sabato 30 agosto 2014

Brazil

di Terry Gilliam

con: Jonathan Pryce, Kim Greist, Robert De Niro, Ian Holm, Katherine Helmond, Bob Hoskins, Michael Palin, Ian Richardson, Peter Vaughn, Jim Broadbent, Charles McKeown, Jack Purvis.

Fantastico/Grottesco

Inghilterra (1985)















---SPOILERS INSIDE---

Quanto è grande la forza salvifica dell'immaginazione? Può un essere umano fare affidamento completamente su di essa per sopravvivere in un mondo alienante?

Al suo terzo film in solitaria, Gilliam risponde a tali quesiti dando sfogo a tutta la sua carica visionaria e, coadiuvato in sede di script da Charles McKeown (poi suo collaboratore anche per "Le Avventure del Barone di Munchausen" e "Parnassus") e da Tom Stoppard, crea il suo primo e più grande capolavoro.


In un futuro (passato) non lontano, un XX secolo abbruttito da una burocrazia autoritaria e asfissiante, Sam Lowry (Jonathan Pryce) è un impiegato del Ministero dell'Informazione privo di alcuna ambizione; schiacciato da una madre volitiva e dipendente dalla chirurgia plastica (Katherine Helmond), deriso dall'amico Jack (Michael Palin), suo superiore, Sam sfoga la sua intima frustrazione nei propri sogni, nel quale prende la forma di un guerriero alato ed ama una bellissima donna (Kim Greist).
La sua vita letteralmente in frantumi quando un guasto nel sistema informatico porta alla cattura di un innocente al posto di Harry Tuttle (Robert De Niro), idraulico-terrorista che ben presto invade la sua privacy; ma soprattutto quando scopre che la donna dei suoi sogni esiste davvero ed è a sua volta sospetta di essere affiliata ai misteriosi terroristi che combattono il sistema impazzito con attentati dinamitardi.


L'immaginario di Gilliam si espande a dismisura; in un unico, incredibilmente omogeneo calderone fa confluire Gerorge Orwell e Fellini, Kafka e Pirandello, nostalgia per il passato i visioni fantasy potentissime; "Brazil" è da un punto di vista estetico-stilistico l'apice assoluto della sua poetica: un mondo onirico smisurato che si infrange contro una utopia negativa inquietantemente verosimile.
Solitamente accostato alle distopie classiche, il mondo di "Brazil" non ha, in fin dei conti, molto in comune con le visioni pessimistiche di Huxley ed Orwell; non nel senso, ed è bene precisarlo, secondo il quale la burocrazia tecnocratica di Gilliam sia meno terrorizzante dell'eugenetica del primo o della dittatura totalitaria del secondo; quello di Gilliam, di fatto, non è un vero e proprio futuro distopico, quanto la naturale evoluzione di un presente già di per sè stesso folle, del quale la visione futuribile di Gilliam è un'iperbole. E nel dar vita ad un mondo ormai disumanizzato, l'autore abbandona i toni cupi ed apocalittici della distopia classica per usare un registro grottesco; quello di Gilliam è uno sberleffo, una pernacchia macabra e nerissima rivolta contro lo spettatore, chiamato a confrontarsi con alcune delle paure più urgenti che possa sperimentare: la fine dell'individualità e della mente.



Nel mondo di "Brazil", l'arida realtà de "I Banditi del Tempo" (1981) ha avuto la meglio sui sogni del piccolo protagonista Kevin; la tecnologia ha inghiottito ogni cosa: orrende tubature sbucano dal terreno al posto delle piante, palazzoni dal freddo design razionalista oscurano i cieli, la notte è illuminata dai neon e marmo e cemento avvolgono le persone in ambienti stretti ed alienanti. Gilliam crea una visione post-moderna totale, più compatta delle visioni di "Blade Runner" (1982), ma al contempo anche più sfrenata.
Il gretto materialismo della burocrazia ha istupidito le persone riducendole ai minimi termini: ogni individuo è un mero lavoratore, un piccolo ingranaggio di un gigantesco meccanismo che non si inceppa (quasi) mai e che schiaccia tutto e tutti. In questo mondo, solo i difetti dell'uomo comune sopravvivono e trovano piena affermazione: la gretta voglia di successo (Jack) o l'ossessione della falsa giovinezza eterna, forma esteriore di una lascivia lussuriosa ed irrefrenabile (Mrs.Lowry). Tutto il resto è lavoro: organizzazione millimetrica di ogni singolo gesto, esecuzione razionale e funerea di ogni pensiero subordinato ad ordini, moduli, richieste, ricevute installate su tonnellate e tonnellate di carta o sintetizzate in freddi computer. Efficienza puramente virtuale: la tecnologia, lasciata a sé stessa, diviene folle, incontrollata e causa solo danni (la "sveglia" meccanizzata di Sam che gli fa fare tardi a lavoro, il sistema di riscaldamento che cresce come un essere vivente fino a divorare l'appartamento); e l'organizzazione fiscale del lavoro ha finito per istupidire le persone, in grado solo di dare ordini e riceverli blaterando come automi, come l'assistente di Spoor (Bob Hoskins) o come le milizie parafasciste, capaci solo di sparare e ferire.



Quello di "Brazil" è un mondo nel quale la quotidianità più arida ha divorato ogni forma di vita, riplasmando la società in una parodia di sè stessa, nella quale ogni difetto viene gonfiato all'iperbole; la smania di controllo della burocrazia si è trasformata in una tirannide fascistoide che svuota l'individuo di ogni caratteristica non misurabile; la mancanza di valori morali e affettivi ha ridotto le persone a simulacri privi di vera vita, capaci solo di espandere i propri difetti oltre i limiti del parossistico. La visione di Gilliam altro non è che una versione beffarda delle paure più recondite di Kafka: un sistema imperscrutabile che stringe l'individuo in una morsa mortale senza nemmeno sapere perchè; un potere onnipresente ed onnipotente che si alimenta della sua stessa mancanza di senso e si tutela grazie ad arzigogolate e folli traversie burocratiche, divenendo labirinto mentale prima ancora che politico.
La città in cui si muovono Sam e gli altri personaggi sembra uscita dritta dritta dalle pagine de "Il Processo", con le sue linee verticali infinite, la sua geometricità austera e grigia; e come il Fellini di "8 e 1/2", Gilliam sovverte le ordinarie regole della messa in scena invertendo l'onirico e il reale; per le scene di veglia, l'autore filma tutto usando grandangoli stroboscopici in modo da duplicare la grandezza degli ambienti, che diventano così dei deserti di cemento e marmo o, peggio, degli uffici-prigione che strozzano Sam come una tomba lavorativa; nei sogni invece usa obiettivi classici, restituendo proporzione alle forme per sottolinearne la forza salvifica e la sicurezza.


Ma se la tecnologia ha definitivamente conquistato la realtà, che né è stato del giovane Kevin, dei suoi sogni, delle sue fantasie liberatorie?
Kevin è cresciuto, è diventato l'impiegato Sam Lowry ed ha definitivamente messo da parte ogni volontà sovversiva, limitandola all’escapismo onirico. Sam è, di fatto, una versione onirica e fantastica del Winston Smith di "1984"; laddove Smith era "l'ultimo uomo pensante sulla Terra", Sam è l'ultimo uomo sognante, l'unico essere in grado di non limitare le sue fantasie alla cupa realtà, ma di usarle evadere da essa.
Ma a differenza di quanto accadeva con Kevin (e con lo stesso Smith del capolavoro di Orwell), Sam è perfettamente cosciente del divario tra sogno e realtà; incarnato nel fisico minuto e dallo sguardo insicuro di Jonathan Pryce, egli sa che le sue fantasie sono tali e nulla più: non vuole cambiare il mondo, non vuole fuggire da esso, né abbattere il sistema; nella realtà non ha ambizioni carrieristiche, si accontenta della routine del suo Archivio e degli ordini del buffo mr.Kurtzmann (Ian Holm); ma soprattutto, la sua percezione del reale è totalmente conformata a quella degli altri: non ha orrore dei metodi disumani del governo, non ha ribrezzo per lo squallore del tenore di vita a cui l'umanità si è abituata; tanto meno è colpito dalla violenza cieca dei misteriosi terroristi. Sam è in tutto e per tutto un uomo comune, un figlio dei suoi tempi "elevato" solo grazie alle sue fantasie oniriche, che però confina alle sole ore del sogno, senza che mai interferiscano con la veglia, ossia con la realtà.


Il ruolo del sovversivo viene così dapprima relegato in secondo piano e cucito addosso al personaggio di Tuttle, a cui Robert De Niro dona un'aura ironica e beffarda unica; ma anche Tuttle non è un ribelle nel senso stretto del termine, quanto un dissenziente, un uomo che ha differenza di Sam non si adegua alle ottuse esigenze burocratiche e tappa le falle del sistema autonomamente.
Più che un terrorista, Tuttle è l'ultimo vero uomo libero sulla Terra, ideale controparte fisica ed ironica dell'eroe alato che Sam sogna di essere.


Ed è quando la netta distinzione tra sogno e veglia viene a mancare che cominciano i guai per Sam. L'incontro con Jill, la donna dei suoi sogni, è del tutto fortuito, generato da un errore nel virtualmente perfetto meccanismo della burocrazia; incontro che ne sconvolgerà l'esistenza e lo porterà, solo da questo momento, a divenir una scheggia impazzita, un ingranaggio del meccanismo statale che si divincola dalla sua loggia per incarnare quell'ideale mitico che ha sempre sognato. La realtà diviene così il terreno per mettere in atto le sue fantasie e, viceversa, il sogno viene contagiato dalle esperienze reali, divenendone pura metafora; la città, con i suoi palazzi grigi e ciclopici, divide gli amanti promessi, un nero samurai cattura la donna e perseguita l'eroe, solo per poi rivelarsi anch’esso come l’eroe, causa dei propri mali; un mr.Krutzmann di pietra impedisce al Sam alato di raggiungere la sua amata e mostri dai volti mostruosi (i burocrati)  e spettri (le vittime del sistema) cominciano a perseguitarlo. I ruoli si invertono: il sogno diviene incubo, la realtà l'unico luogo in cui Sam può coronare le sue fantasie; l'incontro con Jill lo cambia: ora lui è davvero l'eroe delle sue fantasie; la sua percezione del reale cambia: i poliziotti diventano figure mostruose e per la prima volta si accorge delle vittime degli attentati, in una scena in netta antitesi con quella del ristorante nel primo atto. Sam diviene davvero un sovversivo, un uomo a cui non importa più nulla del sistema, cambiato dalla forza dell'amore. Un amore "impossibile", ma che Gilliam decide di coronare in modo trionfale alla fine del secondo atto con quello che è forse il bacio più bello della storia del Cinema.


Ma l'amore può davvero salvare l'individuo?
Una domanda retorica dato il contesto del film; in un mondo privo di emozioni vere, dove la vita è ridotta ad una serie infinita di atti da compilare e di ricevute da strappare, in cui ogni sentimento è privato di significato ed ogni azione va catalogata, l'amore vero e puro non può trovare spazio. Il grottesco acido e divertito di Gilliam si fa nel terzo atto genuinamente pessimista; il sogno si fa incubo ancora più orrendo, corsa a perdifiato verso una speranza (vana) di salvezza. Un uomo che ha sfidato il sistema e ne ha smascherato le falle non può vivere, deve essere schiacciato, negato per poter consentire allo Stato di sopravvivere. Colui che lo strozza è in realtà una sua controparte, quel Jack suo ex migliore amico che incarna tutti gli ideali, gretti ed materialisti, che Sam ha sempre schivato; e che ora diviene perfetta incarnazione del male in terra: un traditore, un burocrate che scambia la vita di un suo amico per la propria affermazione, trasfigurandosi in un torturatore mostruoso e grottesco.



E Sam viene punito, distrutto nel corpo, ma non nella mente.
Massacrato il suo io fisico, Sam continua a sognare la sua fuga, il suo romanzo d'amore con Jill, una vita agreste dove il verde dei prati inglesi sostituisce il grigio della metropoli; un sogno nostalgico, nel quale continua a cantare le note della canzone che dà il titolo al film; ma pur sempre un sogno.
Eppure, per uomo per il quale il sogno l'unico strumento di affermazione, è un vero castigo o una liberazione?



lunedì 25 agosto 2014

R.I.P.- Richard Attenborough




1923-2014

Attore di talento e regista pluripremiato, Richard Annetborough sarà ricordato dai più giovani come il dr. Hammond di "Jurassic Park" (1993), ma nella sua carriera ha dato prova di un ecclettismo non comune e di un talento registico talvolta inusitato.





mercoledì 20 agosto 2014

Dune

di David Lynch

con: Kyle MacLachlan, Francesca Annis, Sian Phillips, Sean Young, Sting, Kenneth McMillan, Jurgen Prochnow, Virginia Madsen, Josè Ferrer, Silvana Mangano, Max Von Sydow, Brad Dourif, Dean Stockwell, Patrick Stewart, Linda Hunt, Everett McGill, Richard Jordan, Jack Nance, Alicia Witt, Leonardo Cimino.

Fantascienza

Usa (1984)












---SPOILERS INSIDE---

1981: David Lynch è reduce dal successo globale del capolavoro "The Elephant Man", che gli ha permesso di imporsi ad Hollywood come nuovo "enfant prodige" del surrealismo; le proposte di lavoro fioccano da ogni lato: ogni grosso studio vorrebbe affidargli un progetto particolare, il più delle volte di stampo fantascientifico; e tra i tanti, quello a cui Lynch si avvicina per primo è un film che con la sua poetica c'entra poco e nulla: "Il Ritorno dello Jedi", terzo capitolo della saga di "Guerre Stellari" che Lucas vuole affidargli non tanto per motivi squisitamente artistici, ma per meglio controllarne la produzione; questo perchè dopo i fasti de "L'Impero colpisce Ancora" (1980), il papà della "Galassia lontana lontana" si sentiva spodestato dal suo trono ed era in cerca di un giovane regista da poter manipolare, il cui buon nome servisse unicamente come selling point aggiuntivo.
Fiutato l'inganno (Lynch ammetterà, nel 2008, quanto fossero stati disastrosi i suoi incontri con Lucas), il grande autore decide di dedicarsi ad un'altra pellicola sci-fi, di registro totalmente diverso (se non addirittura opposto) rispetto all'epopea pop lucasiana; un progetto ambizioso, che gli viene affidato dal produttore Dino De Laurentiis, all'epoca smanioso di creare qualcosa di unico ed imponente; un progetto, di fatto, "bigger than cinema" che segnerà per sempre Lynch e lo stesso produttore: l'adattamento di "Dune", il capolavoro letterario di Frank Herbert pubblicato nel 1965, che da quasi dieci anni Hollywood (e non) tentava di portare sul Grande Schermo. Un'impresa colossale, che nel decennio precedente aveva tentato, purtroppo invano, il grande Alejandro Jodorowsky e che ora si realizza.
Il risultato è un film monco, a tratti visibilmente incompleto, ma anche una delle pellicole più genuinamente affascinanti e spettacolari mai concepite.


Anno Domini 10.191; l'Universo è suddiviso tra le nobili casate del Landsraaad, tra le quali spiccano due famiglie rivali: i nobili Atreides e i viscidi Harkonnen; sul trono siede l'Imperatore Padiscià Shaddam IV (Josè Ferrer), ma il vero potere sembra appartenere alle sette religiose, come la Sorellanza delle Bene Gesserit, e sopratutto alle compagnie commerciali, tra le quali la più potente è la Gilda dei Navigatori; questa è l'unica in grado di muovere le navi spaziali attraverso il cosmo e per questo gioca un ruolo essenziale nell'equilibrio del potere; lo strumento a loro necessario, vero e proprio motore dell'intero Universo, è il Melange, la Spezia, una potentissima droga in grado di aumentare i sensi di chi la assume e di "annullare lo spazio"; la sorellanza Bene Gesserit usa la Spezia per aumentare le proprie capacità fisiche e mentali, i Navigatori per guidare le navi tra le stelle. Ma la Spezia esiste su di unico pianeta in tutto l'Universo: il desertico Arrakis, che gli indigeni chiamano "Dune".
La concessione per l'estrazione della Spezia viene affidata dall'Imperatore al Duca Leto il Giusto (Jurgen Prochnow), patriarca della famiglia Atreides, il quale si muove su Arrakis portando con sè la sua concubina Jessica (Francesca Annis), ex strega delle Bene Gesserit, e il loro unico figlio Paul (Kyle MacLachlan); quello che non sanno è che in realtà Paul è il "Kwisatz Haderach", un messia profetizzato dal Bene Gesserit e atteso dai Fremen, gli abitanti del deserto di Arrakis, che lo venerano come un dio in Terra venuto per guidargli contro l'oppressione degli invasori esterni.
Quel che è peggio è che la venuta del Kwisatz Haderach contrasta con i piani della Gilda, la quale ordina all'Imperatore di uccidere Paul; per farlo, viene inviato su Arrakis anche il barone Vladimir Harkonnen (Kenneth McMillian), mostruoso capo della casata omonima, ossessionato dalla distruzione degli Atreides.


Con David Lynch, la space opera divine vero e proprio viaggio in un altro universo; il mondo di "Dune" è talmente complesso e vivo da infrangere lo schermo e saldarsi indelebilmente nella mente dello spettatore. Ogni pianeta ha una sua connotazione etnica e sociologica precisa, che si rispecchia nelle scenografie e nei costumi: Caladan con le sue costruzioni in legno e le uniformi simil-prussiane degli Atreides; Giedi Primo, l'infernale pianeta degli Harkonnen, ideato da Lynch come un coagulo di incubi post-industriali ed ospedalieri, con rivoli di scarichi fognari che ornano ogni stanza e i rossi guerrieri addobbati con paramenti di gomma e plastica; Kaitan, il pianeta dell'imperatore, concepito come una gigantesca città sulla quale svetta il palazzo d'oro del sovrano; la sorellanza Bene Gesserit, riconcepita come un'adunanza di streghe calve e dai denti di metallo; i Mentat, i computer viventi, che Lynch caratterizza con labbra cremisi e sopracciglia folte, veri e propri "animali da calcolo"; la Gilda Spaziale, nella quale confluisce tutto il gusto retrò dell'autore, con gli umanoidi calvi che comunicano per il tramite di un microfono dei primi del '900, aggiungendo un tocco di steampunk all'estetica futuribile. E naturalmente Arrakis, il pianeta desertico, con i Fremen bardati nelle eleganti tute distillanti, che si aggirano per i sitch intagliati nelle rocce e combattono con i moduli estranianti, invenzione dello stesso Lynch: armi in grado di trasformare il pensiero insito nel suono in proiettili, una geniale estensione della "voce", il potere principale del Bene Gesserit.


La potenza visiva di "Dune" è tutt'oggi insuperata; con un budget di 40 milioni di dollari, il più alto per un film di fantascienza fino ad allora, Lynch si assicura la collaborazione di Carlo Rambaldi e Giannetto De Rossi e sfoga la sua sfrenata immaginazione in creature aliene mostruose e affascinanti. Il Navigatore che introduce il complotto all'inizio del film è la perfetta sintesi di tutti gli incubi lynchiani calati in un contesto sci-fi: un essere umano il cui corpo è mutato sino a diventare "altro", regredendo ai livelli di un feto mostruoso ed imponente. Così come il Barone Harkonnen incarna la paura inconscia della malattia sessuale: un pederasta il cui corpo obeso è afflitto da una malattia sconosciuta, che riempie il suo viso di pustole come una moderna peste bubbonica, mentre le sue viscide mani corrompono giovani vittime sacrificali. E il verme, Shai-Hulud, il simbolo stesso di Dune prende vita su schermo irrompendo in tutta la sua ferocia, spazzando via ogni ricordo di visioni futuribili che siano (tutt'oggi) apparse al cinema.


Ma "Dune" non è semplicemente puro spettacolo visivo, né un mero adattamento degli scritti di Herbert; nelle mani di Lynch, l'epopea fanta-filosofica per antonomasia diviene un vero e proprio viaggio non solo in un mondo "altro", futuribile eppure verosimile, ma al contempo un viaggio nei meandri della psiche, attraverso immagini spettacolari ed ipnotiche. "Dune" è un'esperienza sensoriale, un'alterazione della percezione dello spettatore che si fa strada nella mente al pari dell'esperienza di maturazione del suo protagonista, Paul; Lynch gioca con le sensazioni più avvertibili: lo spettacolo delle immagini, il sinuoso incedere delle musiche oniriche di Toto e Brian Eno, i dialoghi introspettivi delle voci off dei personaggi; lo spettatore viene così catapultato direttamente nel subconscio stesso del film, in una dimensione nel quale si mischiano visioni e sensazioni, in un percorso sognante e a tratti epico. Lo spettatore diviene così parte integrante dello spettacolo: dinanzi all'opera di Lynch bisogna lasciarsi catturare, trasportare in un mondo nuovo, immergersi nelle acque della mente di Paul e dei suoi mostruosi avversari.


Perchè l'universo di "Dune" è un mondo in cui la sensazione e le percezioni contano quanto le azioni; tutte le elucubrazioni di Frank Herbert trovano su schermo un'appropriata messa in scena. Arrakis è un vero e proprio luogo della mente, immerso in un futuro nel quale la tecnologia e la filosofia sono un tutt'uno. La Spezia è lo strumento attraverso il quale l'uomo aumenta le proprie capacità sensitive; un'equivalente dell' LSD, purgata da ogni eccesso autodistruttivo, che come nelle civiltà primitive conferisce poteri divinatori; il futuro diviene il territorio inesplorato: la capacità di predire gli eventi, di guardare in ogni luogo possibile è il vero potere che l'essere umano ora agogna; un potere che lo trasforma da dentro, rendendolo più che umano, più simile al dio. E in tale aspetto Lynch supera Herbert e caratterizza Muad'Dib come una vera e propria divinità in Terra (similmente a quanto avrebbe fatto Jodorowsky): non una marionetta nelle mani della setta del Bene Gesserit che si ribella e istituisce un proprio regno, bensì un vero e proprio "essere superiore", in grado di plasmare la realtà a suo piacimento. Differenza che non mancò di scatenare le polemiche dell'autore, ma che aggiunge una suggestione religiosa e messianica ancora più viva e pulsante rispetto al romanzo di partenza.


Ma la Spezia è anche il "motore" che muove il cosmo, un equivalente futuro del petrolio, l' "oro nero" che le corporazioni (la Gilda) e i governi (l'impero) smaniano di possedere per poter cingere l'Universo nella loro presa. I Fremen, guerrieri puri e non corrotti dalla smania di potere, sono altresì l'equivalente delle popolazioni arabe, i beduini sottomessi e schiacciati da un invasore straniero e disumano (gli Harkonnen come le truppe inglesi e americane), ma pronti a spodestarli grazie all'avvento di un messia (Muad'Dib come il colonnello T.E. Lawrence, straniero che emancipa un popolo nel quale viene accolto come un suo pari), che li guida nella Jihad, la guerra santa non contro gli infedeli, ma contro gli oppressori, simbolo della fierezza umana che si vendica del mito del guadagno.


Malauguratamente, "Dune" è anche la storia di un gigantesco fraintendimento, di una vera e propria frode e finanche di un fallimento di enormi proporzioni.
Dino De Laurentiis credeva fortemente nel talento di Lynch quando gli affidò il progetto; con un budget enorme e la collaborazione di alcuni tra i migliori artistici e tecnici in circolazione, Lynch adattò di suo pugno il romanzo in sceneggiatura, aggiungendo elementi anche dagli altri capitoli della saga di Herbert (la forma mostruosa del Navigatore viene introdotta solo nel secondo romanzo, "Messia di Dune", così come la vasca nel quale si muove è di fatto un omaggio al carro reale de "L'Imperatore-dio di Dune", il quarto romanzo; nel film sono inoltre presenti riferimenti al Bene Tleilax e al pianeta Ix, non presenti nel primo libro), creando uno script di quasi 500 pagine (ossia quasi 5 ore di film), nel quale l'universo letterario di Herbert appariva ancora più vivo e la storia del primo libro veniva adattata in modo pressocchè integrale.


Approvata la sceneggiatura, Lynch ha avuto carta bianca anche durante le riprese, che per quasi tutta la loro durata si svolsero nella piena libertà; se non che, negli ultimi mesi di lavorazione (il processo produttivo durò in tutto quasi 3 anni: la pre-produzione iniziò nel 1981, ma il film uscì nelle sale americane solo nel dicembre del 1984), Lynch cominciò a subire l'ingerenza di De Laurentiis affinchè la produzione si concludesse il prima possibile; e sopratutto un forte taglio del budget destinato all'ultimazione degli effetti speciali; quel che è peggio è che venne tolta all'autore ogni decisione in merito al montaggio: su 5 ore di film, il final cut è di appena 2 ore e 10 minuti, ossia meno della metà.


Tagli "selvaggi" che rovinano ineludibilmente il film, che di fatto non ha un secondo atto; l'intera narrazione si riduce così ad una gigantesca introduzione al mondo di Dune, ai complotti orditi dall'Imperatore e dal Barone e alla sola vendetta di Paul nei loro confronti; la maturazione del personaggio, la sua ascesa a leader dei Fremen, le feroci battaglie contro le truppe degli Harkonnen vengono compresse in un montaggio veloce ed ellittico, dal quale si salvano solo le splendide visioni elaborate da Lynch per i sogni. E la presenza di sottotrame lasciate sul pavimento della sala di montaggio è avvertibile ad una visione attenta: chi ha letto il romanzo riconoscerà facilmente i figli adottivi di Paul e la sua concubina Fremen, presenti in più scene, ma ridotti a mere comparse.


"Dune" resta, così, una pellicola sfortunatamente incompleta e a tratti superficiale; per anni Lynch ha evitato di creare una sua Director's Cut, nonostante le esortazioni dei fans di tutto il mondo, a causa dei "brutti ricordi" che un lavoro del genere gli evocherebbe; fatto sta che anche nella sua veste monca, l'epopea onirica e religiosa di Lynch resta una delle esperienze fantascientifiche più incredibili che lo spettatore possa sperimentare.


EXTRA

Pur non esistendo un'effettiva Director's Cut del film, è comunque disponibile una versione estesa della durata di 189 minuti; questa versione, trasmessa da varie emittenti televisive e disponibile in DVD dal 2003, non è però stata approvata da Lynch: nei titoli di testa il suo nome è stato rimpiazzato con lo pseudonimo di Alan Smithee, soprannome che gli iscritti al sindacato dei registi americano possono usare per celare la propria identità qualora vogliano disconoscere un film che hanno diretto; anche per la sceneggiatura di questa versione, Lynch ha usato uno pseudonimo: Judas Booth; Judas è un riferimento a Giuda Iscariota, colui che tradì Gesù, mentre "Booth" è un riferimento a John Wylkes Booth, l'assassino di Lincoln.

Prima che gli fosse tolto il final cut dal film, Lynch aveva già iniziato a lavorare alla sceneggiatura di un ipotetico adattamento di "Messia di Dune"; il colossale flop del film stoppò il progetto, aumentando il risentimento dell'autore.

Nel 2000, la rete via cavo americana SyFy creò una miniserie tratta dal primo romanzo di "Dune"; con un budget di appena 20 milioni di dollari, il "Dune" televisivo è un piccolo serial a tratti inguardabile, vera e propria perla del trash, nonostante i contributi di attori del calibro di William Hurt e Giancarlo Gianni e la fotografia di Vittorio Storaro.


Decisamente più riuscito è il sequel "I Figli di Dune", miniserie di tre puntate prodotta sempre da SyFy nel 2003; il primo episodio è un adattamento piuttosto fedele di "Messia di Dune", mentre i restanti due portano in scena il terzo romanzo, che dà nome alla serie; nel casto compaiono questa volta anche Susan Sarandon, James McAvoy e Stephen Berkoff.


A partire dal 2008, la Universal ha tentato di creare un nuovo adattamento cinematografico di "Dune"; l'aspetto visivo doveva essere curato da Jock, mentre come regista si avvicinò dappirma Peter Berg e poi Pierre Morel; dato l'enorme budget richiesto, la major decise di cassare il progetto. E forse è stato un bene, visto che né Morrel, nè Berg possiedono la forza visionaria necessaria per rendere giustizia agli scritti di Herbert.

Più felice è stato invece il destino di "Dune" in ambito videoludico; a partire dal 1992, la Westwood Studios ha pubblicato una serie di RTS ispirati al mondo di Herbert, che riprendevano nei filmati, girati con attori in studio, l'estetica del film di Lynch. Della serie fanno parte:

"Dune II: the building of a dynasty" (1992)



"Dune 2000" (1999)


"Emperor: Battle for Dune" (2001)



Vero e proprio testo sacro della fantascienza hardcore della seconda metà del '900, il "Ciclo di Dune" si compone di sei romanzi principali: "Dune" (1965), "Messia di Dune" (1969), "I Figli di Dune" (1977), "L'Imperatore-dio di Dune" (1981), "Gli Eretici di Dune" (1984) e "La Rifondazione di Dune" (1985). Morto nel 1986, Herbert ha purtroppo lasciato incompiuta la sua opera: l'ultimo romanzo si chiude con un finale aperto, che lascia presagire una prosecuzione che Herbert non ha mai scritto.
Nel 2006, Brian Herbert, figlio di Frank, e lo scrittore Kevin J.Anderson hanno però dato vita al progetto di "Dune 7", ideale conclusione della saga, composta da altri due romanzi: "Hunters of Dune" e "Sandworms of Dune".

L'influenza degli scritti di Herbert su tutta la produzione fantascientifica a venire è immensa; basti citare, in proposito, i due casi di plagio più clamorosi, entrambi effettuati da George Lucas:


I cavalieri Jedi della saga di "Star Wars" possiedono come abilità speciale quella di controllare la mente altrui; "trucco" ripreso dal potere della voce della sorellanza Bene Gesserit di "Dune"; nel romanzo, le streghe della sorellanza vestono con un saio nero ed un cappuccio, proprio come Luke Skywalker ne "Il Ritorno dello Jedi" (1983). Nell'ultimo capitolo del primo romanzo di "Dune" fanno inoltre la loro comparsa le famose spade laser, usate però come strumenti di lavoro anzicchè come armi.
Ma il caso più clamoroso di plagio riguarda il quarto romanzo della serie, pubblicato nel 1981, "L'Imperatore-dio di Dune". In esso appare come protagonista Leto II Atreides, figlio di Muad'Dib, un ibrido uomo-verme immortale e della lunghezza di circa sette metri;


Vi ricorda qualcuno?



martedì 12 agosto 2014

R.I.P. Robin Williams


1951-2014

Attore comico, caratterista, ottimo protagonista drammatico, doppiatore... Robin Williams era un vero e proprio animale da palcoscenico, in grado di divorare letteralmente la scena con interpretazioni istrioniche al limite del funambolico, ma anche di contenere tutta la sua carica demenziale per performance sottilissime, quasi sussurate.
Un volto sempre gioviale, il suo; in grado di nascondere la dipendenza da alcool e una depressione ormai cronica che lo attanagliava da anni, senza però intaccarne il talento o la carriera artistica.
Grande patito di anime, videogames e fumetti (il rimpianto per non essere riuscito a partecipare ai progetti abortiti di "Batman Triumphat" di Burton e al "Watchmen" di Gilliam pare lo abbiano fortemente segnato), Williams se ne va in silenzio, nella sua casa di San Francisco, a 62 anni.
E come sempre, il modo migliore per ricordarlo è quello di rivedere alcune delle sue interpretazioni, questa volte quelle meno famose e forse per questo quelle che meglio riescono a sottolinearne l'estrema versatilità.




"Come ti ammazzo un Killer" (The Survivors, 1983)

In coppia con il mitico Walter Matthau, Williams istrioneggia follemente nei panni di Donald Quinelle, paranoico ossessionato dalle armi e dal concetto di sopravvivenza.





"Le Avventure del Barone di Munchausen" (The Adventures of Baron Munchausen, 1988)

Con lo pseudonimo di "Ray D.Tutto", Williams dà vita all'imperatore della Luna: una testa parlante separatasi dal lascivo corpo; una doppia performance semplicemente spassosa.




"La Leggenda del Re Pescatore" (The Legend of the Fisher King, 1991)

Diretto nuovamente da Terry Gilliam ed in coppia con Jeff Bridges, Williams dà vita ad un personaggio complesso, distrutto dalla morte della moglie, alternando sapientemente un istrionismo irrequieto e nervoso ad una compostezza patetica e sentita.





"Jack" (1996)

Piccolo e misconosciuto film di Francis Ford Coppola; Williams è Jack, bambino affetto da una rara malattia che ne quadruplica l'età; un inno alla gioia di vivere che l'attore interpreta con un trasporto totale.




"Hamlet" (1996)

Nel capolavoro di Kenneth Branagh, Williams appare nell'ultimo atto come Osric, capo delle guardie reali; un "adorabile idiota" che nel finale non manca di commuovere.





"Harry a Pezzi" (Decostructing Harry, 1998)

Nel geniale film di Woody Allen, Williams è un attore perennemente fuori fuoco; un'interpretazione totalmente fisica e per questo imprescindibile.




"One Hour Photo" (2002)

Abbandonato ogni istrionismo, Williams dà vita ad un personaggio complesso ed affascinante in modo sottile ed empatico; forse la sua migliore interpretazione.




"L'Uomo dell'Anno" (2006)

Tom Dobbs vince le elezioni a causa di un errore del sistema. Williams lo caratterizza come un istrione dal cuore d'oro, una marionetta che tenta di spezzare invano i suoi fili .




"Il Papà migliore del Mondo" (World's greatest dad, 2009)


Commedia di Bobcat Goldwhait cattiva e acidissima; Williams è un professore di letteratura inglese timido ed introverso, schiacciato da un figlio sessualmente perverso e dalla sua incapacità di relazionarcisi.

domenica 10 agosto 2014

Blade Runner

di Ridley Scott

con: Harrison Ford, Rutger Hauer, Sean Young, Edward James Olmos, Daryl Hannah, William Sanderson, M.Emmet Walsh, Joe Turkel, Joanna Cassidy, James Hong.

Fantascienza/Noir/Cyberpunk

Usa (1982)














---SPOILERS INSIDE---

E' stato scritto che esiste il cinema prima di "Blade Runner" ed il cinema post-"Blade Runner".
Un'esagerazione? Forse, ma allo spettatore più attento non possono di certo sfuggire tutti i rimandi, le citazioni, i debiti contenutistici e sopratutto stilistici che molte pellicole, anche non solo fantascientifiche, devono al capolavoro di Ridley Scott; senza contare le infinite imitazioni che si sono avute in altri media, quali videogiochi e fumetti; tanto che un'affermazione del genere non sembra poi tanto esagerata, ed anzi si può tranquillamente affermare come, di fatto, "Blade Runner" sia una pellicola dal peso imprescindibile, il cui impatto sulla Settima Arte ed in generale sulla cultura moderna è paragonabile ad un solo altro capolavoro assimilabile al genere fantascientifico: "2001: Odissea nello Spazio" (1968).


La storia del film, proprio come quella del precedente "Alien", è talmente complicata e affascinante da poter essere protagonista di una narrazione a sé stante. Tutto comincia con il capolavoro di Philip K.Dick "Do androids dream of electric sheep?", pubblicato nel 1968, nel quale il grande autore immagina un futuro post-apocalittico nel quale un mercenario della polizia dà la caccia, nell'arco di 24 ore, ad un gruppo di androidi giunti dalle colonie spaziali; androidi che Dick tratteggia come creature disumane, prive di empatia verso il prossimo e per questo mostruose.
Il progetto di un adattamento del romanzo per il grande schermo prende vita nei primi anni '70, ma resta in stallo per oltre dieci anni, finchè nel primi anni '80 Scott viene assoldato come regista; la prima bozza della sceneggiatura, ad opera di Hampton Fancher e molto fedele al romanzo, viene fatta riscrivere dall'autore da David Webb Peoples (poi artefice delle sceneggiature de "Gli Spietati" e "L'Esercito delle 12 Scimmie"), ma in fase di produzione se ne discosta lo stesso, reinventando alcune scene o inventando interi passaggi ex-novo, tanto che l' 80% del film finito è praticamente opera del solo Scott.
Nasce così "Blade Runner", una delle pellicole più influenti di sempre, cult amatissimo da generazioni di cinefili e non, ma sopratutto uno dei film più genuinamente belli mai concepiti.


Del romanzo di partenza, Scott abbandona la tematica religiosa per concentrarsi su quella umana ed esistenziale, cambia l'ambientazione da una San Francisco post-nucleare ad una Los Angeles multietnica e post-moderna, ri-caraterriza tutti i personaggi e riprende, in sostanza, solo la struttura di base, con il protagonista Rick Deckard (Harrison Ford) impegnato a dare la caccia agli androidi, ora ribattezati "replicanti", ossia copie virtualmente identiche agli esseri umani.
Nell'opera di Dick, gli androidi erano macchine senzienti in grado di emulare i senstimenti, ma comunque impossibilitate a percepire quelli degli altri; questa mancanza di empatia li rendeva delle personalità inquietanti, spietate e abominevoli, e non per nulla l'autore fu ispirato dai soldati nazisti e dal loro presumibile stato d'animo durante gli eccidi di cui si macchiarono durante la II Guerra Mondiale. Di tutt'altra indole sono invece i replicanti; la loro natura sintetica (persone nate in provetta e dotate di un cervello artificiale) non li rende meno umani, ma anzi "più umano dell'umano"; il replicante è una persona vera e propria, in grado provare sentimenti vivi e viscerali e avvertire anche quelli altrui, ma toalmente incapace di controllarli; in quanto persone artificiali, i replicanti non hanno una vita vera e la sperimentazione dei sentimenti comincia per loro quando il loro corpo e la loro mente sono già giunti ad uno stadio adulto; il contatto con la vita li rende perciò ancora più sensibili e del tutto incapaci di trattenere le loro sensazioni; il che li porta alla follia, evitata per il solo tramite del termine vitale: quattro anni dalla loro attivazione.
Il test del Voight-Kampff usato nel film per ideantificarli, a differenza di quanto accadeva nel romanzo, serve appunto ad appurare la loro incapacità di controllo, piuttosto che la simulazione del sentimento stesso.
Il replicante diviene così, nel film, essere umano vero e proprio, figlio della razza umana ("Mankind made its match") la cui natura artificiale viene rivelata da Scott per il solo tramite (visivo) del riflesso arancione delle pupille.


Il replicante è il nuovo umano, un essere programmato per svolgere determinate funzioni (operaio, soldato, prostituta, ecc...), ma dotato di un sistema emotivo autonomo; il contatto con le sensazioni crea nel replicante una serie di emozioni, sentimenti che un essere già adulto non è in grado di sopportare come un umano qualsiasi; esso diviene così più umano dell'umano, appunto: un essere para-umano dotato di una sensibilità maggiore rispetto all'umano comune. Il ruolo del replicante nella storia è quindi quello di un essere umano che si confronta con i limiti stessi della sua umanità, domandandosi ciò che ogni uomo prima o poi si chiede: da dove vengo? Perchè sento ciò che sento? Quanto ho da vivere?
I replicanti vengono così caratterizzati come dei bambini alla disperata ricerca di risposte; non si può non empatizzare con loro, in particolare con Roy Batty (Rutger Hauer) e Pris (Daryl Hannah), i più evoluti e per questo i più consci dei propri limiti, che in preda alla disperazione arrivano finanche ad esclamare:"Non possiamo sopravvivere, noi siamo stupidi!".


L'unico essere umano in grado di empatizzare con i replicanti, dimostrando una sensibilità inedita rispetto ai suoi simili, è J.F.Sebastian (William Sanderson); schivo, dall'aspetto triste e solitario, Sebastian si innamora da subito della bella Pris, ma sopratutto comprende la brama di vita di Roy a causa di una malattia che lo divora; Sebastian è, si, un personaggio ancillare rispetto alla narrazione, ma comunque essenziale per i suoi temi, rappresentando il lato più misericordioso e sensibile dell'essere umano.


E il successivo incontro di Roy con Tyrell (Joe Turkel) diviene confronto con il padre/dio, la coronazione di un sogno prettamente umano, ossia il confronto con il proprio creatore; Tyrell è una divinità creatrice terrena, che vive arroccata in una ziggurat futuribile e veste come un pontefice; è colui che possiede le risposte che Roy cerca, ma non la soluzione alla sua brama di vita; il confronto con il dio-creatore diviene realizzazione della propria finitezza, dell'impossibilità della vita eterna; confronto catartico, che nella morte del creatore trova un disperato urlo da parte dell'uomo impossibilitato a fuggire dalla morte, a cambiare il proprio destino, ma al contempo incapace di accettare una fine programmata; confronto che si fa esasperazione, tradimento (il bacio) e distruzione totale e disperata, poichè priva il replicante (l'uomo) di ogni speranza per il proprio futuro. E Rutger Hauer buca letteralmente lo schermo con la sua interpretazione più famosa: empatico e mai sopra le righe, il suo Roy Batty è un personaggio inarrestabile, ma al contempo estremamente fragile, in grado di scatenare una commozione pura e totale con il suo ultimo, struggente e ormai famossisimo monologo.


Se il replicante è l'essere artificiale divenuto umano, la "nuova vita" che cerca disperatamente di affermarsi, l'essere umano nel mondo di "Blade Runner" è una forma di vita ormai dimentica della sua stessa identità; gli uomini della Los Angeles del 2019 trascinano stancamente le loro vite senza provare vere emozioni; il protagonista Rick Deckard, non per nulla, viene modellato sui caratteri dei tipici sbirri degli hard-boiled degli anni '40, in particolare sul Philip Marlowe del mitico "Il Grande Sonno": duro, cinico e perennemente distaccato; ma a differenza degli altri poliziotti (in particolare del rozzo capitano Bryant), Rick riscopre a poco a poco la sua umanità nel corso della caccia; dapprima si sconforta per l'uccisione della replicante Zhora (Joanna Cassidy), che definisce non più androide, ma "donna", attestando il superamento della distinzione tra le due specie; e sopratutto innamorandosi della bella Rachel (Sean Young), personaggio che da solo racchiude in sé tutti i temi portanti del film.


Rachel è l'emblema stesso dell'essere umano privato di una sua identità; l'identità dell'uomo, suggerisce Scott, viene forgiata attraverso i ricordi, le esperienze accumulate durante la vita che ritornano come reminiscenze nella mente di ciascuno; il tema del ricordo viene simboleggiato dalle fotografie del replicante Leon (il compianto Brion James) e della stessa Rachel; la fotografia è mezzo artificiale per forgiare ricordi "esterni" all'uomo; allo steso modo, l'occhio è il mezzo organico con il quale l'uomo, sia esso umano o sintetico, "registra" nella propria memoria gli avvenimenti, in modo da poterli rivivere come ricordi, in modo da crearsi una propria identità.
Il tema della vista e il simbolo dell'occhio ritoranno più volte nel corso della pellicola; sin dalla prima sequenze: le spettacolari e tetre immagini della Los Angeles del futuro vengono alternate al dettaglio di un occhio che le riflette e al contempo le assimila, ideale occhio dello spettatore che da questo momento in poi assimilerà gli avvenimenti del film; Roy e Leon cominciano la ricerca di Tyrell al negozio di Chew (James Hong), fabbricante di occhi artificiali; il test del Voight-Kampff analizza un'irregolare fluttuazione della pupilla per scoprire la natura del soggeto cui che vi si sottopone; così come il riflesso arancio è il mezzo visivo con cui lo spettatore riesce ad identificare i replicanti.


Rachel è l'unico replicante ad avere dei ricordi e, per questo, un'identità pienamente definita, che la priva della coscienza del suo essere artificiale; nel momento in cui scopre la artificiosità degli stessi, Rachel perde la propria identità, essendo impossibilitata ad accettare la natura puramente virtuale dei suoi ricordi; Rachel diviene così il simbolo dell'essere umano posto dinanzi ad un interrogativo inquietante: il possedere dei ricordi equivale ad averli vissuti? E sopratutto: un'identità basata su ricordi fasulli è anch'essa falsa?
Scott non risponde a queste domande, si concentra piuttosto sul rapporto del personaggio con Deckard e sul dramma che essi vivono: due creature teoricamente nemiche, poichè l'una umana l'altra artificiale, consci della loro avversità, che cominciano a provare a poco a poco un'attrazione irresistibile, una sublimazione amorosa del rapporto cacciatore-preda che si fa inno alla vita e all'amore più puro; ed Harrison Ford è semplicemente perfetto nel ruolo del cinico cacciatore che riscopre la sua umanità, così come lo è Sean Young, con la sua bellezza elegante e fragile.

 

Ciò che rende "Blade Runner" tutt'oggi sconvolgente è l'estrema cura estetica che Scott riversa nella costruzione del mondo del 2019; la sua visione è post-modernismo allo stato puro: un ibrido perfettamente riuscito di visioni future e reminiscenze classiche; così come nella struttura e nella narrazione il film è una commistione perfettamente riuscita tra fantascienza e noir, allo stesso modo, sul piano estetico, l'auotre riuesce a fondere i due stili creando visioni estremamente affascinanti.
Il mondo di "Blade Runner" divene così il prototipo di tutta la fantascienza cyberpunk a venire; un universo nel quale la tecnologia ha invaso totalmente la società, ha "sovrascritto" il passato crescendo attorno alle memorie antiche per riplasmarle a nuova immagine; così come nei romanzi di Dick, anche in "Blade Runner" il futuro è un incrocio tra vecchio e nuovo, tra identità passata e crisi presente; un ibrido inquietante ed estremamente affascinante.
Il design del grande Syd Mead, qui in veste di direttore artistico, si concretizza in scenografie ciclopiche, che avvolgono i personaggi creando ambienti futuribili a loro volta ibridi di più culture: dalle architetture americane dei primi del '900 ai futuribili neon onnipresenti, con richiami alla cultura giapponese, araba e cinese; la Los Angeles di "Blade Runner" è un vero e proprio crocevia di stili ed influenze, che si rincorrono e si scontrano creando un mondo nuovo, un universo in piena crisi di identità culturale, al pari dei personaggi che lo popolano.


Ogni segmento di scenografia ha un che di vivo: graffi, segni di usura, sporcizia e graffiti insozzano ogni parete, dando una sensazione di tangibilità e di fisicità pura ad ogni ambiente. I costumi dei personaggi umani sono squisitamente retrò: lo spolverino di Deckard altro non è se non una versione fantascientifica dell'impermeabile di Humprey Bogart, gli abiti di Rachel sono i degni eredi della tradizione delle dark lady degli hard boiled, cos' come il capitano Bryant sembra uscito pari pari da un poliziesco degli anni'40. Al contrario, i replicanti sono avvolti in abiti avvenieristici, ispirati al punk londinese, che li caratterizzano come la "nuova umanità", una nuova generazione di uomini che si discosta anche esteticamente dalla vecchia.


Per la fotografia, Scott si avvale del compianto Jordan Cronenweth, che crea immagini semplicemente ammalianti; riprendendo la tradizione estetica del noir classico, ogni immagine viene contrastata, con luci ed ombre che si rincorrono fino ai limiti dell'espressionismo classico; ogni scena è immersa in luci notturne o comunque artificiali, per lo più neon e monocomatiche; il risultato è un'atmosfera cupa, che si avvicina ai limiti dell'horror puro nell'ultimo atto, un vero e proprio noir futuribile con i kinoflow (usati qui per la primissima volta) al posto dei lampioni elettrici e le auto volanti al posto delle cadillac. Visioni che trovano il loro antecedente storico nel lavori degli artisti del "Metal Hurlànt" e che per la prima volta sbarcano al cinema, creando qualcosa di nuovo, mai visto prima su schermo e tutt'oggi mai eguagliate.
Merito sopratutto della regia di Scott, che riesce ad amalgamare tutti gli elementi diversi senza far precipitare l'estetica nell'accumulazione grezza, ma sapendoli amalgamare in un vero e proprio calderone di influenze e stili dal quale fuoriesce un'estetica nuova, a suo modo inedita e che farà scuola. E la mano sicura e talentuosa dell'autore si nota ad ogni nuova visione del film: ogni volta è possibile scoprire un nuovo particolare nelle scene in esterni, uno nuovo simbolo o punto di interesse immerso in mezzo alla folla, prova dell'immenso talento di un autore oggi dimenticato.


Un mondo oscuro, quello di "Blade Runner"; un futuro da incubo, popolato da personaggi cinici e da una tecnologia fuori controllo; eppure, pur sempre un mondo in cui sopravvive la bellezza, sottoforma di emozioni vive e tangibili; siano esse il rispetto per una vita altrui o l'amore per una vita che forse non è nemmeno una vita vera; un mondo tragico, eppure magnifico, dolente e per questo vivo, la cui atmosfera struggente ed affascinante viene magnificamente sottolineata dalla celebre colonna sonora di Vangelis, con le sue noti dolci e nostalgiche; un mondo nel quale, alla fine, esiste ancora del verde, un angolo di mondo nel quale la speranza può vivere, non ha importanza per quanto a lungo, poichè nessuno sa per quanto a lungo davvero si può vivere.



EXTRA

E' ormai arcinoto che esitono varie e differenti versioni del film; la prima, uscita al cinema nel 1982, è chiamata "Theatrical Cut" e presenta la voce off di Deckard che accompagna le immagini; la seconda è la "Director's Cut" del 1991, versione approvata da Ridley Scott nella quale viene eliminata la voce narrante, viene tagliato l'epilogo con la fuga ed aggiunta una sequenza inedita: la visione di un unicorno da parte di Deckard; visione che, combinata con l'origami lasciato da Gaff nelle ultimissime inquadrature, svela la natura artificale del personaggio. 
Nel 2007, in occasione del 25°anniversario del film, è stata poi distribuita una nuova versione, la "Final Cut", che riprende la "Director's Cut" correggendo alcuni errori di continuità che all'epoca non poterono essere eliminati; stando a Scott, la versione "ufficiale" di "Blade Runner" è proprio quest'ultima e, quindi, anche Deckard è un replicante. In tutte le versioni del film, compresa la "Theatrical Cut", è però presente un'inquadratura che svela la natura artificiale del protagonista: poco prima della scena d'amore con Rachel, è possibile notare il riflesso arancio negli occhi di Harrison Ford.


Sulla natura artificiale o umana di Deckard nella versione originale del film, il dibattito è aperto; per molti fans in questa versione è umano, mentre per altri è un replicante; stando alle parole di Scott, Deckard avrebbe dovuto essere un replicante già in questa versione del film; d'altro canto, Harrison Ford sostiene con veemenza la natura umana del suo personaggio.
Fatto sta che proprio la "Theatrical Cut" resta la migliore versione di "Blade Runner": il finale liberatorio (creato montando i primi piani di Harrison Ford e Sean Young alternati alle riprese aree scartate da "Shining" e regalate da Kubrick a Scott, all'epoca suo buon amico) aggiunge una nota poetica ulteriore alla storia; così come la voce narrante del protagonista aumenta l'atmosfera noir; almeno nella versione italiana: sfortunatamente, in quella originale il doppiaggio di Harrison Ford è a dir poco inascoltabile, a causa dei tempi ristretti che all'epoca ebbe per studiare il copione.

La travagliata storia produttiva del film viene ben raccontata in "Dangerous Days", documentario di 3 ore e mezza presente tra gli extra delle versioni DVD e Blu-Ray in commercio a partire dal 2007; il titolo del documentario riprende il titolo di lavorazione dello stesso film.

Sempre nel 1982, Syd Mead creò il look visivo di un altro cult della fantascienza, un piccolo film destinato anch'esso a rivoluzionare l'estetica visiva: "Tron"; proprio come "Blade Runner", acnhe "Tron" fu un fiasco ai botteghini durante la "calda estate del 1982", salvo poi essere riscoperto nel corso degli anni e assurgere a pellicola di culto.



Morto nel 1982, a soli 53 anni, Philip K.Dick divenne uno scrittore di culto e pilastro della narrativa moderna solo a partire dai primi anni '90, quando il grande pubblico riscoprì "Blade Runner". 
Durante le riprese del film, Dick fu più volte intervistato in merito al trattamento riservato al suo romanzo e, senza mezzi termini, accusò Scott e soci di averlo letteralmente stuprato. Poche settimane prima della sua morte, Dick fu invitato ad una proiezione di prova, nella quale veniva mostato un demo del film della durata di circa 45 minuti; il rusultato fu eclatante: il grande autore dovette ricredersi dinanzi al lavoro svolto e, in un'ultima intervista rialsciata poco prima di morire, lodò caldamente l'autore per il lavoro in sede di scrittura e sopratutto per lo sconvolgente aspetto visivo del film.



Tra i "figli" più famosi di "Blade Runner" e in generale della narrativa sci-fi post-moderna di Philip K. Dick vanno citati almeno:

"Neuromante" (Neuromancer) di William Gibson, romanzo pubblicato nel 1984


Primo romanzo di Gibson e capostipite ufficiale del moderno cyberpunk, "Neuromante" riprende da "Do androids dream of electric sheep?" e "Blade Runner" la struttura da romanzo hard-boiled (in questo caso il "caper" o "romanzo di rapine") immersa in un futuro ai limiti del distopico.


"Appleseed" di Shirow Masamune, manga pubblicato a partire dal 1985

Primo successo editoriale di Masamune e prototipo del successivo "Ghost in the Shell", "Appleseed" riprende da "Do androids dream of electric sheep?" l'idea di un mondo post-apocalittico riedificato sottoforma di gigantesce città-stato, mentre da "Blade Runner" riprende il tema dell'umanizzazione delle creature artificiali.


"Ghost in the Shell" (Kokaku Kidotai) di Shirow Masamune, manga pubblicato a partire dal 1989


Ideale antefatto di "Appleseed", "Ghost in the Shell" riprende da "Blade Runner" il tema della disumanizzazione dell'essere umano e della contemporanea umanizzazione delle creture artificiali, in questo caso dei cyborg e delle I.A., oltre che alle riflessioni esistenziali sul concetto di umanità.


"Armitage III" di Hiroiuky Ochi, serie OAV pubblicata nel 1994


Da "Blade Runner" vengono ripresi sia la struttura poliziesca combinata all'ambientazione fantascientifica che la storia d'amore tra un essere umano e un essere sintetico, oltre che all'atmosfera cupa e visionaria.


"Ghost in the Shell" (Kokaku Kidotai) di Mamoru Oshii, film cinematografico del 1995


Adattamento del manga di Shirow Masamune che riprende anche l'estetica cupa e visionaria del film di Scott.


"Deus Ex" di Warren Spector, videogame pubblicato da Eidos Interactive nel 2000


Primo capitolo di una fortunata trilogia videoludica, riprende dalle opere di Dick e Scott l'idea di un futuro post-apocalittico nel quale gli uomini sono potenziati come cyborg e la susseguente crisi d'intentà, oltre che la struttura poliziesca della storia e l'ambientazione perennemente notturna.


"Battlestar Galactica", serie televisiva creata da Ronald D.Moore, andata in onda dal 2003 al 2009


Remake della serie televisiva creata da Glen A.Larson nel 1978, "Battlestar Galactica" riprende da "Blade Runner" i temi esistenzialisti e i dilemmi filosofici, oltre che la caratterizzazione dei replicanti per i Cylon, ibridi uomo-macchina in lotta con gli essere umani; da "Blade Runner" tornano anche l'espressione "Skin-Job" ("lavoro in pelle") per indicare gli ibridi e Edward James Olmos, che interpretava Gaff nella pellicola di Scott, qui nelle vesti del comandante Adama.


"Innocence: Ghost in the Shell 2" (Innosensù) di Momuru Oshii, film cinematografico del 2004


Sequel ancora più simile alla pellicola di Scott nell'estetica, che qui si fa genuinamente post-moderna, e nelle atmosfere più squisitamente noir.