva finanche a farsi sparare durante la notte degli Oscar nel '73 per evitare che la polizia espropri le terre di una riserva indiana; impegno pubblico che faceva il palio con una vita privata burrascosa: tre matrimoni, una serie di figli avuti con estranee, il ritiro su di un isola tropicale acquistata appositamente per fuggire dalla società consumistica, da lui ritenuta falsa e ipocrita; e l'ostilità verso chiunque lo venerasse o lo trattasse con rispetto, che gli costò l'amicizia del regista Francis Ford Coppola. Depressione che sfociò anche nella trasfigurazione fisica: l'obesità dovuta ad un appetito insaziabile, volto a colmare un vuoto interiore senza fine.

Oggi, dieci anni dopo la sua scomparsa, è doveroso rendere omaggio ad un uomo che ha dedicato tutta la sua vita all'Arte; e il modo migliore per farlo è ripercorrere i fasti della sua gloriosa carriera.



1951- UN TRAM CHE SI CHIAMA DESIDERIO




Dopo l'esordio sul Grande Schermo con "Il Mio Corpo ti Appartiene" (1950) di Zinnemann, Brando si riunisce con il regista Elia Kazan e porta su schermo la pièce di Tennessee Williams che li aveva già resi celebri a Broadway; coadiuvato da Karl Malden (che poi sarà al suo fianco in molte delle sue successive pellicole), da Kim Hunter e da Vivien Leigh (unica aggiunta al cast per la sola versione filmica), Brando dà vita ad uno dei suoi personaggi più celebri: Stanley Kowalsky.
Perfetto mix di violenza e fragilità, Kowalsky è il maschio alfa, un uomo totalmente incapace di sentire i sentimenti altrui, ma che prova un fortissimo sconforto interiore; affascinante e al contempo agghiacciante, Brando crea per il suo personaggio un look che farà storia: jeans e t-shirt.






1952- VIVA ZAPATA!



Dal carattere indomito e anticonformista, Brando si cala totalmente nei panni di Emiliano Zapata, il leader dei rivoltosi messicani in lotta contro l'oppressione dei padroni; coadiuvato da un esordiente Anthony Quinn (che vinse l'oscar), il grande attore, dalle ataviche origini tedesche, si dimostra più che credibile come messicano, regalando una performance forte ed incisiva.






1953- GIULIO CESARE



  
Jospeh L.Mankiewicz dirige uno splendid adattamento della più "politica" tra le opere di Shakespeare; Brando è Marc'Antonio, figlio putativo di Cesare che si rifiuta di accettarne l'omicidio; il monologo al popolo romano è semplicemente da brividi.






1953- IL SELVAGGIO



Brando avrebbe voluto fare un film sulla ribellione giovanile dichiaratamente a favore dei ragazzi "scapestrati", che desse voce al loro malessere e cercasse di comprenderne le cause; gli autori volevano invece un semplice film di cassetta da dare in pasto al pubblico affamato di star, motociclette e storie d'amore impossibili; il risultato è una pellicola trascurabile, nel quale però il grande attore crea un'altro look destinato a fare storia: cappello e chiodo; divertente ancora oggi lo scontro con un allora esordiente Lee Marvin.






1954- FRONTE DEL PORTO



Per la terza volta diretto da Elia Kazan, Brando vince il suo primo oscar come miglior attore; sul set gli scontri tra i due erano all'ordine del giorno: il grande regista era stato costretto a collaborare alla "caccia alle streghe " indetta da McCarhty e Nixon, rovinando la carriera di molti autori della vecchia Hollywood; Brando, come al solito dalla parte dei più deboli, arrivò persino a minacciarlo di morte. Il risultato fnale è una pellicola stramba, nella quale le ambizioni "neorealiste" di Kazan si scontrano con le esigenze dello spettacolo, creando un noir "proletario" di sicuro fascino.






1958- I GIOVANI LEONI

  

Edward Dmytryk crea un perfetto spaccato della II Guerra Mondiale, dando voce tanto alle Forze Alleate quanto ai Nazisiti; a Brando spetta il compito più arduo: interpretare un ufficale della Wehrmacht che scopre suo malgrado tutti gli orrori della guerra; ruolo che all'epoca non mancò di generare scandalo.






1960- PELLE DI SERPENTE



Di nuovo nei panni di un personaggio di Tennessee Williams, Brando viene affiancato dal regista Sydney Lumet ad un'altra grande star dell'epoca: Anna Magnani; tuttavia la coppia non funziona a dovere, colpa anche di uno script prevedibile e stereotipato; l'unica collaborazione tra i due mostri sacri merita comunque una visione; e la sua giacca di pelle di serpente, neanche a dirlo, ha fatto epoca.






1961- I DUE VOLTI DELLA VENDETTA



Brando voleva Kubrick alla regia; dopo una prima fase di pre-produzione, il grande regista dovette però abbandonare il progetto, che fu poi portato su schermo direttamente dall'attore; la sua (purtroppo) unica prova da regista è un western di 2 ore e 20 minuti nel quale fa confluire una ricerca psicologica inedita per gli standard dell'epoca; una storia di vendetta e redenzione dura e interessantissima, che Brando costruisce su misura per sè stesso e per l'amico Karl Malden.






1966- LA CACCIA



La vecchia Hollywood è ormai al declino; una nuova generazione di autori sta per rifondarla sulle istanze del cinema europeo; la carriera di Brando attraversa un periodo di stanca, nel quale però brillano il western "A Sud-Ovest di Sonora" (1966) e sopratutto "La Caccia", terzo film del maestro Arthur Penn; il grande attore è qui Calder, sceriffo di una piccola cittadina del sud; la fuga di un giovane detenuto (Robert Redford, per la prima e unica volta affianco a Brando) rivela l'ipocrisia e il lerciume nascosto sotto la patina di perbenismo imperante; solo Calder sembra voler continuare ad incarnare gli ideali di civiltà e onore ormai tramontati e per farlo dovrà scontrarsi contro l'ottusità dei suoi concittadini.





1969- QUEIMADA

  

Gillo Pontecorvo firma  un interessante apologo sui corsi e ricorsi della Storia; Brando è William Walker, agente della corona inglese chiamato a fomentare una rivolta sull'immaginaria isola di Queimada (letteralmente "bruciata"), in modo che i coloni portoghesi siano scacciati dagli indigeni; dieci anni dopo, Walker è costretto suo malgrado a sedare le rivolte degli ex ribelli contro i nuovi padroni inglesi.





1972- IL PADRINO




Il 1972 è l'anno della rinascita artistica; Brando partecipa ai due più grandi successi della stagione: "Il Padrino" e "Ultimo Tango a Parigi", creando due performances perfettamente speculari. Diretto da un semiesordiente Francis Ford Coppola e basato sul romanzo omonimo di Mario Puzo, "Il Padrino" è una delle pellicole apripista della New Hollywood e Brando inaugura con esso la seconda giovinezza della sua carriera.
Don Vito Corleone è il suo personaggio più famoso, divenuto in brevissimo tempo un'icona del Settima Arte e della cultura popolare, la cui intensa interpretazione gli valse un oscar rifiutato per motivi politici; Brando dà vita al vecchio patriarca rispolverando tutto il repertorio dell'Actor's Studio: trucco pesante per invecchiare di venti anni, cotone in bocca per ingrandire la mascella, voce stridula e rauca; Vito Corleone è un gangster vecchia scuola che si confronta con la nuova generazione idealmente incarnata dal figlio Michael, il cui volto è quello di Al Pacino, perfetto simbolo della nuova generazione di attori americani formatisi presso l'Actor's Studio post-Brando.






1972- ULTIMO TANGO A PARIGI



Il film scandalo degli anni '70, che valse a Brando e Bertolucci finanche una condanna da parte del tribunale di Bologna per "pornografia e oscenità". Brando dà vita ad un personaggio unico, un uomo distrutto dal dolore per il tradimento e la perdita del suo unico vero amore, che crede di poter ridurre il rapporto uomo-donna alla sola carnalità; il suo Paul vive di reminiscenze personali, improvvisazioni sul set e intuizioni dell'ultimo minuto; il risultato è la sua performance più viva, toccante ed empatica, nella quale si confessa dinanzi allo stesso spettatore.





1976- MISSOURI



Nel western crepuscolare di Arthur Penn Brando è Lee Clayton, cacciatore di taglie spavaldo e vanesio incaricato di catturare il ladro di cavalli Tom Logan; divenuto oramai una leggenda dello Schermo, il grande attore rivaleggia con l'amico Jack Nicholson in una gara di bravura tra istrioni senza esclusioni di colpi.






1978- SUPERMAN



Da leggenda a Mito: in 20 minuti scarsi, Brando divora il film e si impone nuovamente come perfetta incarnazione patriarcale. Il monologo al piccolo Kal-El, scritto da Mario Puzo, è epica attoriale allo stato puro.






1979- APOCALYPSE NOW



Diretto nuovamente da Francis Ford Coppola, ma questa volta con un metodo opposto rispetto a "Il Padrino"; un Brando invecchiato e stanco si diverte sul set a dare filo da torcere ad un regista sull'orlo del suicidio; improvvisa totalmente la parte, recita le poesie di Eliot e inventa monologhi sull'orrore; il suo Kurtz diviene così un personaggio più grande del film, un uomo fattosi demone pienamente cosciente del Male che sparge per il mondo, dallo sguardo fosco e penetrante, eppure talmente umano da muovere all'empatia totale. Al di là di ogni metodo, Brando scavalca ogni possibile definizione e si impone definitivamente come migliore attore della Storia del Cinema.






1997- IL CORAGGIOSO

 

Dopo anni relegato in piccoli ruoli o in piccoli film, prima di terminare la sua carriera con il mediocre "The Score" (2001) ed il doppiaggio del videogame ispirato a "Il Padrino" nel 2006, Brando regala al pubblico un ultima, memorabile interpretazione; nel dimenticabile esordio alla regia di Johnny Depp (con il quale già aveva lavorato tre anni prima in "Don Juan DeMarco-Maestro d'Amore), Brando interpreta un produttore di snuff movies vecchio e disilluso, un mostro sfatto e ripugnante modellato sul Kurtz di "Apocalypse Now"; una scena che da sola vale la visione dell'intero film.





EXTRA

Quando si parla di attori o recitazione, l'argomento del doppiaggio è quasi sempre un tabù: vituperato ad oltranza, ostracizzato dai cinefili più radical chic e detestato in molti ambienti professionali; una cosa è certa: i doppiatori, per molti attori, sono la morte dell'arte.
Per molti, ma non per tutti; e di fatto, Marlon Brando, il più grande attore della Storia, più vantare anche un'ulteriore record tutto italiano: l'essere stato doppiato dai migliori doppiatori che il nostro cinema abbia conosciuto. Il suo doppiatore abituale era Giuseppe Rinaldi, voce storica di anche di Paul Newman e Jack Lemmon, la cui tonalità calda donava un carisma ulteriore alla fisicità di Brando. Mentre Sergio Fantoni diede vita alla versione italiana di Kurtz, infondendo al personaggio un magnetismo ed una carica epica ancora maggiore.





sabato 28 giugno 2014

Jabberwocky

di Terry Gilliam

con: Michael Palin, Max Wall, Deborah Fallender, Terry Gilliam, David Prowse, Warren Mithcell, Terry Jones, Simon Williams, Annette Badland.

Commedia/Fantastico

Inghilterra (1977)














Raccontare l'immaginazione; nessun autore è riuscito in tale intento con la stessa forza di Terry Gilliam, geniale regista di origine americana, europeo di adozione; personaggio già di suo alquanto strambo: fuggito in Inghilterra per evitare la chiamata alle armi per il Vietnam, si unisce ad un gruppetto di giovani talenti comici all british, ossia Michael Palin, John Cleese, Graham Chapman, Terry Jones e Eric Idle; nascono così i Monty Python, il gruppo comico più genuinamente dissacrante e distruttivo che mente umana ricordi; con il loro humor perennemente sopra le righe e dotato di una carica demenziale irresistibile, i sei ragazzacci furoreggiano per anni nella televisione inglese, finchè nel '75 non compiono il grande passo verso il grande schermo: "Monty Python e il Sacro Graal", rilettura fuori controllo e acida del mito arturiano, codiretto da Gilliam e Jones.


Ma l'immaginario di Gilliam non si ferma alla mera distruzione della tradizione epica e fantastica; il suo ideale narrativo è ben più ambizioso: narrare la forza salvifica e vitale dell'immaginazione, capace di sovvertire ogni ordine costituito e asfissiante e salvare il singolo dal destino avverso; un ideale troppo ambizioso per poter essere circoscritto ai pur geniali sketch dei Monty Python; ecco perchè a partire dal 1977 Gilliam intraprende una florida carriera di regista "solista", nel quale svilupperà la sua tematica in ogni accezione e declinazione possibile; e che tra alti e bassi, progetti rinviati o cancellati, colpi di fortuna e veri e propri cataclismi fantozziani, lo incoronerà come il vero e unico visionario di Hollywood, la cui carica dissacrante non si è mai stemperata, nè acuita a causa di compromessi o rinunce di sorta.


"Jabberwocky" è di fatto il suo esordio come regista: una rilettura divertita dell'omonimo poema di Lewis Carroll sul mostro che terrorizza un placido regno medioevale; nel portare in scena il mito di partenza, Gilliam è però ancora fortemente ancorato alle logiche demenziali dei Monty Python: piuttosto che creare una narrazione seria ammantata da un umorismo acido, come farà già a partire dalla sua pellicola successiva, "I Banditi del Tempo" (1981), l'autore riprende gli stilemi del precedente "Sacro Graal" e crea una vera e propria parodia demenziale dei miti cavallereschi e medioevali; il suo stile è ancora acerbo e lo scarsissimo budget a disposizione (inferiore persino a quello del film precedente) rende a tratti la visione più ridicola che ironica, come nell'ultimo atto, dove l'incapacità di rendere credibile il mostro fa vacillare la sospensione dell'incredulità.


Eppure, già in questo stralunato esordio sono presenti i semi di quella che sarà la sua poetica successiva; il protagonista Dennis (interpretato dal collega e amico Michael Palin) è l'archetipo dell' "eroe" gilliamiano: un ragazzo alienato rispetto al mondo in cui vive; un giovane uomo privo di ambizione, più intelligente rispetto alla media dei suoi paesani, le cui qualità non vengono però apprezzate; e che, suo malgrado, si ritroverà coinvolto in un gioco molto più grande di lui dal quale si salverà per puro miracolo. Dennis non è un eroe, non è un cavaliere uccisore di mostri, nè un pavido scudiero: è semplicemente l'incarnazione della "masserizia" medioevale, un uomo che cerca di massimizzare il profitto, di ottenere un lavoro stabile e di sposare la bruttissima, ma ricca Griselda, della quale è follemente innamorato; Dennis è, in sostanza, l'ideale opposto del Sam Lowry di "Brazil" (1985): un ragazzo che vive in un mondo arcano e fantastico, ma che si rifugia nella ragione per sfuggirvi; il trionfo finale contro il mostro, la celebrazione della vittoria e il "furioso" matrimonio con la bellissima principessa divengono così un contrappasso, una ideale e ironica punizione verso i suoi ideali di vita, schiacciati, già in questo esordio, da una società bieca e chiusa in sè stessa.


Lo spirito goliardico di Gilliam si disvela al meglio nella caratterizzazione dei personaggi secondari: dai regnanti folli e "pezzenti" ai penitenti dementi, passando per il vescovo gettato nel letame; e soprattutto nella descrizione dissacratoria dei cavalieri "senza macchia e paura": un gruppo di idioti dementi privi di raziocinio, ridotti a "carne in scatola" per l'orripilante Jabberwocky. Lo humor è qui ancora fortemente ancorato agli archetipi dei Monty Python e ancora lontano dall'amarezza che lo renderà celebre in futuro, ma riesce comunque a colpire nel segno.


E la forza visionaria dell'autore si disvela in tutta la sua potenza nel bellissimo prologo, nel quale Gilliam anticipa di cinque anni le intuizioni estetico-stilistiche di Sam Raimi e crea una splendida soggettiva del mostro che corre per i boschi e divora la sua vittima, in un tripudio di virtuosismo e ironia che ben anticipa il brillante futuro dell'autore.

martedì 24 giugno 2014

I Duellanti

The Duellists

di Ridley Scott

con: Keith Carradine, Harvey Keitel, Edward Fox, Tom Conti, Albert Finney, Cristina Raines, Diana Quick, Gay Hamilton, Meg Wynn Owen.

Drammatico/Storico

Inghilterra (1977)













Guardando pellicole come "The Counselor", "Le Crociate" o "Hannibal" sembrerebbe impossibile, ma vi fu un tempo un cui Ridley Scott era un autore vero, dotato di uno stile personale e in grado di creare due delle pellicole più influenti di sempre: "Alien" (1979) e "Blade Runner" (1982); visionario, esteta fin nel midollo, in grado di creare immagini potenti e raffinatissime, sperimentatore nell'uso del montaggio e anticipatore di tendenze future, Scott fu uno degli artisti di punta del cinema americano degli anni '80; nel corso del tempo la sua carica visionaria e l'eleganza eststica si sono stemperate e adagiate sui canoni hollywoodiani più popolari, in particolare sulle istanze del cinema-videoclip di Michael Bay, che pure ha pesantemente influenzato la (ben più mediocre) produzione di suo fratello Tony; ha smesso di sperimentare, di rischiare nuove possibilità tecniche, narrative e visive e si è ridotto ad un mediocre mestierante, ricordato esclusivamente per i cult del passato; ma nel 1977, a seguito del successo del suo esordio "I Duellanti", vincitore del Gran Premio della Giuria di Cannes, Scott era una delle migliori promesse del cinema europeo.


Strasburgo, 1800; Gabryel Feraud (Harvey Keitel) è un ufficiale degli ussari di Napoleone ligio al codice d'onore cavalleresco; dopo aver ucciso un rivale in duello, Feraud viene ripreso dal suo ufficiale per il tramite del giovane soldato Armand D'Hubert (Keith Carradine); l'umiliazione subita per il richiamo all'interno del salotto della ricca Mademoiselle Leonie (Meg Wynn Owen) è la scusa perfetta per imbastire un duello d'onore con D'Hubert, che si protrarrà ironicamente per quindici anni.


Il punto di riferimento dell'estetica scottiana è qui altissimo: il "Barry Lyndon" (1975) di Stanley Kubrick, con il quale in quegli anni stringeva una lunga e proficua amicizia; dal capolavoro del grande regista Scott riprende l'idea di un film in costume come perfetto spaccato di un'epoca, ma anche e sopratutto lo stile, sia nella messa in scena che nella fotografia, curata da un allora esordiente Frank Tidy, già suo collaboratore in televisione. Scott immerge ogni figura in chiaro-scuri nettissimi, colori caldi per gli interni e freddi per gli esterni; gioca con la luce come un vero e proprio pittore, inaugurando un'estetica dell'illuminazione che sarà il suo marchio di fabbrica per buona parte della sua filmografia a venire; nella messa in scena, d'altro canto, eccede con le carrellate all'indietro kubrickiane, a disvelare la natura puramente derivativa del suo stile, che si fa vero e proprio richiamo nella scena in cui introduce il personaggio della moglie di Feraud: interpretata dalla bellissima Gay Hamilton, già interprete di "Barry Lyndon", che Scott mostra con un primissimo piano come a volerla sventolare in faccia al pubblico in modo trionfale; il risultato è a tratti indigesto: troppo compiaciuto e barocco, ai limiti del tronfio.


Eppure le immagini sono sempre ipnotiche, perfette nella composizione anche nelle dinamiche scene di duello, girate tutte con camera a mano come nel capolavoro di Kubrick; ogni singolo incontro tra i due antagonisti ha un suo stile e trasuda tensione da ogni fotogramma: la prima scaramuccia, volutamente piatta e lenta, il furioso scontro nel granaio, dove le due figure si inseguono fino allo sfinimento, il magnifico confronto a cavallo, in cui Scott introduce flashback e flashforwrd spezzando la linearità del racconto, introducendo una forma di montaggio strettamente narrativa che da qui in poi avrebbe fatto scuola; fino all'ultimo magnifico incontro, un anticlimax intenso e onirico che anticipa di cinque anni lo splendido inseguimento finale di "Blade Runner" (1982). Ed è proprio nel montaggio che Scott si fa notare: spezzato, ai limiti del frammentario, usato per centellinare la tensione ed isolare ogni singola scena in uno spazio-tempo unico e rarefatto; l'uso improvviso degli stacchi e degli attacchi nel mezzo della scena, volti ad infrangerla per creare tensione drammatica, fa qui il suo esordio e toccherà l'apice massimo già nel successivo "Alien".


Ma l'opera prima di Scott non è semplice estetica, quanto un trattato ironico e preciso dello scontro tra due figure speculari; Gabryel Feraud è un soldato vecchia maniera, il cui onore è ragione di vita; come introduce la voce narrante "per un soldato l'onore è un ossessione" e Feraud è la personificazione di questa istanza; vive per servire il proprio orgoglio e gioisce nell'umiliare i suoi avversari; privo di scrupoli e ripensamenti, Feraud è la tradizione militaresca napoleonica fatta carne, una figura ormai prossima all'estinzione che trova nel confronto con il suo rivale un ulteriore motivo di affermazione; ed Harvey Keitel dona al personaggio una carica austera a tratti insostenibile, incarnando perfettamente il rigore folle del suo personaggio. D'altro canto D'Hubert incarna la nuova generazione si soldati, più duttile e meno legata ai dogmi del codice cavalleresco e di conseguenza più razionale; Keith Carradine si dimostra perfetto nelle vesti del soldato suo malgrado costretto a combattere e ad ottenere fama e gloria dagli inutili scontri con il rivale; il lungo duello così diviene scontro ideale tra bieca tradizione e modernità conscia dell'inutilità dei vecchi dogmi.


Ed è la tradizione a venire battuta al suo stesso gioco: distrutta ed umiliata secondo le regole cavalleresche e forzata ad accettare la sconfitta, ossia privata persino di una morte onorevole; Feraud diviene nel finale l'incarnazione dell'età napoleonica: lo scontro si conclude nel 1816, ossia due anni dopo il Consiglio di Vienna, e il personaggio viene trasfigurato in un doppio dell'imperatore; umiliato e sconfitto, non gli resta che mettersi in disparte, ritirarsi ed ammirare un mondo al tramonto, in un immagine splendida, che da sola vale la visione dell'intera pellicola.


Magnifica è anche la ricostruzione d'epoca, con costumi e location perfettamente ricercati e valorizzati dalla regia pittorica e attenta ad ogni dettaglio; "I Duellanti" è, in sostanza, un quadro semovente, un dipinto d'epoca rarefatto ed affascinante, un esordio che sorprende ancora maggiormente se si tiene conto del budget ridicolo con cui è stato girato: appena 900.000 dollari dell'epoca.

martedì 17 giugno 2014

Oculus- Il Riflesso del Male

Oculus

di Mike Flanagan

con: Karen Gillan, Brenton Thwaites, Katee Sachoff, Rory Cochrane, Garret Ryan.

Thriller/Horror

Usa (2013)














In un momento in cui l'horror gotico attraversa un periodo di stanca, volto alla riproposizione ad oltranza di modelli classici ormai logori, è piacevole vedere come un giovane regista riesca a dire qualcosa se non di nuovo, quanto meno di interessante usando come modello di riferimento una pellicola archetipica, citata e omaggiata, ma di fatto poco "saccheggiata": "Shining" di Kubrick; riprendendo il canovaccio di base del capolavoro del 1980, oltre che all'intrecciarsi di suggestioni sovrannaturali e indagine psicologica e l'intersecazione dei piani temporali, Mike Flanagan trasforma così un suo cortometraggio del 2006 in una piccola ma piacevole pellicola di genere.


Dopo aver passato dodici anni in un ospedale psichiatrico per l'omicidio del padre uxorcida (Rory Cochrane), il ventitreene Tim Russell (Brenton Thwaites) si ricongiunge con la sorella Kaylie (Karen Gillan), la quale è intenzionata a dimostrare come la follia del genitore fosse in realtà stata scatenata da uno specchio maledetto da egli posseduto.


Quello di Flanagan non è né un omaggio, né una ripresa totale del registro kubrickiano, quanto una sua rielaborazione; la carta vincente di "Oculus" non risiede né nella trama (a dir poco trita), né nel meccanismo della tensione (che presenta tutti i clichè del caso), bensi nello stile; la sovrapposizione tra i piani narrativi è semplicemente perfetta: flashback e racconto si intrecciano alla perfezione, in un gioco di incastri fatto di montaggi paralleli e alternati e stacchi temporali improvvisi e spiazzanti; il racconto si snoda alla perfezione e lo stile narrativo diviene vera e propria narrazione nell'ultimo atto, dove la sovrapposizione dei piani temporali si fa ancora più serrata.


L'abilità di Flanagan risiede anche nella perfetta elaborazione del racconto: per tutta la durata della pellicola il punto di vista resta quello, duplice ma di fatto unico, dei fratelli Russell, sul doppio piano temporale della loro giovinezza ed età adulta; inizialmente la caratterizzazione dei due è opposta: Tim è razionale e scettico verso la possibilità di una ragione sovrannaturale per il massacro, mentre Kaylie rappresenta con piena convinzione la tesi "demoniaca" ed è pronta a dimostrarla in modo oggettivo; man mano che le manifestazioni si fanno più pressanti la differenza tra i due si appiana del tutto e l'intera storia diviene un incubo ad occhi aperti, in cui solo i mezzi di registrazione (le telecamere usate per testimniare l'esperimento con lo specchio) riescono a percepire la realtà effettiva; ma il divario tra incubo e realtà è sempre sapientemente celato: si è sempre indotti a dubitare di ciò che accade nella casa e di ciò che vi è accaduto in passato; il racconto della giovinezza dei Russell è viziato, per loro stessa ammissione, dallo shock subito e per questo non attendibile; è lo spettatore, dunque, a doversi interrogare sull'effettiva natura dei fenomeni: fantasmi o allucinazioni dovute allo stress post-traumatico? Rifacendosi così allo schema di un altro grande classico dell'horror moderno, "Rosemary's Baby", Flanagan si prende una rivincita sulla moda del found-footage e sulla loro presunta "messa in scena perfettamente oggettiva", affidando il racconto non all'occhio meccanico, ma a quello, fallace e distorto, dei due ragazzi; e a differenza di Polanski, non cede nemmeno nel finale, lasciando lo spettatore in preda al dubbio su quanto si sia effettivamente visto.


E se la tensione talvolta latita e i modelli del gotico baviano talvolta si riaffacciano prepotenti (la casa isolata, il terrore familiare) togliendo parte dell'originalità, "Oculus" ha quanto meno il merito di non annoiare, anche grazie alle sapienti incursione nel body-horror, con unghia strappate e pezzi di vetro masticati per sbaglio; e sopratutto grazie al cast, dove le due (bellissime) attrici televise Karen Gillan e Katee Sachoff dimostrano doti attoriali inedite e sorprendenti.

giovedì 12 giugno 2014

Salò o le 120 giornate di Sodoma

di Pier Paolo Pasolini

con: Paolo Bonacelli, Giorgio Cataldi, Umberto Paolo Quintavalle, Aldo Valletti, Caterina Barotto, Elsa de Giorgi, Helene Surgere, Ines Pellegrini, Sergio Fascetti, Giuliana Melis, Fardiah Malik.

Italia, Francia (1975)
















La notte tra l'1 e il 2 novembre 1975, sulla spiaggia di Ostia, Pier Paolo Pasolini viene linciato da un gruppo di ragazzi appartenenti all'estrema destra extraparlamentare e successivamente ucciso da Pino Pelosi, giovane appartenente al sottoproletariato romano, lo stesso che il grande artista descriveva nei suoi "Ragazzi di Vita"; stroncato in maniera atroce e vigliacca, Pasolini lascia ai posteri come suo precoce testamento poetico e spirituale "Salò o le 120 giornate di Sodoma", la sua opera più genuinamente provocatoria, feroce e spiazzante, foriera di scandali ed incomprensioni, ma anche pregna di significati e riflessioni tutt'ora urgenti.




Tratto da "Le 120 Giornate di Sodoma" del Marchese De Sade; nel 1944, a Salò, quattro potenti, un Duca (Paolo Bonacelli), un Magistrato (Umberto Quintavalle), un Presidente (Aldo Valletti) ed un Vescovo (Giorgio Cataldi), siglano un accordo: sposare le reciproche figlie per rinsaldare il proprio potere e ritirarsi in una villa di Marzabotto per dedicarsi ai piaceri più bassi e lascivi; sequestrati nove ragazzi e nove ragazze (due dei quali moriranno nei primissimi minuti) tutti di umili origini, aiutati da quattro repubblichini coartati tra gli strati più bassi della società, quattro giovani fascisti e quattro megere (tutte ex prostitute), i quattro si abbandonano a riti orgiastici e sadici verso i giovani, senza remore né limiti.




Abbandonato ogni compromesso estetico e visivo, Pasolini crea la sua opera più esplicita e violenta, ancora più cristallina nelle metafore rispetto ai quattro film del Ciclo del Mito, un puro impeto di rabbia in immagini. "Salò" è l'inferno in Terra; la Trilogia della Vita si era conclusa appena un anno prima, con il trionfo della gioia e dell'amore nel finale dello splendido "Il Fiore delle Mille e una Notte"; ora comincia la (purtroppo mai completata) Trilogia della Morte, di cui "Salò" è al contempo prologo ed epilogo. Non vi è gioia nel sesso, non vi è esaltazione nella carnalità: il corpo diviene il supremo strumento di tortura, perfetto mezzo per infliggere dolore e ricevere piacere. La divisione tra vittime e carnefici è netta: da un lato i quattro potenti, simboli di una classe dirigente pronta a tutto pur di soddisfare le sue voglie; dall'altra i giovani figli del "quarto stato" e dei Partigiani (ossia di coloro che si sono ribellati allo status quo), pura carne da macello da schernire e divorare; in mezzo vi sono tre categorie di figure ancillari al potere: i giovani repubblichini e le camice nere, che si accompagnano spontaneamente ai potenti ricoprendo a seconda dei casi il ruolo di carnefice o partner sessuale, e le megere, le "donne del potere" che dilettano gli uomini con le storie delle loro passate esperienze.




Con Pasolini lo stupro del potere diviene una cerimonia sacrale; una volta entrati nella villa assieme ai personaggi si assiste ad un serie infinita di riti parareligiosi volti all'esasperazione della carnalità più brutale e deviata; la sottomissione sessuale viene perpetrata mediante una serie di rituali precisi e coreografati come una messa blasfema, foriera di una numerologia precisa; il numero 4, emblema dei primi quattro gironi infernali del primo cerchio, dedicato agli "incontinenti" nell' "Inferno" di Dante, ritorna più volte nella pellicola: 4 sono i capitoli in cui è diviso il film (un "antinferno" e tre gironi), 120 giorni, ossia 4 mesi, è la durata del soggiorno a Marzabotto, 4 sono i simboli del potere, 4 sono le meretrici che gli accompagnano, 4 sono i giovani repubblichini e i giovani fascisti, 4 sono le serve nude che presiedono ai banchetti e 16 (ossia 4x4) sono le giovani vittime sacrificali. La cerimonia si svolge secondo un rito preciso: nella "sala delle orge" una megera per ogni girone racconta una serie di rivoltanti episodi che l'hanno vista protagonista in gioventù, al fine di risvegliare i sensi dei padroni; durante il racconto questi possono liberamente abusare di qualsiasi vittima, a prescindere dal loro sesso; durante i pasti, nel refettorio, serve e vittime sono alla mercè, sessuale e non, dei signori e dei loro aiutanti; nell' "ultima stanza" si svolgono i riti più feroci e blasfemi: i matrimoni parodistici, la gara di deretani e la degradazione dell'essere umano a forma animale; nel cortile antistante la villa, in ultimo, si svolge il rituale definitivo: il massacro della carne da macello per la soddisfazione definitiva della libidine più depravata. Quella di "Salò" è in fondo la descrizione di lungo rito satanico, una cerimonia volta a parodizzare l'effetto del potere sulle masse per esplicitarne la carica distruttiva e lo scandalo in esso intrinseco: un potere che non conosce limiti, che non tollera ciò che vi si può opporre e che distrugge tutto per l'appagamento di sé stesso.




E se il potere è prevaricazione; la sodomia e la sottomissione sessuale divengono emblemi di una classe dirigente che crea regole (il regolamento letto all'ingresso della villa) volte a disciplinare la convivenza civile (il soggiorno a Marzabotto) di un numero preciso di persone, che in realtà altro non sono se non un giogo con il quale avvinghiare i più deboli; la supremazia del più forte (il più agiato) sul più indifeso (i meno abbienti) si esplicita nella trasformazione in giocattolo sessuale; supremazia non squisitamente gerontocratica: anche tra i carnefici vi sono giovani, pronti a sostituire i loro maestri/padroni nel finale; quella di Pasolini è in realtà un'accusa universale, non strettamente circoscritta all'Italia fascista, per quanto ad essa perfettamente calzante: è la società stessa ad essere marcia, corrotta fin nelle fondamenta, a prescindere da chi sia al potere; e non per nulla, è la società italiana degli anni '70 ad aver ispirato la profonda sfiducia che l'autore vive nei suoi ultimi mesi di vita: un paese ormai sociologicamente al collasso, dimentico di valori umani o morali, nel quale la massificazione consumistica sta trasformando le persone in oggetti tramite un processo ancora più disumano rispetto a quello del decennio precedente, del famoso"boom economico" descritto sarcasticamente in "Uccellacci e Uccellini" (1966); e non per nulla, la Democrazia Cristiana allora ancora saldamente al potere altro non era se non un'ideale riproposizione di quella stessa classe dirigente che aveva creato la vera Salò, fatta di vecchi fascisti sotto mentite spoglie, grossi imprenditori senza scrupoli, vecchi nobili viscidamente attaccati al potere e chierici collusi con lo Stato.




In tale ottica, la villa diviene ideale cartina di tornasole dell'Italia tutta, governata da un gruppo di fanatici volti all'autocompiacimento le cui atrocità sono accompagnate da battute di scherno e barzellette innocue che ne accentuano la cattiveria; tra di loro non vi è spazio per i sentimenti, se non che per quelli di rabbia e libidine; i quattro "signori della villa" sono dei cani feroci pronti a sbranare le loro vittime e dedite al culto della depravazione; una depravazione che trova tre forme, racchiuse in tre gironi ideali contraltari di quelli danteschi.


 


L'introduzione è l'"Antinferno", prologo girato in esterni e con camera a mano, sulla scorta di un ritrovato gusto neorealista; il contratto tra i potenti viene siglato, viene celebrato il rituale delle nozze incestuose, i repubblichini che affiancheranno i potenti sono raccolti per le campagne e, dal canto loro, si concedono volentieri ai loro signori; le giovani vittime vengono scelte come carne dal macellaio: rapite dalle loro famiglie e denudate di fronte ai padroni per saggiarne la costituzione e la bellezza. All'arrivo alla villa viene letto il regolamento: essi esistono solo per soddisfare le loro voglie, qualsiasi violazione delle regole (compreso il recitare le preghiere) sarà punito con la morte immediata. Le regole sono fissate, le portate del "banchetto" pronte all'uso; non vi è spazio per i dissidenti: chi si rifiuta di sottostare alle regole o cerca di fuggire viene fucilato; l'atto della preghiera, inteso come esplicitazione della forza dello spirito, viene represso: le vittime non hanno anima, sono pura carne da consumo; la negazione di tale status è affermazione di una qualità che il potere non riconosce e per questo deve essere annientato, negato tramite la morte fisica di colui che lo afferma.




Il "Girone delle Manie", introdotto dai racconti della sig.ra Vaccari (Helene Surgere), apre i giochi; si entra nella villa: da qui in poi la messa in scena si fa estrema quanto le immagini mostrate; la pittoricità da sempre propria delle inquadrature pasoliniane qui si fa ancora più plastica e profonda; volti e corpi divengono quadri in movimento, in un tripudio di forme ipnotiche, espressione perfetta della ritualità della carne che in esse vi si consuma. In tale girone rientrano tutte le stramberie più folli ed atroci; i giovani divengono trastulli per la masturbazione, cani a cui viene lanciato il cibo, corpi nudi da frustare alla prima disobbedienza; il cibo che viene loro lanciato serve a sottolinearne la natura animalesca, di bracchetti da compagnia; e lo scherzo dei chiodi nella polenta (una delle scene più genuinamente disturbanti mai concepite), uno scherzo volto alla sottomissione totale; durante il pranzo, una delle camicie nere sodomizza una serva per il puro piacere e a sua volta viene usato come strumento di piacere da parte del Presidente: la sodomizzazione è forma di affermazione della superiorità da parte di chi fa le veci potere, ma anche piacere per chi quel potere lo detiene; il sacramento del matrimonio, fondamento della società stessa, viene schernito in una cerimonia blasfema, nella quale due vittime vengono fatte sposare, ma la cui consumazione viene sottratta dai padroni, riproposizione in chiave moderna dello "Ius Prime Noctis" medioevale: nella privazione dell'autonomia del coito, il potere trova la sua forma più viscerale e scellerata.




Secondo girone, "Girone della Merda", introdotto dai racconti della sig.ra Maggi (Elsa de Giorgi): la coprofagia come sinonimo di una società che si cannibalizza; la classe dirigente produce escrementi, il popolo si ciba di questi escrementi; la merda diviene cibo e motore unico dell'intera civiltà; il dominio del corpo diviene dominio dell'intera funzione biologica: i ragazzi sono chiamati a defecare a comando; il deretano stesso diviene oggetto di culto: viene istituita una gara per scoprire chi ha il culo più bello; il premio è la morte: non la morte istantanea, ché sarebbe liberazione dalle sofferenze, ma la morte infinita, volta alla distruzione totale dell'individuo nella reiterazione della sofferenza inflitta. La deviazione verso la coprofagia è suprema forma di umiliazione ed assoggettamento: le vittime devono mangiare feci assieme ai loro padroni; viene celebrato un secondo matrimonio: il Presidente sposa una ragazzo e lo forza a cibarsi di feci, il nutrimento ideale per la prima notte di nozze; l'unione è qui sopraffazione, nonchè comunione basata sull'escremento, ossia sullo scarto più inutile.




Ultimo girone, "Girone del Sangue", accompagnato da un'unica storia narrata dalla sig.ra Castelli (Caterina Borrato): il sadismo come forma definitiva di oppressione; il girone si apre con un terzo (ed ultimo) matrimonio blasfemo, celebrato dal Vescovo e che vede l'unione dei tre padroni con altrettante camice nere; nel "Girone del Sangue" si arriva al castigo definitivo, forma di selezione per "scremare" coloro che non sono degni di rientrare a Salò; la tortura è qui l'estrema espressione della sessualità: a turno, ciascun signore si diverte ad infliggere dolore e morte alle vittime colpevoli di aver violato il regolamento; i repubblichini divengono definitivamente i valletti volti al sollazzo di colui che osserva le torture; la società viene scissa in distinte sotto-categorie: dapprima in due parti, con tre carnefici, un gruppo di vittime ed un osservatore che riceve il piacere dalle torture; in secondo luogo anche tra i giovani avviene una divisione: da un lato i penitenti, condannati a soggiornare prima nella merda, poi all'uccisione violenta, dall'altro coloro che saranno salvati. La violenza inflitta diviene puro atto sessuale, la cui ferocia divide anche gli ultimi: colti in flagranza durante atti amorosi o minacciati di morte per il semplice fatto di possedere una fotografia, i ragazzi si vendono a vicenda al Vescovo, espressione di una religiosità deviata verso il puro potere, ossia verso la sopraffazione delle folle e dunque perfetto "primo carnefice"; l'unico a resistere è un ragazzo colpevole di aver copulato con la serva di colore: simbolo della ribellione politica, esso è l'unico "coraggioso" che non indietreggia dinanzi alla violenza dei padroni, che anzi sfida sollevando il pugno sinistro, simbolo di tutto ciò che va contro l'ideale della maggioranza; unico gesto in grado di intimidire i quattro sadici, viene stroncato in un tripudio di violenza: il potere non può ammettere alcuna differenza, ogni dissenso va distrutto.
Immersi tra le feci, i penitenti invocano invano l'aiuto di Dio: non vi è salvezza in un mondo privo di ideali, non c'è un Dio pronto a salvare gli innocenti; tutto quello che resta è carne sminuzzata, occhi strappati e lingue mozzate.




Nella totale mancanza di speranza, nella negazione ultima e definitiva di una qualsiasi forma di salvezza o penitenza volta al riscatto, Pasolini trova il punto definitivo e più spiazzante della sua intera riflessione filosofica; se in "Edipo Re" (1967) le colpe del sovrano non trovavano una redenzione, ma almeno una forma di castigo, in "Teorema" (1968) il pater familias conscio dei suoi peccati si avviava ad un disperato cammino di redenzione e in "Porcile" (1969) vi era una forma di riscatto per una società preistorica che condannava i suoi mostri, nel mondo che preconizza in "Salò" non vi è condanna alcuna per i carnefici, bensì il loro duplice trionfo: da un lato quello sulla nuova generazione di sottoproletari e ribelli, ridotta a carne da macello; dall'altra quello sulla società tutta, con i repubblichini pronti a prenderne le redini una volta plasmatisi a immagine e somiglianza.




Un mondo fatto unicamente di sopraffazione e violenza, quello di "Salò"; un incubo ad occhi aperti oggi più spaventoso di quarant'anni fa; perchè nel mezzo ci sono stati gli anni '80 con la "Milano da Bere", il crollo delle ideologie, la fine degli intellettuali, il berlusconismo feroce e il culto dell'apparenza; la visione di Pasolini si realizza: a partire da meno di cinque anni dalla sua morte, i quattro padroni hanno sottomesso il Paese, colui che si è ribellato è stato ucciso senza remore, la classe dirigente cannibalizza il resto della società civile e tutto quello che si produce e consuma è pura spazzatura.


 


E sarà proprio quella società plasmatasi sulla falsariga dei modelli dei quattro padroni a distruggere per sempre Pier Paolo Pasolini: un gruppo di ragazzi indottrinati dalle ideologie neofasciste e un diciassettenne di strada che vedeva nel sesso e nella violenza le uniche forme di sopravvivenza. E al di là della tristezza e del rimpianto per la sua prematura scomparsa, sorge un dubbio atroce: cosa ne sarebbe stato del grande intellettuale uno volta che questi sarebbe stato "condannato" a vivere in un mondo che è celebrazione delle sue paure più aberranti? Una domanda retorica perchè priva di effettiva risposta; eppure, una forma di (spaventosa) certezza non può non affacciarsi nella mente di chiunque abbia assimilato la sua filosofia: il suo unico destino poteva essere solo il suicidio, l'autodistruzione generata dall'impossibilità di soffrire un mondo oramai privo di ogni forma di morale.

EXTRA

Il film doveva essere inizialmente diretto da Sergio Citti, fratello di Franco e collaboratore di Pasolini fin dal suo esordio; alla sceneggiatura collaborarono, non accreditati, anche Maurizio Costanzo e Pupi Avati, oltre allo stesso Citti.

Ottenuto il visto-censura solo dopo un ricorso in appello, "Salò" venne distribuito in Italia, nei cinema di Milano, a partire dal 10 gennaio 1976; dopo appena tre giorni di programmazione il film fu sequestrato dalla Procura della Repubblica di Milano e il produttore Alberto Grimaldi venne addirittura condannato per direttissima a due mesi di reclusione per il reato di oscenità; Grimaldi fu in seguito assolto in appello e il film tornò nelle sale, in una versione censurata, a partire dal 10 marzo 1977; il successivo 6 giugno, tuttavia, il pretore di Grottaglie ne ordinò di nuovo il sequestro su tutto il territorio nazionale per "offesa verso il comune senso del pudore".

Nel 2006, Giuseppe Bertolucci ha diretto "Pasolini Prossimo Nostro", documentario di circa un ora che ricostruisce il pensiero dell'autore tramite una serie di interviste d'epoca montate sulle splendide foto di scena scattate nel dietro le quinte di "Salò"


A seguito della morte di Pasolini, sulla spiaggia di Ostia, nel punto preciso in cui fu rinvenuto il cadavere, venne eretto un monumento in sua memoria.


Lasciato vergognosamente in stato di abbandono per tre decadi, il monumento fu restaurato ed ampliato nel 2005, in occasione del trentennale dalla morte del grande autore.


Sebbene la sentenza di primo grado che condannava Pelosi come unico responsabile della morte di Pasolini tendeva ad escludere il concorso di altri soggetti nella commissione dell'omicidio, le sue prime testimonianze parlavano esplicitamente di altri soggetti che lo avevano aiutato durante il pestaggio, tant'è che la Corte di Cassazione lo condannò, nel 1976, per omicidio volontario in concorso con ignoti; tornato in libertà il 23 settembre del 2009 dopo aver scontato la pena, Pelosi venne affidato ai servizi sociali: il suo primo incarico è stato quello di ripulire il monumento a Pasolini.

Sul processo realtivo all'omicidio Pasolini, Marco Tullio Giordana ha dedicato un lungometraggio nel 1995: "Pasolini, un delitto italiano".