mercoledì 17 dicembre 2014

Il Gladiatore

Gladiator

di Ridley Scott

con: Russell Crowe, Joaquin Phoenix, Connie Nielsen, Oliver Reed, Richard Harris, Djimon Hounsou, Derek Jacobi.

Avventura/Azione

Usa, Inghilterra (2000)















Negli anni '90 si è potuto asistere al definitivo collasso artistico di Ridley Scott; apertisi con il meritato successo di "Thelma & Louise", i due lustri fautori della deriva pulp ed autoironica del cinema americano hanno visto il susseguirsi di una serie di progetti dell'ex autore uno più disastroso dell'altro: il mal riuscito e fallimentare "1492", il pomposo e derivativo "L'Albatros" (1996) e l'insostenibile "Soldato Jane" (1997); pellicole che stridevano per toni, ambizioni e risultati all'interno di una decade altrimenti foriera di pellicole interessanti nell'ambito del cinema americano.
Nell'ultimo anno della decade, preludio del nuovo millennio, Scott riesce perlomeno a ritrovare il consenso del grande pubblico firmando una delle sue pellicole più acclamate: "Il Gladiatore", rievocazione dei cappa e spada in costume degli anni '50 e '60 e cult sin dalla sua primissima uscita; tuttavia, nonostante qualche momento genuinamente emozionante, non si può certo definire questo strambo oggetto hollywwodiano come una pellicola memorabile.


Meglio sottolinearlo subito: "Il  Gladiatore" non è e non vuole essere un film storico; inutile farsi beffe della pessima e anacronistica ricostruzione della Roma di Marco Aurelio; il "genere" di riferimento, qui, è il Peplum, il "sandalone", ossia quell'accozzaglia di film in costumi antichi che imperversava ad Hollywood sino ai primi anni '60 (e a Roma sino alla fine del decennio), caratterizzata da una visione plasticosa e patinata del passato, nel quale la verosomiglianza cedeva volentieri il posto al puro spettacolo per sconfinare spesso e volentieri nel cattivo gusto e nel ridicolo involontario, nonostanti tra gli esponenti più celebri del filone rientrino opere del calibro di "Ben-Hur" (1959) e "Spartacus" (1960). Nel film di Scott, costumi, scenografie, locations e oggetti di scena sono tutti rigorosamente fuori posto; tra balestre messe in mano ai gladiatori piuttosto che ai guerrieri medioevali, combattenti con capelli impomatati, pretoriani agghindati come proto-nazisti, volantini che pubblicizzano i comabttimenti nell'arena ed elmi borchiati che sembrano usciti da "Mad Max", quello de "Il Gladiatore" è un mondo fuori dal tempo risibile, ma al contempo genuinamente spettacolare, che azzecca almeno due "fatti storici" virtualmente inverosimili ma categoricaemente veritieri: i gladiatori erano davvero acclamati dal popolo come rockstar antiche e l'imperatore Commodo fu davvero ucciso combattendo contro uno di loro, lo schiavo Narcisso, la cui storia è stata di ispirazione per la sceneggiatura.
Il peccato venaile nella visione di Scott risiede, semmai, in alcune pessime scelte estetiche e stilistiche; semplicemente inguardabile è la sua Roma toalmente ricostruita in GCI nei campi lunghi: visibilmente falsa, con effetti di luce che avvicinano la visione a quella di un bruto film d'animazione e scenografie improbabili che distruggono la sopsensione dell'incredulità. Altrettanto ridicoli sono alcuni costumi, come quelli indossati dagli schiavi: vistose casacche dorate che sembrano uscite da "Flash Gordon" (1980) o "Dune" (1984) per la loro genuina pacchianagine, rendendo il mondo del film più vicino alle visioni di un Fellini in crisi di ispirazione che a quelle di un autore un tempo attentissimo alla ricostruzione storica credibile, e del tutto indigeribile anche nell'ottica patinata del Peplum.


Semplicemente inguardabili sono poi le sequenze d'azione; dimentico del buon gusto o anche, e più semplicemente, della grammatica filmica, Scott pesca a piene mani dal "cinema" di Michael Bay e dirige gli scontri con più cineprese contemporaneamente, inquadrature strettissime e otturatore chiuso per annullare ogni profondità di campo; di fatto, la macchina da presa coglie dal vivo ben pochi movimenti e l'azione viene ricostruita totalmente in sala di montaggio dal fido Pietro Scalia; risultato: non è dato capire cosa succeda quando Massimo impugna la spada contro i suoi avversari. Nel vedere quelle immagini sciatte, imprecise, talvolta orgogliosamente brutte, la mente corre così a rifugiarsi nei ricordi, nelle reminiscenze delle splendide ed ipnotiche sequenze action de "I Duellanti" (1977), dove il montaggio ricopriva un ruolo narrativo, non supplettivo dell'azione del regista, e l'azione era sempre precisa, chaira, fluida e per questo avvincente.


Al netto degli inescusabili difetti di messa in scena, ciò che rende questo strambo omaggio alla Hollywood che fù godibile e finanche coinvolgente è, paradosso puro, la storia; storia che, nella sua trama essenziale, risulta stereotipata e manichea, ma che riesce comunque a colpire; merito dei dialoghi di John Logan, pomposi ed aulici, ma che ben si adattano alla caratterizzione drammaturgica e tragica dei personaggi; delle performances degli attori, con un Russell Crowe empatico e trascinante (premiato con un Oscar forse non del tutto meritato) ed un Joaquim Phoenix visibilemente divertito nei panni dell'imperatore folle, attorianti dall'ultima, intensa prova del compianto Oliver Reed e da un Richard Harris semplicemente perfetto nel ruolo del saggio Marco Aurelio.


Persino il finale, elegiaco ed onirico, risulta tutto sommato coerente con il tono narrativo: la pomposità pseudo-shakespeariana riesce davvero a commuovere e a sfiorare la pura epica.
Ecco dunque spiegato l'immenso successo e il favore del pubblico per un film tutto sommato malriuscito, una pellicola goffa, ma dalle nobili intenzioni, le cui componenti migliori sono, malauguratamente, non ascrvibili al lavoro di Scott, fautore invece degli aspetti peggiori, a conferma, purtroppo, della sua caduta in disgrazia.

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