lunedì 29 settembre 2014

Chi Protegge il Testimone

 Someone to watch over me

di Ridley Scott

con: Tom Berenger, Mimi Rogers, Lorainne Bracco, Jerry Orbach, John Rubinstein, Andreas Katsulas.

Thriller

Usa (1987)














Due cult amatissimi e al contempo due  terribili flop al botteghino; perchè il capolavoro "Blade Runner" (1982) e il piccolo gioiello di estetica "Legend" (1985) furono riscoperti come tali solo parecchi anni dopo la loro uscita; nel frattempo, Ridley Scott decide di rivedere il suo cinema e il suo stile: abbandona ogni forma di sperimentazione visiva e narrativa, dimentica quelli che erano i marchi di fabbrica del suo stile e si abbandona a pellicole più convenzionali; ma se i successivi "Black Rain" (1989) e "Thelma & Louise" (1990) restano comunque prove riuscitissime per l'autore brittanico, il primo film di questo nuovo corso della sua carriera è tutt'altro che memorabile: "Chi Protegge il Testimone", thriller poliziesco dalle scialbissime tinte romantiche che sembra concepito ed eseguito da un manierista piuttosto che dal vero Ridley Scott e che preconizza la futura caduta in disgrazia dell'autore.


New York City; durante un ricevimento alla presenza di tutto il jet set della città, la bellissima Claire Gregory (Mimi Rogers) assiste all'omicidio di un suo spasimante per mano dello psicopatico Joey Venza (Andreas Katsulas); per proteggerla viene incaricato il neo-detective Mike Keegan (Tom Berenger), originario del Queens, il quale, sposato e con un figlio, ben presto si innamorerà della ricca e sofisticata testimone.


La storia è tutta qui: due personaggi appartenenti ad un rango sociale diverso, anzi opposto, si innamorano a causa di una circostanza estrema, si amano, ma poi ci ripensano; fine. Tutto fila liscio come l'olio: Scott non rimaneggia lo script elementare di Howard Frankiln (poi autore dell'interessante "Occhio Indiscreto", ma che qui annega nei clichè), si adagia al canone del noir classico, ma lo appiattisce sul romanticismo più basico; non ci si riesce mai ad appassionare alla storia, anche a causa della caratterizzazione piatta dei due protagonisti; e il loro rapporto a tratti è forzato, come se questa coppia di amanti per caso debba necessariamente finire a letto e poi ritornare nei propri luoghi di appartenenza come se niente fosse, in preda ad un moralismo finto e stantio.


Non migliore è di certo la traccia poliziesca, anch'essa fortemente ancorata sullo stereotipo del cacciatore-preda, con un cattivo monodimensionale (affidato al compianto caratterista Andreas Katsulas, che rivestirà i panni del killer anche ne "Il Fuggitivo") ed una sensualissima bella da salvare, che però ha ben poco da offrire allo spettatore più smaliziato.


Scott non rischia: dirige tutto senza guizzi, senza mai cercare di spiazzare lo spettatore o di ammaliarlo; non indugia sulla fisicità dei due prestanti protagonisti, nè spinge troppo nel senso della tensione classica. Il risultato è insipido, incolore, del tutto freddo. E tutti i segni riconoscibili dello stile dell'autore di "Alien" scompaiono, sostituiti da una messa in scena piatta: niente più movimenti di macchina fliudi, niente pittoricità delle inquadrature, né profondità di immagine ostentata, niente più montaggio usato come strumento narrativo, jump-cuts o anticlimax; tutto il film sembra diretto da un dilettante e del glorioso passato del grande autore resta solo il gusto per la ricercatezza estetica, che qui, però, si esprime unicamente in una fotografia bella, ma mai paragonabile all'espressionismo post-moderno di "Blade Runner" o ai sublimi barocchismi di "Legend".


Quel che resta dopo gli interminabili 106 minuti di durata è pura noia, provocata da un prevedibilità a tratti insostenibile e perfino da una derivatività imbarazzante: Scott ricicla parte delle musiche da "Blade Runner", con un ri-arrangiamento di "Memories of Green" operato da Michael Kamen che non raggiunge la poesia dell'originale; e si rifà al finale de "I Falchi della Notte" (1981) per cercare di creare, invano, un minimo di tensione.
E spiace doverlo sottolineare, ma all'epoca anche "Chi Protegge il Testimone" fu un clamoroso fiasco al box office; questa volta però più che meritato, visto il poco che aveva (ed ha) da offrire al pubblico; non per nulla, quello stesso anno uscì "Sorveglianza... Speciale", poliziesco dalla medesima trama, ma che declinava il tutto in chiave ironica, e per questo decisamente molto più riuscito.

sabato 27 settembre 2014

Le Avventure del Barone di Munchausen

The Adventures of Baron Munchausen

di Terry Gilliam

con: John Neville, Sarah Polley, Eric Idle, Jonathan Pryce, Oliver Reed, Robin Williams, Uma Thurman, Jack Purvis, Charles McKeown, Winston Dennis, Valentina Cortese, Sting.

Fantastico/Avventura/Commedia

Inghilterra, Italia (1988)













La lavorazione di "Brazil" fu tutt'altro che facile: Gilliam dovette sopportare ritardi, vessazioni e defezioni da parte del cast tecnico; finite le riprese, cominciò una vera e propria crociata contro il produttore Sid Sheinberg, il quale, non contento del risultato finale del film, ne bloccò la distribuzione per rimontarlo da capo, aggiungendo un happy ending che Gilliam apostrofò con il titolo "Love conquers all!". Ottenuto il beneplacito del pubblico, il grande autore riuscì a far uscire la sua versione del film in alcuni cinema americani e in tutto il territorio europeo, riscuotendo un buon successo al botteghino e sopratutto uno straordinario successo di critica, imponendosi come un nuovo punto di riferimento nel panorama del cinema fantastico.
Con l'appoggio della Columbia Pictures e i capitali della Laura Film, Gilliam trovò così un budget di quasi 50 milioni di dollari per portare in scena la sua opera più ambiziosa: una rievocazione delle peripezie del barone Karl Friederich Hieronymus von Munchausen, nobile tedesco vissuto nel XVIII secolo fautore di una serie di bizzarre e fantasiose storie, poi raccolte da Rudolph Erich Raspe nel 1751.
Sfortuna volle che anche questa produzione venne funestata da ritardi ed incomprensioni: con set e locations sparsi tra Italia, Spagna, Turchia ed Inghilterra, costumi bloccati alle frontiere, cambi di vertice in seno alla produzione, intere giornate di lavoro usate per ottenere poco più di un minuto di girato, Gilliam riesce lo stesso a creare il suo film più visionario, una fantasmogoria visiva che diviene perfetta narrazione dell'immaginazione e della sua forza salvifica, della sua intrinseca necessità e della sua genuina bellezza, che lo incorona come supremo cantore del fantastico.


18° Secolo, l'Età della Ragione; durante la guerra con i Turchi, in una sperduta città sotto assedio, un gruppo di teatranti mette in scena le avventure del Barone di Munchausen, sotto gli occhi vigili di Horatio Jackson (Jonathan Pryce), ministro indaffarato con la burocrazia in tempi in tempi di guerra; tra uno scoppio di mortaio e l'altro, all'improvviso irrompe nel teatro un anziano soldato che afferma di essere il vero Barone di Munchausen (John Neville) e racconta al pubblico come sia stato egli stesso la causa dello scoppio della guerra; dopo aver mostrato alla piccola Sally (Sarah Polley), figlia del capo dei commedianti, alcune delle sue mirabolanti peripezie, il Barone e la bambina partono per un folle viaggio alla ricerca dei suoi vecchi compagni, con l'impegno di sconfiggere i Turchi.


Con "Le Avventure del Barone di Munchausen", Gilliam riesce definitivamente nel'intento di dipingere la forza dirompente dell'immaginazione e di descrivere la sua importanza per la sopravvivenza dell'essere umano; terzo capitolo di un'ideale trilogia iniziata con "I Banditi del Tempo" (1981) e proseguita con il capolavoro "Brazil" (1985), "Munchausen" si pone per certi versi in perfetta continuità con i due film precedenti.
Continua lo scontro tra la triste realtà "fisica" e il dirompente mondo della fantasia, tra un protagonista inondato dalla magia dell'immaginazione ed una società che ne ha dimenticato la bellezza.
Il Barone è un anziano, rappresenta la terza età così come Kevin rappresentava l'infanzia nel primo capitolo e Sam l'età adulta nel secondo; ma il Barone non è un semplice uomo dotato di una forza immaginifica superiore a quella degli altri: egli è l'incarnazione stessa della fantasia, uno spirito in realtà privo di età, che ringiovanisce ad ogni nuova avventura ed invecchia dinanzi alle sconfitte; un personaggio a metà strada tra l'eroe e il ciarlatano, tra il salvatore ed il buffone, che come ogni mito che si rispetti trae la sua forza dalla fede che gli altri ripongono in lui: la sua linfa vitale è data dallo stupore che suscita nel pubblico, dalla sua capacità di affascinarlo e stuzzicarne l'immaginazione; se il vero Barone di Munchausen era un mitomane, il Barone di Gilliam è una figura mitica e archetipica, in grado di trasformare le panzane di cui è protagonista in vere avventure, di risvegliare la forza sopita della gente e di salvarla da una realtà distruttiva.
La piccola Sally, d'altro canto, è lo spettatore, che si deve avvicinare al Barone con gli occhi di un bambino: sospendere la propria incredulità dinanzi alle sue stupefacenti ed incredibili peripezie e guardare la realtà con occhi nuovi, puri, per poter scorgere tutta la magia in essa nascosta; e poter credere, così, di poter arrivare sulla luna con una mongolfiera o salvarsi dall'annegamento tirandosi per una treccia.


Il lato opposto della medaglia è occupato da Horatio Jackson, che con il volto di Jonathan Pryce diviene un'ideale antenato di Sam Lowry: un Sam che ha sepolto il suo io sognante e si è arreso alle maglie della burocrazia; Jackson è l'incarnazione del lato peggiore dell' "Età della Ragione", un uomo privo di inventivo, ancorato saldamente ai fatti, alle carte e alle scartoffie, in grado di far fucilare un coraggioso ufficiale (Sting) per paura che le sue gesta abbassino il morale delle truppe; un "soldato di carta" che anzicchè voler sconfiggere i Turchi, tenta di instaurare con il Sultano una sorta di "resa a turni" poichè incapace di concepire altro modo per vincere la guerra; e che dinanzi al trionfo del barone tenta di ucciderlo perchè incapace di sopportarne la forza salvifica.


E tutt'intorno al Barone gravitano una serie di avventure amene e personaggi mitici, basati sui racconti di Raspe, che Gilliam riordina con una narrazione episodica, ispirata ai "Viaggi di Gulliver" di Swift, similmente a quanto fece ne "I Banditi del Tempo"; ogni tappa del viaggio del Barone e di Sally è un tour in un mondo "altro", caratterizzato da proprie regole e da un proprio stile visivo.
Sulla Luna i due incontrano i due sovrani (Robin Williams e Valentina Cortese), due giganti le cui teste sono separabili dal corpo, dividendosi in esseri di pura ragione, destinati alla follia, o di puro istinto, simili ad animali libidinosi.
Nell'Etna i due incontrano Vulcano (Oliver Reed), alle prese con lo sciopero dei ciclopi e al lavoro su una nuova arma: una bomba atomica in grado di polverizzare TUTTO, anche gli amici e gli animali domestici dei propri nemici; e il Barone si concede un ballo con una bellissima Venere, interpretata da una giovanissima e splendida Uma Thurman. L'Etna diviene così una fucina di guerra che ricorda gli orrori dell'industrializzazione selvaggia e l'insensatezza della scienza applicata alla distruzione, magnificamente giustapposta all'antro di Venere, ispirato al quadro di Botticelli.


E tra una fuga dal ventre di una balena e una cavalcata su di una palla di cannone, il Barone tenta in ogni modo di sfuggire al suo nemico più temibile: la Morte. Per la prima volta, Gilliam dà una rappresentazione fisica al Mietitore Tristo, ispirandosi alle "Danze Macabre" medioevali, e lo trasforma nel perfetto controaltare della fantasia: la fine di ogni cosa, la perdita di ogni speranza che precede anche la trasfigurazione fisica. Ed è proprio il lugubre ed arido Jackson, alla fine, a divenirne l'emissario: la distruzione della fantasia che precede la perdita della vita, o meglio la perdita della vita come conseguenza ineludibile della perdita di ogni speranza, anche della più vana ed improbabile, basata unicamente sull'immaginazione più pura.
Eppure, chi ha fede nell'immaginazione è più forte persino della morte fisica: è in grado di riplasmare fatti ed eventi a suo piacimento e sopravvivere a tutto, compresa la propria distruzione.


Se in "Brazil" e ne "I Banditi del Tempo" la divisione tra il piano del reale e quello onirico era netto, in "Munchausen" i due mondi si intrecciano sino a confondersi; Gilliam porta lo spettatore da un mondo all'altro in un battito di ciglio, con panoramiche ampie che mutano in presa diretta il palcoscenico nel mondo ideale del Barone, e fonde totalmente i piani narrativi, passando repentinamente, con semplici stacchi, tra i due racconti, trasformando gli attori in maschere di sé stessi, lasciando che interpretino contemporaneamente sia i personaggi che gli attori chiamati a teatro per impersonarli. In "Munchausen" la fantasia si fa narrazione vera e propria e la sua forza salvifica si disvela nella sua capacità di riplasmare il reale, piegarlo alla volontà di chi ne è protagonista, di trasformare i momenti più bui e cupi in attimi di trionfo e di convertire i sogni in realtà grazie alla sola volontà.
E nel portare in scena questa forza dirompente, Gilliam crea alcune delle sue visione più amene ed irresistibili: i servi del Barone, superuomini dotati di poteri speciali come superforza, udito e vista sovraumani e velocità supersonica, poi ridotti ad ombre di sé stessi ma ancora in grado di combattere un ultima, spettacolare battaglia; la mongolfiera fatta con le sottovesti delle procaci attrici che vola verso la Luna; lo stesso atterraggio sul satellite, che Gilliam rievoca come un naufragio in un mare di sabbia; l'organo "umano" suonato dal Sultano, che trasforma le grida in note in un componimento degno del migliore umorismo dei Monty Python; e la mitica, ironica, mirabolante cavalcata sulla palla di cannone, trionfo totale della fantasia selvaggia di un autore all'apice della sua forma espressiva.


E nell'approcciarsi alle mirabolanti avventure del Barone, Gilliam svuota il suo umorismo da ogni acidità per renderlo più clownesco e meno grottesco, velando tutto il film con una patina di empatia pura verso i suoi personaggi. Le sue visioni si caricano così di una forza immaginifica totale, in grado di scardinare ogni forma di incredulità per trasformare il cinema in pura visione, vero e proprio sogno che prende vita e coscienza di sé, raggiungendo vette qualitative assolute e creando il suo secondo capolavoro, ideale contrappunto di "Brazil"; laddove nell'opera dell'85 la fantasia aveva una mera funzione escapista e salvava il protagonista dalla morte solo in modo relativo, in "Munchausen" il sogno è pura forza vitale, mezzo indisspensabile per la sopravvivenza dell'uomo.


EXTRA

La regia della seconda unità fu affidata da Gilliam a Michele Soavi, ex collaboratore di Dario Argento e ultimo vero esponente del genere italiano, all'epoca già estinto; sarebbe stato proprio Soavi a regalare all'horror nostrano un ultimo sussulto vitale con "Dellamorte Dellamore" appena cinque anni dopo.



Numerosi i camei di star all'interno del film; Oliver Reed interpreta il rude e geloso Vulcano; Sting l'ufficiale condannato a morte, presente in appena 30 secondi di pellicola; pare che la rockstar abbia accettato la parte perchè all'epoca era il vicino di casa di Gilliam. Robin Williams appare nei panni del Re della Luna, ma nei credits usa lo pseudonimo di "Ray D.Tutto", traslitterazione dell'italiano "Re di Tutto", ossia il titolo con cui si introduce al Barone e a Sally. Inizialmente sarebbe dovuto comparire, in un piccolo ruolo, anche Christophe Lambert: le sue scene furono girate, ma Gilliam decise di non includerle nel montaggio finale; tutt'oggi, il materiale è irreperibile, non essendo mai stato pubblicato in alcun modo.

mercoledì 24 settembre 2014

Child of God

 di James Franco

con: Scott Haze, Tim Blake Nelson, Jim Parrack, Brian Lally, Vince Jolivette, James Franco.

Usa (2013)





















Non è mai facile adattare un romanzo di Cormac McCarthy al cinema; autori come Ridley Scott e John Hillcoat ne hanno trasposto lo schermo le dense pagine in modo letterale, creando opere insipide e dimenticabili; mente nel 2007, i fratelli Coen tradirono completamente il testo originale di "Non è un paese per vecchi" per costruire uno dei loro film più memorabili; a metà strada si pone il lavoro di James Franco, che riprende le 166 pagine di "Figlio di Dio" per crearne un adattamento fedele quasi punto per punto, salvo poi omettere alcuni dei risvolti più importanti del testo di partenza, finendo per affossarne la portata cinica ed apocalittica.




Nella remota contea di Sevierville vive Lester Ballard (Scott Haze), un rude ed irredento figlio dell'anima più nera dell'America; ritardato ai limiti della follia più pura, analfabeta, dalle movenze animalesche e grottesche, Ballard intraprende una spirale discendente fatta di pedofilia, omicidio e necrofilia che lo trasforma in una vera e propria belva dalle fattezze umane.




Opera più unica che rara nella produzione mccarthyana, "Figlio di Dio" è un romanzo breve intenso e spiazzante sia per la scelleratezza della storia raccontata che per lo stile secco e ruvido, ai limiti dello sgrammaticato.
Lester Ballard è un deviato, sessualmente represso che sfoga la sua libidine su qualsiasi cosa gli capiti a tiro: dalle zotiche e lascive figlie della provincia alle coppiette in amore, finendo per amare i cadaveri, ossia oggetti priva di vita, incapaci nel rispondere alle sue azione o di notare il suo deficit umano e mentale.
Lester è il lerciume che infesta tutti gli angoli più remoti dell'America: è violento, rozzo, stupido; la storia della sua famiglia è costellata di atti di codardia e pazzia, quella della sua infanzia è un collage di atti di violenza perpetrata e subita. E dal momento in cui perde la sua casa, regredisce allo stato selvatico, divenendo una creatura dei boschi vera e propria. Ma questa volta McCarthy non dà un giudizio morale diretto sul "male" di Ballard, si limita, bensì, a descriverlo in modo chiaro e diretto, rievocando le sue sciagurate gesta senza filtri e non lasciando nulla alla fantasia del lettore.



Ballard viene descritto già nella prima pagina come un ragazzo dalla forma grottesca, dal carattere incivile e dai modi rozzi; ma viene anche descritto con una formula poi divenuta giustamente celebre: "Nient'altro che un figlio di Dio come voi, forse"; la devianza del personaggio viene così incasellata non tanto della sua mente malata, quanto come somma espressione dello squallore morale e materiale della società in cui è nato e cresciuto, quel nord-ovest americano fatto di violenza gratuita, sessualità distruttiva, prevaricazione e immoralità elevata a sistema. E di fatto, tutti i (pochi) personaggi che gravitano attorno al protagonista sono anch'essi deviati e incrostati dai peggiori difetti dell'uomo, anch'essi disfunzionali e rozzi, nei confronti dei quali Ballard si pone come uno specchio distorto ed iperbolico.
La critica di McCarthy si muove dunque non tanto verso il suo anti-eroe, quanto verso quella società che lo ha creato e plasmato, un mondo fatto di pura violenza, dove il Ku Klux Klan si emancipa dalla radice razziale per divenire congrega di tagliagole; e persino le forze che gli si oppongono sono anch'esse violente e distruttrici.
Un mondo in preda al caos più puro, del quale Ballard è la pura e semplice personificazione, e che viene punito con un alluvione biblica, a seguito della quale persino il marcio protagonista dovrà scontare, in modo invero anticonvenzionale, le sue colpe.




Nel trasporre in immagini il capolavoro di McCarthy, Franco e il co-sceneggiatore Vince Jolivette dividono idealmente la sceneggiatura in due parti: fino a metà film seguono pedissequamente le pagine del libro, aprendo con un prologo nel quale portano su schermo le medesime parole con cui si apre il primo capitolo del romanzo; il montaggio viene diradato: ogni scena sfuma nel nero per attendere la successiva e si compone degli stessi identici avvenimenti narrati su carta, come se lo spettatore stesse di fatto leggendo il libro; la fusione dei due registri, su un piano strettamente grammaticale, riesce perfettamente, anche grazie alla messa in scena ruvida e sporca, che indugia sui dettagli più bassi e disgustosi in modo diretto e crudo, proprio come lo scrittore faceva nel romanzo.
E' nella seconda parte, a cominciare dal cosiddetto "Capitolo II", che Franco e Jolivette decidono inspiegabilmente di eliminare alcuni dei passaggi e personaggi più importanti; non c'è traccia del guardiano della discarica e delle sue lascive figlie, del neonato ritardato, nè dell'alluvione che castiga la provincia di peccatori; sopratutto, il finale originale viene omesso, lasciando fuori dalla narrazione il contrappasso che colpisce Ballard e chiudendo tutto con la sua ideale rinascita, che così perde di ogni significato.




L'operazione si trasforma così da trasposizione letterale ad adattamento "depotenziato" del romanzo d'origine, contraddicendosi nel corso della sua durata; l'interpretazione di Franco si appiattisce unicamente sul cinismo distaccato verso il suo mostruoso protagonista, senza mai dare giudizi sul mondo che lo ha creato, perdendo totalmente di mordente. Anche se preso in sé, senza fare confronti con il testo di base, "Child of God" risulta freddo: il distacco verso le immagini mostrate si traduce in mancanza di mordente, non riuscendo mai a turbare o scioccare; e la fedeltà estrema a quel che resta del libro di McCarthy diviene alla fin fine una gabbia che impedisce a Franco di rielaborare in modo più visionario o complesso la narrazione degli avvenimenti, che scorrono inesorabili su schermo senza risvegliare nessuna vera emozione nello spettatore, né da un punto di vista emotivo, né intellettivo.




Privata del suo contesto e del suo finale originale, la parabola di Ballard finisce così per divenire l'ennesimo film indie dal coraggio immane, ma privo di forza espressiva, che si diverte mostrare immagini crude, ma che non riesce mai davvero a sconvolgere; l'unica nota di colore in quest'ennesima operazione di sottrazione estetica e narrativa viene data dalla magnifica performance di Scott Haze, che si perde nei meandri del suo personaggio, immedesimandovisi totalmente, talvolta scadendo nell'overacting più didascalico, ma riuscendo lo stesso a convincere in ogni singola scena.

domenica 14 settembre 2014

Velluto Blu

Blue Velvet

di David Lynch

con: Kyle MacLachlan, Isabella Rossellini, Dennis Hopper, Laura Dern, Hope Lange, Dean Stockwell, Brad Dourif, Jack Nance, Geroge Dickerson, Priscilla Pointer, Frances Bay.

Noir/Mystery/Erotico

Usa (1986)











---SPOILERS INSIDE---

Quando un regista dirige uno dei più grandi flop della storia di Hollywood, il suo destino è segnato: il ritiro dalle scene.
Ma in quel gennaio del 1985, quando ormai il fallimento dell'operazione "Dune" era stato assodato, portando Dino De Laurentiis sull'orlo della bancarotta, la carriera di Lynch, fortunatamente, non si interruppe; anzi: fu proprio De Laurentiis a convincerlo a portare in scena un suo vecchio script, un noir a tinte horror ispirato dalla canzone "Blue Velvet" di Bobby Vinton; e con un budget miserevole, di appena 6 milioni di dollari, Lynch creò uno dei suoi capolavori più famosi, trovando in Kyle MacLachlan la sua perfetta controparte su schermo ed in Dennis Hopper la magistrale incarnazione dei suoi incubi più sconcertanti.


Lumberton, nord degli Stati Uniti. Tornando a casa da una visita al padre ricoverato in ospedale, il giovane Jeffrey Beumont (MacLachlan) fa una scoperta raccapricciante: un orecchio umano mozzato ed abbandonato in un prato; con l'aiuto della giovane e bella Sandy Williams (Laura Dern), figlia del poliziotto incaricato delle indagini, Jeffrey scopre un mondo di violenza e soprusi celato tra le maglie della sua tranquilla cittadina; le indagini lo portano infatti a conoscere Dorothy Vallens (Isabella Rossellini), bellisima e misteriosa cantante ricattata e seviziata dal terribile Frank Booth (Dennis Hopper), criminale affetto da una violenta psicolopatologia sessuale.


Lynch rievoca il noir classico usando un impianto hitchcockiano: una persona qualunque viene risucchiata per caso in una storia pericolosa molto più grande di lui; ma nel farlo smonta uno ad uno tutti i topoi classici del mystery e costruisce una narrazione strutturata come un viaggio onirico.
Già con il suo protagonista, Lynch sovverte lo stereotipo dell' "eroe per caso" di Hitchcock: Jeffrey è un vouyer, uno scopofilo la cui attrazione per il mistero è ai limiti del patologico; il suo volto innocente nasconde una passione quasi selvaggia, che esplode a tratti nel rapporto con Dorothy sotto forma di sottomissione, ma sopratutto come attrazione verso un corpo estraneo, lontano dai canoni della bellezza cui è abituato e per questo irresistibile.
Dorothy Vallens è la sovversione del concetto di femme fatale del noir classico; personaggio erede della Evelyn Mulwray di "Chiantown" (1974) e del neo-noir, è una donna fragile, psicologicamente distrutta dagli abusi di Frank, che si abbandona disperatamente all'amore per Jeffrey in un impeto materno più che sessuale, un disperato tentativo di riavere l'innocenza perduta; innocenza che ora è stata soppiantata dalla dipendenza per la sottomissione: un masochismo, il suo, a cui si offre spontaneamente non per cupidigia, ma per paura di una violenza ancora maggiore.


Frank Booth è l'incarnazione del male; un uomo composto di pura violenza, che si eccita inalando gas e riesce ad esprimersi per il solo tramite di minacce e pugni; Frank è violenza sin dal nome: quel "Booth" che rimanda a John Wylkes Booth, l'assassino di Lincoln che sembra perseguitare Lynch in questi anni; e Frank compie i suoi misfatti in Lincoln Street, ossia viola un santuario dedicato al decano della libertà e della pace. Non è un semplice villain, come pure stato scritto, bensì un immagine statica nell'occhio dello spettatore, un incubo che cammina, un coacervo di quanto ci sia di più spaventoso nella psiche umana; Frank è un deviato, non solo psicologicamente, ma anche sessualmente: nella sottomissione di Dorothy rievoca la sottomissione materna, la congiunzione edipica negata che ora prende con la forza e persegue sino allo sfinimento, in un misto di orrore e ironia che lo trasforma in un mostro grottesco e brutale. Un mostro con la faccia da uomo che in realtà nasconde emozioni anche più profonde: una bestia innamorata, in grado in commuoversi sulle note di "Blue Velvet" cantate da Dorothy, rivelando una complessità affascinante ed inedita, che lo rende simile a Jeffrey; laddove quest'ultimo è un innocente che cela una sottile perversione, Frank è un diavolo che cela nel profondo del suo inconcio una parte ancora pura.


Se Frank è l'ideale immagine speculare di Jeffrey, Sandy è la controparte di Dorothy; laddove la cantante è una donna fragile, distrutta dalla violenza e ridotta ad un oggetto sessuale totalmente sottomesso, Sandy è un'immagine virginale, un angelo salvifico che profetizza il trionfo dell'amore e che tenta di salvare Jeffrey con la sua bellezza casta e sottile, con il suo sguardo amorevole e con un bacio gentile ed appassionato.


Con Lynch il noir diventa vero e proprio viaggio in un mondo "altro", una dimensione parallela situata appena al di là del visibile; un "mondo nel mondo", una dimensione fatta di orrore e repulsione situata al di sotto della patina di solare normalità, ossia un vero e proprio inconscio della società americana.
Lo stacco tra le due dimensione viene chiarito fin dal prologo: sulle dolci note di "Blue Velvet" scorrono immagini allegre, cartoline di un America solare e idealizzata nel quale regna una felicità assoluta; ma appena sotto quei prati fioriti strisciano creature ripugnanti, scarafaggi famelici, mostri disumani pronti a divorare qualsiasi cosa gli capiti a tiro.
La città di Lumberton diviene così ideale antesignana della più famosa Twin Peaks, e lo stesso "Velluto Blu" altro non è se non un embrione di tutti quei temi che saranno sviscerati nel corso dei trenta episodi del serial, così come Jeffrey e Sandy sono una versione più giovane e innocente dei Sailor e Lula di "Cuore Selvaggio" (1990); di fatto, tutte e tre le opere presentano i medesimi temi ed atmosfere: tre viaggi nel lato nascosto dell'America, nel suo inconscio violento e deviato, che culminano nella speranza di un amore salvifico, pronto a redimere i suoi personaggi dai propri errori o dagli orrori che li circondano.


Come primo capitolo, "Velluto Blu" è il più compatto e lineare, ma non per questo meno affascinante, essendo dotato di tutta la simbologia calssica lynchana, che qui diviene vera e propria icona immediatamente riconoscibile.
La storia di Jeffrey è una vera e propria discesa nel mondo sotterraneo, introdotta con un inquadratura da manuale: MacLachlan scende le scale della sua casa al buio, lasciandosi la luce alle spalle; l'indagine si fa via via più morbosa e disvela il suo carattere ossessivo, votato alla ricerca spasmodica del mistero. Ma fin dalle prime battute, Lynch usa un registro onirico: l'uso dei ralenty e dello splendido sound design di Alan Splet trasformano il mondo di Lumberton in un vero e proprio sogno e il viaggio di Jeffrey in una discesa nel suo subcosciente, un inconscio nell'inconscio.
Come si diceva, la simbologia classica lynchana ritorna in tutta la sua forza visionaria: il flash delle lampade che bruciano le immagini diventano elmblemi della paura inconscia che attanaglia il protagonista e che si spegne, letteralemnte, solo dopo la morte di Frank; i rumori industriali e le reminiscenze delle fabbriche divengono ora simbolo dell'orrore più puro, stagliandosi cone le loro ombre inquietanti sulla casa di Frank. E la famosa dark room già apparsa in "Eraserhead" (1977) cambia forma e significato; due sono le stanze simbolo del film: il salotto della casa di Dorothy e l'antro del postribolo di Ben, il "This is it".


L'appartamento di Dorothy è il crocevia in cui i tre protagonisti si incontrano e si scontrano; bardato in un rosso scuro, antesignano della Camera dell'Inconscio di Twin Peaks, il salotto è un ideale utero materno nel quale ha luogo una delle scene più celebri del film: lo stupro di Dorothy. Lynch introduce il personaggio di Frank e subito nel svela tutto il carattere: la furiosa indole violenta, il patetico attacamento al corpo femminile-materno, il grottesco autocompiacimento. L'appartamento di Dorothy è il corpo stesso della donna, nel quale si intrufolano i suoi due uomini e dal quale essa stessa non può/non vuole uscire; per quasi tutto il film, Dorothy è sempre richiusa in un interno: il suo appartamento, il locale in cui canta, il postribolo, la macchina di Frank; quando esce allo scoperto, disvela tutta la sua fragilità, mostrandosi come un corpo nudo e martoriato nella notte, un'opera d'arte sfatta, sfregiata, distrutta dalla violenza, nella scena più celebre del film, che all'epoca fu foriera di inutili e ridicoli scandali. L'appartamento ha così una doppia, ideale, funzione: una gabbia nel quale al donna viene tenuta prigioniera da Frank, ma anche un nido nel quale può trovare rifugio e conforto tra le braccia di Jeffrey.


La seconda dark room è la casa del ruffiano Ben, interpretato da un magnifico Dean Stockwell. Se la casa di Dorothy ha una doppia valenza di grembo materno e mattatoio, il This is It è invece un vero e proprio girone infernale perso nel cuore della notte, abitato da un gruppo di freaks sfatti e sottilmente inquietanti. Nell'antro di Ben, Lynch riversa totalmente la sua paura per una sessualità indecifrabile e per un corpo privato di ogni limite e controllo. Ben è visibilmente omosessuale e i suoi modi eleganti ed affabili celano una violenza non inferiore a quella del più eccentrico Frank; la paura che egli genera è la paura dell'incognito, dell'indecrifrabile, di una figura difficile da catalogare e per questo totalmente imprevedibile: non uomo, non donna, non gangster, non buono, Ben è la prima tappa nel viaggio della notte che si conclude con la totale distruzione di ogni certezza per Jeffrey e la sua definitiva perdita dell'innocenza. Le donne che popolano il suo bordello sono l'esatto contrario del canonico ideale di bellezza femminile: prostitute vecchie e grasse, dalle movenze sgraziate che incorporano il lato più disgustoso e suqallido della sessualità, generando una vena sottile di paura per la patologia del corpo.
E nel ritrarre le due stanze del mistero, Lynch fa sua la lezione di Kubrick in "Shining" (1980) ed esaspera le proporzione usando grandangoli che quadruplicano gli spazi, trasformando le piccole stanze in vere e proprie cornici nel quale far muovere i personaggi, racchiusi in pose statiche per sottolinearne ogni movimento ed accrescere l'atmosfera onirica.


Onirismo che viene raggiunto definitivamente anche mediante la dilatazione temporale; Lynch allunga a dismisura ogni scena ed ogni dialogo, eliminando le elissi e creando sequenze lunghe e statiche; ogni azione si carica di una tensione pronta a scoppiare in faccia allo spettatore, talvolta all'improvviso, talatra in modo più lento; la manipolazione temporale si fa così definitiva: la soggettivizzazione narrativa diviene riflesso della narrazione all'interno del solo punto di vista di Jeffrey, e lo spettatore è chiamato ad assistervi per il tramite non dei suoi sensi, ma del suo subcosciente, come un ideale doppio dello stesso Jeffrey che si cala nella sua mente così come il ragazzo discende nella psiche più malata del mondo in cui vive.


La trasformazione del mystery in viaggio inconscio è totale; Lynch ritrae impressioni, sensazioni, emozioni con frammenti visionari, riflessi condizionati dalla paura, eccitazione sporcata dal sangue; "Velluto Blu" è il sogno di un noir, la rappresentazione distorta delle impressioni che esso suscita nel suo protagonista, un'esasperazione grottesca ed affascinante di tutti i suoi punti cardini e la sovversione dei suoi topoi.
Un riflesso costante del reale nella mente nel quale l'erotismo diviene orrorifico, il corpo della sensuale Isabella Rossellini viene spogliato di ogni bellezza e ritratto come carne da macello, la violenza è esplicita e dolorosa ed ogni sensazione decuplicata nella sua intensità. Un viaggio che porta dall'altra parte del visibile per culminare nella sensazione pura, nel disturbo totale, nella paura più basilare e genuina: quella di un orco, sovrano di un mondo fatto di incubi, di un'ideale favola nerissima posta al di sotto del reale, dall'altro lato del sole, nell'anfratto più scuro della psiche umana, che affonda le sue radici nel passato solare degli Stati Uniti, quegli anni '50 apparentemente gioviali, ma del quale Lynch sa scovare l'orrore celato sotto i sorrisi smaglianti e i prati curati.


Un viaggio che culmina nella liberazione del mondo dal male che lo consuma, nel trionfo dell'amore come forza salvifica e nella ri-costruzione e neo-costruzione del gruppo familiare; in antitesi a quanto descritto da Lynch in "Eraserhead" (1977) e similmente a quanto accadeva in "The Elephant Man" (1980), la famiglia in "Velluto Blu" è l'oasi nel quale Jeffrey e Sandy possono vivere felici e nel quale Dorothy può ritrovare la sua ragione d'essere e la serenità; e l'amore, quello vero e puro, l'amore di due giovani innocenti e di una madre per il suo piccolo, alla fine divora il male, lo fa a pezzi, ne fa deflagrare le cervella: Jeffrey uccide Frank, ma nel farlo non prova nè piacere, nè ripugnanza; il suo è un puro gesto autoconservativo, il gesto del pettirosso che fagocita lo scarafaggio per liberare il mondo; quel "Strange world" più volte evocato da Sandy e che di lì a poco diverra il mondo "wild at heart and crazy on its top" che sconvolgerà le vite di Sailor e Lula, ma che ora può cullarsi tra le note sognanti e commoventi della splendida "Mysteries of Love" di Angelo Badalamenti.



EXTRA

La versione cinematografica del film, della durata di circa 2 ore, è la Director's Cut approvata da Lynch; ma inizialmente il film sarebbe dovuto durare circa 4 ore e presentare una serie di sottotrame e personaggi scomparsi nel montaggio per le sale; a lungo creduto perso per sempre, il materiale inedito è stato in parte recuperato qualche anno fa dagli archivi della MGM; e nell'ultima release in Blu-Ray, per il momento limitata al solo mercato americano, sono presenti circa 50 minuti di sequenze inedite, facilmente reperibili anche tramite YouTube.

Esistono diversi buoni motivi per odiare Gianluigi Rondi; emblema della critica snob italiana, dell'intellettualismo da salotto buono fintamente colto, studioso di cinema più interessato alla superficie degli autori che disseziona nei suoi saggi piuttosto che alla sostanza estetica e filosofica delle loro opere, Rondi è senza alcun dubbio la perfetta personificazione di quanto più sbagliato ci sia nella classe dirigente italiana fin dai tempi della Prima Repubblica. Il suo più grande "capolavoro" è, a tutt'oggi, la vergognosa esclusione di "Velluto Blu" dalla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia del 1986, motivata adducendo il mancato rispetto di Lynch verso la tradizione artistica del nostro paese; in pratica, nelle intenzioni di Rondi l'aver mostrato il corpo nudo e sfatto della figlia di Roberto Rossellini ed Ingrid Bergman è un affronto alla cultura italiana e chi si è reso colpevole di tale "scempio" non merita alcuno riconoscimento.
Non ci vuole certo un genio per capire il controsenso intrinseco ad un tale ragionamento: Lynch ha denudato la Rossellini non per puro divertimento proprio o dello spettaotre, ma per dare vita ad una scena drammatica, volta a creare empatia verso il suo personaggio, non per fini erotici e men che meno per scandalizzare gli italiani o insultare il lascito dei genitori della Rossellini; nel trattare Isabella Rossellini come "la figlia di Roberto e Ingrid", Rondi la priva di una sua proppria personalità; e nel dipingerla come un "patrimonio nazionale" arriva finanche ad oggettivizzarla, come se una donna, un attrice e la sua immagine fossero simili ad un quadro o ad una statua, privi di volontà o coscienza. L'esclusione del film sulla base di una tale, becera ed ottusa, scusa generò il vero scandalo, portò De Laurentiis alla furia e costrinse Marco Muller, direttore della mostra dal 2004 al 2011, a scusarsi con Lynch nell'edizione del 2006, quando fu presentato in anteprima "INLAND EMPIRE".
Sulla base di un tale, stupido ed insensato atteggiamento, possiamo dire con certezza che lo squallore che attanaglia la classe intellettuale italiana ha e avrà sempre un solo ed unico volto:






Concluso il montaggio del film, De Laurentiis dovette lottare disperatamente per ottenere una distribuzione decente negli Stati Uniti; per convincere la MGM ad accollarsi i costi, dovette fondare una sua propria compagnia di distribuzione, agganciata alla DEG- De Laurentiis Entarteinement Group, per dividere le spese di distribuzione. Il film, tuttavia, fu un buon successo al botteghino e garantì a Lynch il credito necessario per rimettere in sesto la sua carriera da regista a seguito del cocente fallimento di "Dune".





Nel 2014, l'utente di YouTube C-SPIT ha creato un fake trailer su un ipotetica versione de "Il Ritorno dello Jedi" diretta da Lynch; la base è lo splendido trailer originale di "Velluto Blu", montato assieme ad immagini di "Dune" e "Mulholland Drive" (2001) e del film di Richard Marquand; il risultato è un'esperienza ipnotica e divertente, un must per ogni appassionato del surrealismo lynchano.





sabato 13 settembre 2014

Appleseed Alpha

di Shinji Aramaki

Animazione/Fantascienza/Azione

Giappone, Usa (2014)




















Inutile tentare di negarlo: il nome di Shiro Masamune resterà per sempre legato a "Ghost in the Shell", la sua creatura più famosa e di maggior successo presso il grande pubblico; eppure, chiunque si sia distaccato dal meraviglioso addattamento per il grande schermo di Mamoru Oshii e si sia accostato alla sua fonte cartacea non può non notare, spesso con rammarico, le innumerevoli differenze; l'atmosfera del manga è decisamente più leggera, foriera di un umorismo talvolta bambinesco, di un erotismo pruriginoso ed esplicito e di riflessioni tecno-filosofiche talmente complesse da oltrepassare la soglia del delirio, tanto da far ridimensiore il giudizio sull'effettivo valore del "Ghost in the Shell" originario, che ben poco ha a che spartire con le sue incarnazioni cinematografiche e televisive.
Decisamente più riuscita è l'opera ad esso precedente, il cosidetto "lavoro maledetto" di Masamune: "Appleseed", pubblicato originariamente tra il 1985 e il 1989 e poi raccolto in poco più di quattro volumi.


Primo approccio con la fantascienza cyberpunk di Masamune, "Appleseed" è un'opera più riuscita del suo celebre successore perchè caratterizzata da una storia più semplice, un umorismo sempre leggero, un erotismo più raffinato, azione meglio dosata e sopratutto perchè dotata di una storia decisamente meglio scritta.
In un futuro prossimo (ideale continuazione della visione che l'autore mostrerà in "Ghost in the Shell"), la Terza Guerra Mondiale ha decimato la popolazione umana e spazzato via ogni forma di civilizzazione; tra le rovine del passato si muovono due personaggi particolari: la bella ed agguerrita Dunan Knute, ex membro degli SWAT di San Francisco, e il robot da combattimento Breareos Hecatonchiles, macchina da guerra umanoide e fidanzato di Dunan. Alla disperata ricerca di cibo, perennemente sprovvisti dei pezzi per la manutezione e di armi e a corto di carburante, lo strano duo viene invitato ad unirsi alla polizia di Olympus, una gigantesca città-stato progettata come la metropoli paradisiaca per gli esseri umani ed unico avamposto effetivamente funzionante per la sopravvivenza della razza umana. La metropoli è amministrata e servita dai bioroidi, creature artificiali clonate dagli esseri umani con il solo scopo di servire l'uomo e garantirne la sopravvivenza ad ogni costo.


Nell'arco di appena tre volumi, Masamune crea un'affresco fantascientifico e post-apocalittico incredibilmente sfaccettato ed affascinante. Nel mondo "Appleseed" non vi è più una distinzione effettiva tra l'umano e l'artificiale: i cyborg sono persone vere e proprie; Breareos, a scapito della sua natura robotica, pensa e agisce come un uomo e la sua relazione con Dunan viene descritta come del tutto naturale; allo stesso modo, i bioroidi vengono caratterizzati non come minaccia per l'essere umano, ma come suo naturale servo, un "figlio" creato appositamente per servire il proprio creatore; e la metropoli di Olympus non è una città distopica, bensì la perfetta utopia futura, una megalopoli nel quale l'essere umano può prosperare in armonia con i suoi simili. Una metropoli che, benchè pensata ed amministrata per il bene e l'abbondanza, non è priva dei germi che hanno portato alla distruzione della civiltà precedente: criminalità, terrorismo, cattiva amministazione, quei "semi della mela maledetta" che potrebbero portare gli uomini ad essere nuovamente cacciati dal paradiso e che la città combatte per il tramite della polizia, in particolare della squadra E-SWAT, della quale Dunan e Breareos sono i membri di punta.
La riflessione dell'autore si concentra così su temi più scottanti: può davvero l'uomo creare il paradiso in Terra? Per la sua sopravvivenza è lecito eliminare il libero arbitrio? E' possibile eliminare definitivamente i semi dell'anarchia dalla società?
Quesiti incredibilmente fecondi, che purtroppo non trovano risposta a causa della chiusura della serie prima della sua conclusione, con un quarto volume che apre una nuova sottotrama sulla sperimentazione genetica purtroppo mai completata.


E se il destino su carta delle avventure di Dunan e Breareos è stato troncato di punto in bianco, decisamente sfortunato è stato invece quello in animazione; gli adattamenti per video, cinema e televisione sono ad oggi ben cinque, nessuno dei quali particolarmente riuscito, tanto da pensare ad una vera e propria "maldezione" che si abbatta su chiunque tenti di adattare o completare l'opera originaria.
Si parte con "Appleseed", OAV del 1988 che anzicchè trasporre il manga, crea una storia ad hoc esilissima e che non rende giustizia al fumetto di partenza. Si prosegue con un lungometraggio in CGI cell shading nel 2004, anch'esso chiamato semplicemente "Applessed" e diretto da Shinji Aramaki, che traspone in modo poco efficace in primi tre volumi, trasformando Breareos da robot a uomo nel corpo di un cyborg, privandolo così del suo fascino; sempre Aramaki dirige, tre anni dopo, "Appleseed Ex Machina", lungometraggio in CGI "classica" prodotto niente meno che da John Woo e seguito della pellicola precedente, che male interpreta lo spirito dell'opera originale ed imbastisce una storia piatta e ridicola; nel 2012 è la volta della serie televisiva "Appleseed XIII", un progetto più ambizioso, che sebbene si ponga come prequel ai due film riprendendone la caratterizzazione dei personaggi, tenta di rifarsi alle radici mitologiche e post-moderne del manga per riflettere sulle implicazioni dell'ingegneria genetica e sul concetto di utopia umana; serie dalla storia interessante, ma del tutto inguardabile a causa dell'orrenda veste grafica: una computer graphic in cell shading modellata ed animata con un budget ridicolo, che fa sembrare gli episodi come usciti da un videogame per PSX.
Problema che fortunatamente non si pone con "Appleseed Alpha", ultima incarnazione della creatura di Masamune e ideale prequel alle precedenti incarnazioni, animata con una CGI fotorealistica che, forte di un ottimo budget, raggiunge vette di eccellenza estetica incredibili; peccato che la storia basilare e scontata e la regia di Aramaki affossino anche questa nuova avventura del duo di super-polizziotti.


Prima di raggiungere la città di Olympus, prima di diventarne i paladini e di conoscere il segreto dei bioroidi, Dunan e Breareos (ora di nuovo e finalmente robot al 100%) vagano tra le macerie di una New York post-apocalittica; per sopravvivere compiono lavori sporchi per Due Corna, volitivo cyborg che si è autoproclamato sindaco. Durante una missione, i due mercenari-fidanzati fanno uno strano incontro: il soldato Olson, strano ibrido uomo-macchina, accompagnato da una misteriosa ragazzina chiamata Iris. Dopo aver salvato la vita alle due strane figure, Dunan e Breareos decidono di aiutarli nella loro misteriosa missione, che a quanto pare gli è stata commissionata dalla città di Olympus, per i due poco più di un mito.


Se già con "Capitan Harlock" (2013) Aramaki aveva sconvolto le platee con una CGI dal fotorealismo estremo e dalla regia spettacolare, con "Appleseed Alpha" fa due passi avanti ed uno indietro. La qualità del rendering di ogni personaggio, persino delle comparse, è sconvolgente; qualità che viene surclassata solo dalla resa delle animazioni, che salvo qualche sporadico calo di qualità nelle espressioni facciali, è di un realismo a tratti inquietante; i modelli dei personaggi sono rifiniti nei minimi dettagli: dalle venature degli occhi ai graffi sulle armature, passando per le pieghe degli abiti e le scalfiture sulla pelle, quella di "Appleseed Alpha" è semplicemente la miglior computer graphic che si sia mai vista, che arriva a raggiungere il realismo totale grazie agli infiniti dettagli degli ambienti e ad una serie di tocchi di classe inediti, su tutti le sfocature azzurre sui controni dei corpi nelle scene in pieno giorno, prova dell'estrema cura con cui Aramaki rifinisce ogni singolo frame della sua opera.


Peccato che all'imponente resa estetica non corrisponda una regia altrettanto efficace; Aramaki non riesce mai ad imporre il giusto ritmo alla storia, né a creare sequenze davver adrenaliniche; se già in "Capitan Harlock" aveva dimostrato una certa stanchezza nelle sequenza d'azione all'arma bianca, qui si rifiuta di creare scene davvero esaltanti, sprecando le due scene madri del film (l'attacco del blindo e l'inseguimento del mech) privandole di ogni inventiva coreografica e di vera tensione drammatica; e nonostante l'azione abbondi sin dalla primissima scena, non si è mai veramente impressionati dalla sua esecuzione, data la basilarità di ogni coreografia.
Persino il mecha design è poco ispirato; tolto il nuovo design di Breareos e quello di Due Corna, tutti gli altri personaggi meccanici (villain incluso) e i veicoli sono talmente derivativi da sembrare copiati dal mecha design della serie videoludica di "Metal Gear Solid", in particolare dal suo quarto capitolo; e basta guardare anche solo di sfuggita il design dell'antagonista Talos per rendersi conto del forte debito di ispirazione verso il lavoro di Shinkawa e soci.


Certamente non migliore del lavoro di Aramaki è quello di Marianne Krawczyk in sede di sceneggiatura; la premessa è anche interessante: esplorare la vita di Dunan e Breareos prima dell'arrivo al Paradiso Promesso, scoprire come abbiano fatto a sopravvivere e caratterizzare in modo forte il loro rapporto, calando il tutto in uno sfondo apocalittico inedito per la serie. Di tutto questo, la sceneggiatura riesce a dare effettivo valore solo alla caratterizzazione dei due protagonisti: Breareos è finalemnte tornato ad essere un robot, ora guardiano innamorato della sua bella compagna, proprio come avveniva nelle pagine del manga di Masamune; mentre Dunan, non acnora forgiata dall'addestramento nell' E-SWAT, presenta ancora il carattere solare, ma agguerrito del fumetto. Tutto il resto semplicemente non funziona; i personaggi secondari sono scialbi e piatti: Due Corna è il villain buffone che si redime nella migliore tradizione hollywoodiana, Olson e Iris le due vittime designate, che si comportano come il clichè comanda; mentre Talos è un cattivo le cui motivazioni sono pretesuose, finanche schizofreniche nell'ultima parte del film: un puro guarrafondaio che vuole solo distruggere tutto ciò che ha davanti, senza nemmo accorgersi della sua mancanza di senso.
La trama in sè è quanto di più scontato possa esistere: i due protagonisti devono proteggere una figura "eletta" per una missione da un cattivo privo di scrupoli; e il tutto si risolve con la disputa per il possesso di un'improbabile super-arma: un cannone semovente che sembra anch'esso uscito dalla serie di "Metal Gear Solid" e che teoricamente dovrebbe essere la metafora dell'impossibilità di estirpare il seme della distruzione dall'uomo, ma che si pone, in fin dei conti, come mero pretesto per lo spettacolo.
Tutta la storia, in fin dei conti, non è altro che un lungo inseguimento, dove i personaggi si muovono da un punto A ad un punto B e viceversa, senza mai un colpo di scena vero e proprio, nè un twist che non sia telefonato: tutto fila liscio nella più pura prevedibilità senza riuscire mai a coinvolgere. Dulcis in fundo, persino i dialoghi sembrano usciti dal peggior manuale per la scrittura di action di serie-B e si compongono per lo più di frasi ad effetto e spiegazioni ridontanti. Tuttavia, le carenze ridicole dello script non devono neanche stupire: la Krawczyk ha nel suo curriculum solo sceneggiature per videogames quali la serie di "God of War", è del tutto normale, quindi, che la sua scrittura sia del tutto subordinata all'azione; il problema è ab origine: è inutile cercare di dare dignità ad una storia se per farlo si ingaggia chi non è avezzo alla scrittura cinematografica.


Ennesimo pessimo adattamento della splendida opera di Masamune, "Appleseed Alpha" merita di essere apprezzato solo per l'immane sforzo produttivo e tecnico e per aver ridato dignità ai due bei personaggi protagonisti; chi si aspetta di più resterà deluso: la maledizione di "Appleseed" ha colpito ancora e forse con il prossimo adattamento andà meglio. O almeno lo si può sperare.

martedì 9 settembre 2014

Legend

di Ridley Scott

con: Tom Cruise, Mia Sara, Tim Curry, David Bennent, Alice Playten, Billy Barthy, Corck Hubbert, Robert Picardo, Kiran Shah, Annabelle Lanyon.

Fantasy/Fiabesco

Usa, Inghilterra (1985)















Finite le riprese di "Blade Runner" (1982), Ridley Scott decide subito di imbarcarsi in una nuova produzione di carattere fantastico; questo prima ancora dell'uscita del suo ultimo film nelle sale, e quindi prima che questi si riveli (purtroppo) come un immenso flop, garantendo al regista un grosso budget ed una forte libertà produttiva.
La sua visione si rifà ora al fantasy e al folklore popolare piuttosto che alla fantascienza impegnata; affidata la sceneggiatura allo scrittore William Hjortsberg (poi autore dello script dell'interessante "Angel Heart"), Scott vuole inizialmente creare una favola romantica e spettacolare, nel quale un pugno di personaggi archetipici incarna l'eterna lotta tra bene e male, scavalcando i canonici manicheismi del genere fantasy; il progetto di partenza, intitolato "The Legend of Darkness" subisce però dei forti tagli e riscritture per motivi di budget e di target e finisce inevitabilmente per perdere il suo appeal; uscito nelle sale dopo tre anni di gestazione, dovuti tra le altre cose ad un incendio che distrusse i teatri di posa 007 ai Pinewood Studios bloccando la produzione, "Legend" si impone subito come una delle pellicole visivamente più ricche ed affascinanti di sempre, ma anche come un film dalla storia semplicemente inconsistente.


In un mondo popolato da spiritelli della foresta e goblin, animali mitici e fate, l'oscuro Signore delle Tenebre (Tim Curry) decide di privare il creato della luce del sole, a lui nociva; per farlo incarica il goblin Blix (Alice Playten) di compiere un sacrificio immane: uccidere i due unicorni, le creature più sacre al mondo. Nel frattempo, nel bosco, la giovane principessa Lili (Mia Sara) e il figlio dei boschi Jack (Tom Cruise) avvicinano i due unicorni per celebrare il loro amore; Blix coglie l'occasione ed uccide l'unicorno maschio, privandolo del suo corno; una maledizione si abbatte così sul mondo e un gelido inverno comincia ad avvolgere ogni creatura; spetterà a Jack e Lili, assieme all'elfo Gump (David Bennent) e alla fata Oona (Annabelle Lanyon) recuperare il corno e sconfiggere il malvagio Signore delle Tenebre.


Abbandonata ogni velleità innovativa, Scott dirige un fantasy privo di qualsiasi mordente; della splendida idea iniziale resta pochissimo, giusto il concetto basico del peccato commesso dai giovani protagonisti a causa della loro ingordigia e della quest fantastica riletta come forma di redenzione; ma anche tale argomento diviene mero espediente narrativo per far proseguire l'esilissima storia, che come al solito viene basata sullo scontro tra un bene assoluto ed un male privo di rimorsi.
La struttura di "Legend" ricalca volutamente più quella di una favola che di un fantasy, si compone di tre ambientazioni (il bosco, la casa dei contadini e la fortezza del Signore delle Tenebre) e pochi personaggi: due protagonisti innamorati, un antagonista ed un pugno di gregari, tutti rigorosamente tagliati con l'accetta; Jack è l'eroe impavido, chiamato, si, a compiere la missione suo malgrado, ma la cui caratterizzazione è basica e priva di sfaccettature; e l'interpretazione piatta di un giovanissimo Tom Cruise non aggiunge nulla al personaggio, se non il fascino e la fisicità che lo renderanno di lì a poco una star; la giovane Lili appare invece per certi versi come un personaggio un attimo più interessante: una principessa che sembra uscita da un film Disney, che entra in scena addirittura cantando, ma che rinuncia subito al suo ruolo di bella in pericolo per divenire anch'essa parte attiva nella vicenda; è lei che decide ancora prima di Jack di salvare l'ultimo unicorno rimasto e una volta rapita da Tenebre usa l'astuzia e la mestizia femminile per ingannarlo e salvare la situazione.


La vera star del film è però il villain, il Signore delle Tenebre, interpretato dall'istrionico Tim Curry bardato sotto il pesante e magnifico make-up di Rob Bottin; Tenebre è l'incarnazione stessa del male, un archetipo totale fin dal suo design, caprino e cornuto come tutti i demoni della tradizione medioevale; una creatura spaventosa e possente a cui Curry dona un carisma immenso tramite la gestualità teatrale e la forte espressività, incredibile dato il forte trucco che ne copre gran parte del volto. Scott introduce lui come primo personaggio e lo usa come vero e proprio motore della storia; per renderlo ancora più inquietante ne cela le apparenze per più di metà del film, affidandosi unicamente alla voce magniloquente ed elegante di Curry; e quando decide di mostrare il suo mostro, lo fa in grande stile, facendolo emergere da uno specchio, ideale metafora del male insito anche nelle creature più innocenti.
Presenza scenica che ne oscura la scialba caratterizzazione, talmente basica da risultare a tratti forzata; eppure, il background del personaggio e la sua mitologia, per quanto scontate, sono state persino oggetto di plagio: in "Thor: The Dark World" (2013) il cattivo Malekith altro non è se non un'imitazione di Tenebre immerso in un mondo fantasy/Sci-Fi, tant'è che anch'egli vuole distruggere la luce per qualche non meglio precisato motivo.


Se i piatti personaggi possono trovare una loro ragione d'essere nella loro natura archetipica, del tutto priva di scusanti è la sceneggiatura di Hjortsberg: lineare, scontata e prevedibile, manca di mordente nelle scene più importanti, come nel duello finale, e non riesce mai a inventare sequenze davvero da antologia; i modelli di riferimento sono classici: le fiabe dei fratelli Grimm, il Peter Pan di Barrie e le leggende nordiche, le quali dovevano essere rilette in chiave metaforica e post-moderna; ma del progetto iniziale di Scott rimane giusto il confronto tra Tenebre e Lili e il discorso finale sull'inscindibilità tra bene e male (presente però solo nell'edizione Director's Cut); script che fallisce persino nel dare rilevanza comica ai personaggi di Screwball e Brown Tom, simpatici ma mai davvero divertenti, e che qua e là sfoggia anche buchi ed incongruenze; troppo forzata appare infatti la love story tra Tenebre e Lili, che sembra introdotta giusto per far proseguire la storia verso il terzo atto; non si capisce a cosa serva il personaggio di Nell e la gelosia di Oona verso Jack è del tutto pretestuosa; si arriva persino a cancellare dei personaggi in corso d'opera, come Blix e il suo compare, che scompaiono circa a metà film.


Fortunatamente, Scott dimostra di avere maggiore dimestichezza con l'argomento fantastico e crea una messa in scena barocca ed affascinante in cui far muovere i personaggi. Ricostruiti tutti gli ambienti in studio, Scott si affida alla splendida fotografia di Alex Thomson per creare dei veri e propri quadri in movimento; a discapito della natura artefatta degli ambienti, la messa in scena è di una verosomiglianza incredibile, tanto da far sembrare il film girato in un vero bosco.
Ogni immagine è ricca di particolari, dalla costruzione plastica e profonda; in ogni scena Scott usa elementi barocchi per aumentare il senso di meraviglia, come bolle di sapone, petali di rosa o brillantini, ed immerge tutta la vicenda in un'atmosfera onirica unica. Su tutte, due sono le scene che meritano di essere esaltate: l'uccisione dell'unicorno alla fine del primo atto, alternata alle splendide riprese subacquee di Jack, e la corsa di Lili nei meandri del palazzo di Tenebre, sospesa in uno stato di inquietitudine tra sogno ed incubo, che culmina con la magnifica entrata in scena dell'antagonista, in una sequenza da antologia del fantastico.
L'uso magistrale della luce negli ambienti e le ricche scenografie creano uno spettacolo unico, ammaliante e che resiste perfettamente alla forza del tempo; rivisto oggi, a quasi trent'anni dalla sua uscita, "Legend" non ha perso un grammo della sua forza immaginifica, a differenza di molte altre produzioni del periodo. E a differenza delle odierne produzioni fantasy, il suo fascino non risiede tanto negli effetti speciali, quanto nella cura che Scott riversa in ogni singola immagine, nella costruzione maniacale di ogni scena, nei tagli di luce ricercatissimi e fisici, mai affidati alla post-produzione, rendendo ogni singolo fotogramma vivo e pulsante. E sopratutto, Scott riesce nel miracolo di non far scadere la storia nel ridicolo, sapendo sempre quando e quanto sottolineare gli aspetti comici e quelli seri.


Ipnotico nello stile, scialbo nei contenuti, "Legend" resta comunque uno degli exploit più interessanti del fantasy anni '80, nonchè uno degli esponenti più spettacolari dell'intero filone; tutt'oggi, a discapito delle migliori tecnologie impiegate e dei budget di gran lunga superiori, nessun fantasy è riuscito a raggiungere la sua genuina potenza visiva. Fatto sta che all'epoca della sua uscita fu un flop cocente, che assieme ai magri incassi di "Blade Runner" portò Scott a ripensare il suo cinema, facendolo ripiegando su progetti meno espansivi e sperimentali; e assieme ai flop di "Krull" (1984) e "Red Sonja" (1985) pose fine alla moda del fantasy made in Usa.



EXTRA

Sono ben 3 le versioni esistenti del film: la Theatrical Cut europea, quella americana e la Director's Cut, di recente pubblicata solo per il mercato home-video.
La prima versione soffre di un montaggio insicuro, che accorcia inspiegabilmente molte sequenze privandole di pathos e talvolta persino di logica, ma presenta la colonna sonora voluta da Scott e composta da Jerry Goldsmith, che si sposa perfettamente con le spettacolari immagini del film.
Nella Theatrical Cut per il mercato americano, invece, la colonna sonora è stata composta dai Tangerine Dreams, le cui sonorità elettroniche mal si adattano all'atmosfera fiabesca, finendo per risultare tronfie e (oggi) datate; oltre allo score sono state inserite anche un paio di canzoni di Brian Ferry, anch'esse decisamente indigeste. Oltre alla colonna sonora, questa versione presenta un montaggio diverso, che aggiunge un testo introduttivo nel prologo ed una scena inedita durante l'epilogo: la resurrezione dell'unicorno e il ritorno di Tenebre sovrapposta all'ultima inquadratura. E' inoltre presente un inquadratura in più nella prima scena: un primo piano di Tenebre durante l'incontro con Blix, nel quale il demone appare immerso in una luce blu e con occhi ed artigli fluorescenti:


Oltre a privare del suo carisma diabolico il personaggio, questa nuova versione lo introduce già nei primi minuti, rovinando la sua spettacolare entrata in scena durante il secondo atto.
La Director's Cut è invece la versione più riuscita, che estende molte scene, tra le quali in confronto finale tra Tenebre e Jack, nel quale viene reintrodotto anche il concetto di inscindibilità tra luce ed ombra; anche l'epilogo è diverso rispetto alle versioni viste al cinema: Lili non resta nel bosco con Jack, ma afferma che tornerà a trovarlo e lui promette di sposarla. Tuttavia, in questa versione mancano le due sequenze più importanti presenti nell'edizione americana: la resurrezione dell'unicorno e sopratutto la risata di Tenebre sovrapposta all'ultima inquadratura, a testimonianza della sua mancata sconfitta. A conti fatti, la Director's Cut resta però la versione più completa e narrativamente compatta.

L'influenza del film sulla serie di videogames "The Legend of Zelda" (cominciata nel 1986) è fatto ormai risaputo: i personaggi di Link, Navi, Zelda e Ganondorf sono praticamente ricalcati su quelli di Jack, Oona, Lili e Tenebre, così come il mondo di Hyrule, con i suoi boschi fatati e i sotterranei irti di scheletri e fiamme, sembrano ispirarsi esplicitamente ai set del film.


Tuttavia sono forse in pochi i videogiocatori ad aver notato un altro debito di ispirazione verso il film di Scott: durante la scena nelle segrete, uno dei due cuochi-boia ha un copricapo a punta ed usa come arma un gigantesco coltello, chiara fonte di ispirazione per lo spaventoso Pyramid Head, incubo ricorrente nella serie di giochi di "Silent Hill" a partire dal suo secondo capitolo.


All'epoca dell'uscita di "Legend", Tim Curry era già famoso per aver interpretato un altro iconico personaggio "travestito": il Dottor Fank-N-Furter nel cultissimo "The Rocky Horror Picture Show".


Nel 1990 Curry avrebbe poi interpretato un altro famoso mostro dal make-up pesante e grottesco, un villain iconico e ben più orrorifico del Signore delle Tenebre, responsabile di alcuni dei peggiori traumi infantili che gli spettatori dell'epoca potessero sperimentare: il pagliaccio di "It".