mercoledì 30 dicembre 2015

Il Ponte delle Spie

Bridge of Spies

di Steven Spielberg.

con: Tom Hanks, Mark Rylance, Alan Alda, Domenenick Lombardozzi, Amy Ryan, Francis Gary Powers, Jesse Plemons, Will Rogers, Sebastian Koch.

Usa, Germania, India 2015















Alle soglie dei settant'anni e con oltre cinquanta regie accreditate, Spielberg continua a sorprendere. Perchè su di lui è stato scritto tutto ed il contrario di tutto: prodigio della Nuova Hollywood, distruttore di un nuovo modo (all'epoca) di intendere la narrazione filmica, innovatore ineguagliato, massacratore di botteghini, artista raffinato, ruffiano indefesso e chi più ne ha più ne metta.
Dinanzi allo spettacolo, spiazzante ed eccelso, de "Il Ponte delle Spie" converrebbe rivedere e ripercorrere la sua carriera e capire, con distacco, quanto di effettivamente valido ci sia stato e quanto, invece, sia frutto di sopravvalutazione.



Stati Uniti, 1957. Dopo una sortita della C.I.A., Rudolf Abel (Mark Rylance), spia sovietica sotto copertura, viene tratto in arresto. Per difenderlo nell'imminente processo viene nominato James Donovan (Tom Hanks), avvocato specializzato in diritto assicurativo, il quale riesce a convincere il giudice di merito ad evitare la condanna a morte. Tempo dopo, a seguito della cattura del giovane pilota Francis Powers (Austin Stowell) da parte delle autorità sovietiche e dello studente Frederic Pryor (Will Rogers) da parte della DDR, Donovan viene ingaggiato dall'Agenzia per trattare lo scambio di prigionieri.


Più che un thriller d'altri tempi o un pamphlet sullo scontro tra morale nazionale e diritto, l'ultima fatica di Spielberg è uno spaccato dei primi anni della Guerra Fredda. Uno spaccato integerrimo ed incredibilmente asciutto. Tralasciata ogni retorica, messo da parte lo spirito patriottico e la ridondanza di "Salvate il Soldato Ryan" (1998) e "Lincoln" (2012), l'autore, coadiuvato nientemeno che dai fratelli Coen in sede di script, traccia una descrizione ferma e marcata della paranoia imperante negli States, dando spazio ai filmati di propaganda mostrati ai bambini su come comportarsi un caso di attacco nucleare causticamente giustapposti al giuramento di fedeltà alla bandiera e a personaggi secondari rozzi, stupidi e fieramente violenti, che non si farebbero problemi a calpestare la legge pur di giustiziare il "pericolo rosso". Descrizione al vetriolo figlia della genialità del duo di sceneggiatori, il cui tocco si sente anche e sopratutto negli sprazzi di umorismo che costellano anche le sequenze più serie, come l'incontro tra Donovan e il capo della DDR o quello con la finta famiglia di Abel.
Ma se questa rievocazione dell'America che fu è riuscita e interessante, il merito è anche del regista.


Spielberg plasma Donovan come un "eroe per caso", un uomo qualunque chiamato a recitare una farsa, ossia un processo vistosamente afflitto da vizi procedurali, il cui esito è già scritto; ma che, nonostante tutto, riesce a tirare fuori il meglio da un situazione a lui sfavorevole. Nella seconda parte, questa "spia per caso" deve affrontare l'ostilità dei vertici della Repubblica Democratica Tedesca, pronti a tutto per arrivare alla ribalta internazionale e per questo ancora più pericolosi dei Sovietici. Descrizione che pur viziata da inesattezze storiche (prima di divenire un affermato civilista, il vero Donovan era stato consulente dell'OSS durante la II Guerra Mondiale, il che spiega il suo reclutamento da parte della C.I.A.), riesce a convincere e che ben si poggia sulle spalle di uno stagionato Tom Hanks. Un uomo comune chiamato a reggere le vite di tre persone e i destini delle due sfere mondiali il quale non si cura delle critiche o delle minacce di una società becera e che per questo diviene fin da subito simpatico, nonostante il finale fin troppo ottimista, decisamente spielberghiano ed indigesto.


Finale che tutto sommato mal si sposa con il tono del film, secco ed immediato, privo di ogni volontà agiografica e per questo decisamente convincente. Una sorta di "nuovo corso" nel cinema di un autore solitamente avezzo alle semplificazioni e alle spettacolarizzazioni narrative, che qui ritrova, come in "Munich" (2005), un gusto per la semplicità classica, quasi eastwoodiana, davvero gradita, che rende questo suo ultimo exploit uno dei migliori della sua carriera.

lunedì 21 dicembre 2015

Star Wars- Il Risveglio della Forza

Star Wars- The Force Awekens

di J.J.Abrams.

con: Daisy Ridley, John Boyega, Adam Driver, Harrison Ford, Peter Mayhew, Carrie Fisher, Mark Hamil, Domhnall Gleeson, Oscar Isaac, Andy Serkis, Lupita Nyong'O, Gwendoline Christie, Max Von Sydow, Anthony Daniels, Kenny Barker.

Fantastico/Avventura

Usa 2015











---CONTIENE SPOILERS---


Dieci anni dopo "La Vendetta dei Sith" (2005), il fandom di "Star Wars" non è più lo stesso. Appurata la fallacia di Lucas, subite le delusioni della "nuova trilogia", stanchi delle nuove edizioni dei primi tre film che ogni due o tre anni si affacciano sugli scaffali, i fans sembrano (o sembravano) più smaliziati verso il loro oggetto di culto.
Eppure, quando fu annunciata la lavorazione de "Il Risveglio della Forza" in molti gioirono. Forse per il coinvolgimento di J.J. Abrams, che già riuscì a rilanciare il marchio di "Star Trek" nel 2009. Forse per il semplice fatto che questo nuovo "episodio" avrebbe fatto da seguito a "Il Ritorno dello Jedi" (1983), ossia avrebbe continuato la storyline più amata.





Fatto sta che questo nuovo exploit è il primo film della saga ad essere stato concepito e prodotto per fini unicamente ed esclusivamente commerciali, ossia far conoscere il marchio a quei giovanissimi che non hanno nemmeno potuto conoscere in sala la "nuova trilogia" e far tornare in sala gli amanti di vecchio corso. Tolto di mezzo di demiurgo Lucas, l'intera operazione poggia sulle spalle di Abrams, ma sopratutto degli esecutivi Disney, che non hanno badato a spese e compromessi pur di far contenti i fans: tornano di forza tutti i personaggi più amati interpretati dal cast originale, oltre che Lawrence Kasdan, sceneggiatore di quel "L'Impero Colpisce Ancora" (1980) giustamente osannato.
Il paradosso puro è che questa operazione giostrata a tavolino per piacere a tutti e per forza può dirsi vincente, a discapito della palese derivatività.




Dalla trilogia classica ritornano tutti gli elementi che ne fecero la fortuna. Primo fra tutti quello dei "cattivi", i nazisti spaziali che opprimono i buono, ora definiti "Nuovo Ordine". Questa volta, la crudeltà di questi miliziani non viene celata dietro la sola distruzione di un pianeta, ma sbattuta in faccia fin dalla prima scena, con la fucilazione degli innocenti. Tornano di peso anche le ambientazioni: un pianeta deserto, qui chiamato Jakku al posto del classico Tatooine, uno innevato, ossia la roccaforte del Nuovo Ordine, e persino uno boscoso; tris di ambientazioni nostalgiche, dietro le quali si cela un forte manierismo di scrittura.
Quasi tutti gli elementi che compongono la storia di base sono anch'essi ripresi dai vecchi film. Anche qui la trama prende le mosse da un mcguffin occultato all'interno di un droide che per caso viene raccolto da un'abitante di un pianeta desolato, la quale sogna di fuggire via, ossia la giovane Rey (Daisy Ridley), che seguirà le vie della forza anche grazie ai consigli di una piccola e determinata creatura aliena, Maz Kanata (Lupito Nyong'O), al seguito del cui incontro avrà una visione degli eventi futuri. I cattivi sono nuovamente capeggiati da un genio del male sfregiato, il signore dei Sith Snoke (Andy Serkis), guidati in battaglia da un cavaliere del lato oscuro, Kylo Ren (Adam Driver), nonchè da un irreprensibile ufficiale simil SS, il generale Hux (Domhnal Gleeson). La battaglia finale si combatterà nei pressi di una super-arma imperiale, la stazione Starkiller, nuova e più imponente Morte Nera, della quale i nostri eroi dovranno disattivare gli scudi per permettere ad un asso dell'aviazione, il pilota Poe Dameron (Oscar Isaac), di bombardarne il punto debole.
In sostanza: proprio come avveniva nel precedente film di Abrams "Star Trek: Into Darkness" (2013), che saccheggiava parti de "L'Ira di Khan" (1982), anche qui si ha un sequel-reboot composto con i pezzi più amati dei film più amati dei fans. La sensazione di dejà-vu è forte e la natura strettamente nostalgica-commemorativa diviene quasi ridicola a causa del numero spropositato di citazioni che vengono letteralmente sputate in faccia allo spettatore.
Eppure, "Il Risveglio della Forza" risulta, al di là di tutto, estremamente riuscito sul piano narrativo ed estetico grazie agli sforzi di regista e sceneggiatore.




Kasdan riesce a caratterizzare a dovere il terzetto di protagonisti inediti. Rey, sebbene inizialmente ricalcata sul giovane Luke Skywalker, convince per la sua carica vitale, degna erede della tradizione di eroine della saga, nonchè per i dubbi che affliggono il suo cammino sui passi della Forza, non più una linea dritta come avveniva in "Guerre Stellari" (1977), bensì un sentiero fatto di vera paura e dolore. Il giovane Finn (John Boyega), il cui nome di battesimo e la storia di origini rimandano direttamente alla distopia di "THX1138" (1970), è uno dei personaggi più sfaccettati dell'intera serie: uno stormtrooper che si ribella all'omologazione, ma non diviene subito un eroe, quanto uno scavezzacollo che riesce a trovare il coraggio solo per salvare la sua bella compagna. Il villain Kylo Ren, novello Darth Vader, ha anch'esso dei tratti caratteriali "grigi" che aumentano la profondità della narrazione: un jedi questa volta davvero sedotto dal potere del Lato Oscuro, ma ancora dilaniato dai sentimenti paterni. Un antagonista che, dal terzo atto in poi, viene svestito in parte della sua carica intimidatoria per farsi personaggio completo, via di mezzo tra la vittima e il carnefice.
Persino il ritorno di Han Solo, interpretato da un 73enne Harrison Ford che ancora sprizza carisma da tutti i pori, porta ad una forma di approfondimento del personaggio: un ex eroe tornato a fare il pirata per dimenticare il tradimento del figlio, il quale ama ancora come tale.
E a differenza del passato, non mancano momenti nei quali l'azione rallenta, il ritmo si rilassa per permettere di dare spazio ai personaggi, ai loro sentimenti e alle loro relazioni, piuttosto che all'azione dura e pura, permettendo allo spettatore, neofita o veterano che sia, di avvicinarvisi, evitando di schiacciarli a meri pupazzi in un gioco di luci e suoni.



Il tocco di Abrams trasforma le battaglie in veri e propri spettacoli visivi. Abbandonati i green-screen e la CGI ad oltranza, il cineasta si rifà al Lucas prima maniera, con effetti pratici, location e animatronici. Il mondo di "Star Wars" non è mai stato così vivo e credibile su schermo e le sequenze d'azione, grazie all'uso di set fisici, abbondano di movimenti di macchina che le rendono finalmente cinetiche e rutilanti. E come Kasdan in sede di scrittura, anche  Abrams non ha paura di rallentare il ritmo, di concedersi un avvicinamento ai personaggi e finanche un finale triste, dove gli eroi per una volta non trionfano, ma devono fare i conti con il lutto anche quando raggiungono i loro scopi.




Pur con i suoi difetti, "Il Risveglio della Forza" è un buon esempio di cinema disimpegnato interessante. Un ritorno alle atmosfere e agli elementi che resero celebre la creatura di Lucas riletti in chiave moderna, più attenta al contenuto che non al mera forma.

sabato 12 dicembre 2015

4 Mosche di Velluto Grigio

 di Dario Argento.

con: Michael Brandon, Mimsy Farmer, Bud Spencer, Jean-Pierre Marielle, Aldo Bufi Landi, Callisto Calisti, Oreste Lionello.

Thriller

Italia, Francia 1971















---CONTIENE SPOILERS---

Ultimo capitolo della "trilogia animale", cominciata sorprendentemente con "L'Uccello dalle Piume di Cristallo" (1970) e proseguita in modo mediocre con "Il Gatto a Nove Code" (1971), "4 Mosche di Velluto Grigio" rappresenta un ritorno alla forma smagliante degli esordi per il primo Argento. Thriller "classico", basato sui dettami del "giallo all'italiana" e del canonico "Whudunnit", questo terzo exploit si lascia apprezzare tutt'oggi per la carica visionaria, la bella fotografia e l'uso a tratti originale dei luoghi comuni del genere.


Il batterista Roberto (Michael Brandon) viene coinvolto suo malgrado in un omicidio. Ossessionato dai sensi di colpa, ben presto viene ricattato da uno strano figuro, la cui identità è celata da un'inquietante maschera infantile. Con l'aiuto del barbone Diomede (Bud Spencer), del suo amico detto "il professore" (Oreste Lionello) e di uno scalcinato detective omosessuale (Jean-Pierre Marielle), Roberto cerca in tutti i modi di smascherare il suo stalker.


Abbandonata la piattezza all'americana del film precedente, Argento torna a costruire la narrazione attorno al tema della visione e della sua manipolazione. Roberto viene incastrato grazie ad una vera e propria sciarada e ricattato con le foto della stessa, dalle quale traspare una sua possibile, ma fasulla, colpevolezza. Allo stesso modo, il dettaglio che gli permette di smascherare il killer deriva dall'ultima immagine saldatasi nella cornea di una delle vittime, data dalle "4 mosche" del titolo.
Tema della visione che viene sottolineato dalle belle sequenze in soggettiva, che anticipano quelle ancora più riuscite del successivo "Profondo Rosso" (1975): la visione del killer e quella di Roberto si intrecciano nella soggettiva per annullare ogni intermezzo tra soggetto e spettatore, con esiti eleganti e spettacolari, come la scena dell'ingresso al teatro o l'omicidio dell' "attore", totalmente consumato in prima persona, in una ripresa del classico "L'Occhio che Uccide" (1960).


La rielaborazione del giallo si riaffaccia nelle atmosfere oniriche e nei sogni del protagonista. La bellissima fotografia di Franco di Giacomo immerge le azioni in una tenebra opprimente, che si fa setting ideale per le sequenze di morte, ancora più stilizzate che in passato. Le visioni di Roberto e del killer si scindono per farsi dapprima rielaborazione degli eventi, poi, una volta giunti nel finale, flashback e flashforward degli stessi, con la decapitazione che si trasforma da elaborazione del senso di colpa ad anticipazione della bella sequenza di chiusura. Il tema della pazzia e il gender del killer ritornano nuovamente e, da qui, divengono tratti essenziali nella poetica dell'autore, rinverdendone i fasti.
Le false piste (i "red herring" derivanti dal giallo all'americana) si moltiplicano: tanti i personaggi introdotti con possibili moventi per gli omicidi, molti dei quali riescono davvero a sviare l'attenzione dello spettatore più attento e partecipe. Tanto che la rivelazione finale giunge davvero inaspettata, prova dell'ottima costruzione narrativa.


Laddove Argento inciampa è nella commistione con il registro comico. I personaggi di Diomede, interpretato da un inedito Bud Spencer, del professore e del detective spezzano fin troppo bene la tensione, introducendo una serie di sequenze troppo sopra le righe, come quella della "mostra d'arte funeraria", che sembra uscita più da un episodio di "Fantozzi" che a un thriller all'italiana.
Giustapposizione che non sempre paga, ma che non affossa del tutto le sorti della pellicola, a conti fatti forse tra le migliori del (ex) maestro del brivido.

giovedì 10 dicembre 2015

The People vs. George Lucas

di Alexandre O.Philippe.

Documentario

Usa 2010





















Due generazioni nate e cresciute nel segno di "Star Wars". Un fandom enorme ed in costante crescita. Intere schiere di individui (matti? Deviati? Semplicemente entusiasti?) disposti ad affermare candidamente come "Star Wars" sia la loro unica ragione di vita. Un fenomeno inarrestabile, irrefrenabile, irraggiungibile, quello della creatura di Lucas, che si è imposto fin dalla prima, timida ma trionfale comparsa in sala nel 1977.
E nel 2010, cinque anni dopo la stoccata finale de "La Vendetta dei Sith" (2005) e al contempo cinque anni prima dell'avvento de "Il Risveglio della Forza" (2015), il documentario "The People vs. George Lucas" cerca di chiarire lo stato delle cose, in particolare il rapporto controverso tra il creatore e gli adepti, in quella che è divenuta una vera e propria divinazione religiosa, attraverso una divisioni in capitoli tematici,dissezionando l'opera di Lucas, il suo approccio alla stessa e le reazioni dei fans.




Perchè "Star Wars", oramai, è un fenomeno di massa, un ciclone che ha invaso le vita di milioni di persone, che a loro volta hanno omaggiato, sfottuto, ripristinato ed esaltato il loro "tesoro" in milioni di modi possibili attraverso internet. Parodie su parodie, scene ricostruite con pupazzetti in stop motion, attori improvvisati, costumi tirati su alla bene e meglio o addirittura uova dipinte a mano. Il tutto per testimoniare l'amore verso la creatura del filmmaker di Modesto. Un amore che non conosceva confini. Almeno fino al 1997.
L'opera di Philippe, a tratti divertita, talvolta inaspettatamente spiazzante, dà voce al contrasto avvenuto a seguito dell'uscita delle "Edizioni Speciali", intervistando fanboys da tutto il mondo, tra i quali spiccano Neil Gaiman e, nelle vesti di guest star illustri, l'ex "secondo padre" della saga Gary Kurtz, nonchè Francis Ford Coppola.
Edizioni Speciali che hanno commesso il peccato di togliere una certezza fondamentale al pubblico: l'opera cinematografica (ed in generale l'opera d'arte) in ultima istanza non appartiene a chi la osserva (o la compera), ma al suo creatore, che in quanto tale può sempre decidere di modificarla. Affermazione categorica, che Lucas persegue con tutte le sue forze pur di rivendere il tanto amato marchio. Nonostante la sua accorata testimonianza al Congresso degli Stati Uniti, nel 1988, dove, in un processo vero, accusava Ted Turner di aver vandalizzato alcuni classici del cinema americano proponendone una versione a colori sul suo network televisivo.
Sorge, dunque, un primo ed urgente dubbio: tale statuizione è vera o quantomeno condivisibile? Ognuno, naturalmente, finisce per pensarla come vuole, ma su tutto svetta il cinismo di Lucas nel non voler restituire ai fans, ossia alla sua principale fonte di reddito e sostegno, quella prima, imperfetta ma mai dimenticata versione della "trilogia classica".




Ancora più sorprendente è il confronto generazionale tra chi è cresciuto amando proprio quella prima trilogia ed i giovani che si sono avvicinati all'universo lucasiano con la vituperata (ed obiettivamente inferiore) nuova trilogia. La rabbia dei fans più anziani è tangibile, talvolta persino condivisibile, ma appare quantomai interessante vedere come i bambini apprezzino anche le trovate più stupide dei nuovi film. E ciò se si tiene conto di come, a detta dello stesso autore, essi siano destinati proprio ad una platea di giovani. Un "tradimento" verso i fans di vecchia data utile a capire la trasformazione del filmmaker: se prima la sua attitudine era quella di un Walt Disney, in grado di creare film per infanti trattando loro, però, come adulti intelligenti e, così, conquistando un pubblico trasversale, ora Lucas è più simile ad un qualsiasi regista di film d'animazione occidentale, convinto che il pubblico giovane sia per forza di cose stupido e che, di conseguenza, vada abbindolato a suon di battutine e luci colorate.
Tradimento che si palesa in quel mitico Maggio del 1999, quando la febbre dei fans esplode alla prima de "La Minaccia Fantasma". Un'attesa spossante, durata sedici lunghissimi anni, ripagata con un film talmente brutto da far infuriare anche gli aficionados più irriducibili. D'obbligo, in questa parte, assaltare il personaggio di Jar Jar Binks, ripetendo per l'ennesima volta la sua fastidiosità. E se le posizioni d'odio sono collaudate, più curiose sono quelle dei fanboys francesi, che anzi apprezzano il personaggio proprio per la sua totale estraneità al contesto serioso del film. Sopratutto, è l'intervento di Neil Gaiman a suscitare interesse, affermando come un personaggio mal riuscito sia sempre una parte delle visione dell'autore e che, per questo, nessun fan può arrivare a chiedergli di cancellarlo.



Critica al vetriolo anche sull'impero commerciale di Lucas, con le migliaia di giocattoli che negli anni sono stati prodotti. Semplicemente agghiacciante è la testimonianza dei fans più accaniti, che, con loro stessa sorpresa, si sono ritrovati a comprare qualsiasi oggetto avesse il logo di "Star Wars" sulla confezione: decine di edizioni Home-Video, centinaia di riproposizioni in scala del medesimo personaggio, senza contare i costumi, i pigiami e le mutandine a tema.




Si arriva alla parte più controversa: l'odio viscerale verso Lucas. L'odio ingenerato dalla delusione dei nuovi film, ma anche del terribile "Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo" (2007). Odio per una volta non campato in aria, ma dovuto alla presa di coscienza di come Lucas non abbia più talento alcuno e, men che meno, rispetto per l'intelligenza del suo pubblico.
L'esempio chiarificatore è l'ormai mitico episodio di "South Park" intitolato "The Chinese Syndrome", dove Lucas stupra le sue creature e con esse l'infanzia degli spettatori. Ed anche qui il film di Philippe si dimostra attento a non prendere posizioni, ma a dare a ciascuna "parte" il giusto spazio, tra chi appoggia la satira di Parker & Stone e chi invece se ne infischia.
La testimonianza che resta, tra la visione dei fans e le dichiarazioni di conoscenti, è comunque quella di un uomo che per anni si è opposto al controllo creativo dei produttori sulle sue opere, che ha sempre cercato di dare il meglio di sé sperimentando nuove vie, ma che alla fine ha letteralmente "ceduto al lato oscuro", tramutandosi in un mercante privo di inventiva, un produttore che pensa solo al profitto, preoccupato solo di accalappiare un'audience più giovane e facilmente plagiabile. Un uomo che arrivato alla vetta di Hollywood, ha deciso di ritirarsi, di non fare nulla perchè ora soddisfatto sotto il profilo economico. Un uomo che, nelle parole dell'amico e mentore Coppola che chiudono il film, può anche aver creato un impero transmediatico, ma il cui talento era immane, talmente grande da poter (una volta) eclissare la sua opera più famosa.


venerdì 4 dicembre 2015

Fratelli

The Funeral

di Abel Ferrara.

con: Christopher Walken, Chris Penn, Annabella Sciorra, Isabella Rossellini, Vincent Gallo, Benicio Del Toro, Gretchen Mol, Paul Hipp, Victor Argo.

Usa 1996















---CONTIENE SPOILERS---

Nel 1996 la poetica di Ferrara raggiunge un ulteriore culmine. Dopo la fusione totale tra le istanze di genere e le esigenze introspettive, culminate nel capolavoro "Il Cattivo Tenente" (1992) ed il successivo superamento degli schematismi propri del genere e della cinematografia occidentale tutta, il grande autore newyorkese crea un nuovo exploit dove fonde, questa volta definitivamente, il registro del gangster movie e lo spaccato morale di una comunità, questa volta circoscritta a quella cattolica-italoamericana, ossia il suo territorio ideale. "Fratelli" (il titolo italiano ben si adatta alla tematica della famiglia dissezionata nel film) rappresenta un'ulteriore apice nella sua carriera, una pellicola incredibilmente lucida eppure profondamente dolorosa, un nuovo viaggio sentito nel territorio del Male e del dolore, ultima collaborazione con l'amico Nicolas St.John ed excursus definitivo nel buio dell'animo umano, forse ancora più disperato e totalizzante del precedente "The Addiction" (1994).


Come da tradizione, Ferrara riprende il genere e lo piega ai propri fini. Il gangster movie classico qui viene trasfigurato in tragedia, come già avveniva ai tempi della New Wave con "Il Padrino" (1972); non per nulla, giusto un paio d'anni prima usciva nelle sale il "Carlito's Way" di De Palma, ideale punto d'arrivo dell'opera di riscrittura del filone. E sempre come da tradizione, Ferrara e St.John vanno oltre, scardinandone tutte le convenzioni.
I tre fratelli Tempio non hanno nulla a che spartire con i criminali che solitamente solcano gli schermi, neanche quelli più smaliziati e stanchi presentati da De Palma e Pacino, i quali non sono che un riflesso, nel film, richiamati nella scena iniziale con le immagini di "La Foresta Pietrificata" (1936): la figura di Bogart, il film nel film, testimonia la totale estraneità di ogni romanticismo al mondo di "Fratelli". I suoi personaggi sono più complessi, più vicini alla realtà di quanto si possa credere. Persone chiamate a fronteggiare le più umane delle emozioni e gli aspetti più turpi della vita da strada, alle quali ogni forma di idealizzazione, anche solo metaforica, viene negata.


I tre protagonisti Ray (Walken), Cesarino detto "Chez" (uno straordinario Chris Penn, premiato con la Coppa Volpi a Venezia) e il defunto Johnny (Vincent Gallo) sono tre figure perse nei meandri della loro stessa oscurità.
Ray è il classico personaggio "ferrariano": un uomo vinto dall'idea dell'ineluttabilità del Male, al pari dei vampiri i "The Addiction". Impersonificato nelle movenze rigide e nel volto luciferino di un Christopher Walken al solito sublime, è un "dannato" lontano anni luce da ogni forma di redenzione. "Ci dicono che tutto quello che facciamo è una libera scelta, ma allo stesso tempo ci dicono che abbiamo bisogno dell Grazia di Dio per fare il bene" e "Se faccio qualcosa di sbagliato è perchè Dio non ha concesso la Grazia. Se questo mondo fa schifo, è colpa sua". Non c'è possibilità ammenda nel suo mondo: Ray è perso nel concetto steso di dannazione, percorre la via della vendetta in modo automatico, seguendo una specie di copione scritto dal quale è impossibile deviare. La coscienza del suo male ne acuisce la portata totalizzante, non lo rende libero da nulla, ma ancora più schiavo. Se in "The Addiction" il finale aperto e vago lasciava presagire una forma di superamento del dolore causato dalla presa di coscienza, ora questo dolore è ineludibile, questa realizzazione annichilente. Si può solo accetare la perdizione, essere cosciente che, dinanzi a Dio, si verrà castigati all'Inferno. Nè più, nè meno.



Johnny, il più giovane dei tre, è il ribelle, l'anticonformista e provocatore. A discapito delle origine cattoliche, aderisce al partito comunista, intrigato dalle idee del compagno Stein (un cameo di David Patrick Kelly), si diverte a provocare gli altri criminali, ad inveire contro la smania di potere. Arriva ad intrecciare una pericolosa relazione con la moglie del boss Gaspare (Benicio Del Toro) per il solo gusto di infangarlo, sbattendola in faccia al fratello Chez solo per provocarne le ire. Johnny non ha morale: non è sicuramente un buono, ma ha degli ideali, ossia la lotta contro quella categoria di che sfrutta il prossimo per il profitto. Un'aderenza al marxismo, la sua, che intreccia alla formazione criminale per perseguire una personale forma di "giustizia sociale" con la violenza, in un trionfo, nei fatti, dell'egoismo più sfrenato. Non è un eroe, Johnny, ma un "semplice" ribelle, una scheggia impazzita che decide di infrangere le tradizioni familiari (lo scontro frontale con gli "affari") e sociali (l'aderenza al comunismo); un uomo che tenta di disfarsi di ogni forma di costrizione, ma che, inevitabilmente fallisce. Un personaggio che nasce morto, vive solo nei ricordi degli altri personaggi e al quale viene negata ogni forma di tragicità, morendo per mano di un comune ragazzo.



Chez, ultimo polo del trio, è l'ideale antitesi di Ray e Johnny. Non ha l'indole egoista del più giovane, né il cinismo criminale del maggiore. Chez è cosciente del male, ma anche del fatto che la libera scelta lo possa eliminare. Coscienza che, tuttavia, provoca anche in lui dolore e follia. Dolore dovuto alla constatazione di come il prossimo vi si abbandoni coscientemente al male: nella scena della prostituta, la sua ira viene ingenerata dalla scelta della ragazza, poco più di una bambina, di prostituirsi anche quando può non farlo. La realizzazione del Male ingenera ferocia, dovuta all'incredulità con cui vi si concede spontaneamente. La follia, successiva, è solo in parte dovuta all'ereditarietà: il padre, gangster di vecchia data, gli ha trasmesso la tara dell'insania, così come trasmise il "peso" del male al fratello Ray. Follia dovuta all'incapacità di raggiungere una catarsi o anche semplicemente un compromesso con la sua natura violenta, sostanziandosi in un climax distruttivo, nel quale decide di porre fine al dolore proprio e altrui proprio con la violenza, con quel male che tanto a lungo lo ha corroso.



Sullo sfondo, come nella tragedia classica, gli orrori degli "eroi" si riverberano sulle donne, il trio di mogli interpretato dalle bellissime Isabella Rossellini, Annabella Sciorra e Gretchen Mol, nel quali si confrontano con i drammi, le paure e le debolezze dei personaggi maschili, sottolineando la totale mancanza di romanticismo in questi "gangster" di un mondo crudo e dolorante. Le donne sono le uniche depositarie della ragione, coro mai ascoltato del raziocinio, di quel Bene che i personaggi maschili ignorano o schivano per abbandonarsi alla violenza del mondo.




Un mondo, quello di "Fratelli", ammantano nell'oscurità. Abbandonati i contrasti forti di "King of New York" (1990), resta solo il buio a cingere i corpi dei personaggi, che come nella tradizione del gangster movie classico appaiono quasi sempre a mezza figura, cui Ferrara concede pochissimi primi piani, come al solito straordinariamente incisivi. Un mondo nel quale il dolore non trova una chiusa, se non nella circolarità della morte insensata. Nel quale l'omicidio è futile: il ribelle e dannato Johnny viene giustiziato per motivi puramente pretestuosi da un perfetto nessuno, all'uscita di quel cinema nel quale amava perdersi, ossia fuori dalla tradizione filmica, ma anche fuori da qualsiasi abbellimento.
La vendetta non è catarsi. Il castigo non è foriero di pace. L'uccisione del "colpevole" è il punto di non ritorno per Ray, l'apice dell'abisso in cui si precipita scientemente, rinnegando totalmente quell'umanità che la figura femminile tentava, invano, di risvegliare. Omicidio che si fa tramite irrimediabile per l'autodistruzione.
Solo nella morte, nel lutto definitivo, i tre fratelli ritrovano la pace, incarnata dalla bellissima sequenza nel quale intonano, divertiti e appassionati, "Tonight will be the night", abbracciati e sorridenti, in un ricordo del passato (remoto? recente?) che ritorna a testimoniarne la ritrovata comunione.

martedì 24 novembre 2015

Bone Tomahawk

di S.Craig Zahler.

con: Kurt Russell, Patrick Wilson, Richard Jenskins, Lili Simmons, Matthew Fox, Sid Haig, David Arquette, Kathryn Morris, Michael Parè, James Tolkan, Sean Young.

Western/Horror

Usa 2015















Il western è un "genere" immortale. Dato più volte per estinto (è di qualche giorno fa la dichiarazione di Steven Spielberg secondo la quale "i cinecomic si eclisseranno come successe con il western", con evidenti risvolti ridicoli, oltre che catastrofici) e sempre, prepotentemente tornato alla ribalta, vista la sua codificazione nello stesso DNA del cinema americano, che lo ha trasfuso in ogni altro genere e filone possibile. Ultimo, ma non meno importante, l'horror, che con "Bone Tomahawk" vi viene saldato in modo curioso.



La cittadina di frontiera di Bright Hope è teatro di un misterioso rapimento. Lo sceriffo Frankilin Hunt (Kurt Russell) recluta una "posse" composta dal suo vecchio vice Chicory (Richard Jenkins), lo sfrontato vanesio Brooder (Matthew Fox) ed il cowboy O'Dwyer (Patrick Wilson), marito di una delle vittime, per indagare. I responsabili sembrano appartenere ad una oscura tribù di nativi, temuti e scacciati perchè dediti all'incesto e al cannibalismo.




S.Craig Zahler nasce come scrittore, poi votatosi al cinema dapprima come sceneggiatore, poi nelle più inusuali vesti di direttore della fotografia e, in ultimo, regista. Autore dello script ed ideatore dell'intero progetto, si rifà a fonti piuttosto originali per la sua visione western: al bando i classici John Ford e Howard Hawks, ma anche i più moderni Sergio Leone e Sam Peckinpah, Zahler guarda a Monte Hellman ed al suo west sulfureo ed introspettivo. I paesaggi di "Bone Tomahawk" sono brulli ed infestati da sterpaglie, non hanno la magnificenza della tradizione, né la vis violenta del cinema crepuscolare: la frontiera è arida, vuota, un luogo inospitale ed irto di pericoli, lontano anni luce da qualsiasi forma di mito.
I personaggi che la popolano si rifanno in parte al western più elegiaco: il vecchio sceriffo, con i suoi baffoni bianchi ed il volto duro e carismatico di Kurt Russell, non sfigurerebbe in un revival dei tempi della New Vawe americana, mentre "l'adorabile idiota" vice di Jenkins è un omaggio riuscito ai caratteristi leoniani. Tra loro, la nota più bizzarra è data da quello che si rivelerà il vero eroe della vicenda: lo storpio O'Dwyer, totalmente fuori posto in un luogo insidioso, eppure incredibilmente vincitore, in una riscrittura dei luoghi comuni quasi iconoclasta.



Il connubio tra western e horror non è ibridazione totale, quanto una saldatura tra i due: metà film viene costruita come un western bizzarro, l'altra metà come un cannibal movie alla Deodato, dove i "selvaggi" sono aizzati dall'idiozia dell'uomo bianco. Lo splatter non manca, riuscendo talvolta a disturbare, ma l'enfasi viene posta più che altro sull'assurdità di un assunto che, per quanto mai improbabile, è più verosimile di quanto si possa pensare.
E da questo punto di vista, Zahler vince la scommessa: nonostante le lungaggini e la regia acerba, il suo excursus è interessante e riuscito. Un piccolo esperimento che dà alla luce un frutto bizzarro, che forse avrebbe fatto meglio ad osare di più, ma che riesce ad incantare, sopratutto grazie al cast affiatato. Tanto da chiedersi il perchè la sua uscita sia stata destinata al solo mercato direct-to-DVD: nomi coinvolti e valori produttivi sono al pari di qualsiasi uscita cinematografica stagionale, Se non talvolta superiori.

domenica 15 novembre 2015

Star Wars- Episodio III- La Vendetta dei Sith

Star Wars- Episode III- Revenge of the Sith

di George Lucas.

con: Ewan McGregor, Hayden Christiansen, Natalie Portman, Ian McDiarmid, Frank Oz, Samuel L.Jackson, Christopher Lee.

Azione/Fantastico

Usa, 2005













L'ossessione dei fanboys di "Star Wars", si sa, non conosce confini. La loro volontà di trovare qualcosa di buono in quell'accozzaglia di pessima CGI, personaggi inesistenti e storie risibili chiamata "nuova trilogia" è talmente forte e smodata da farli somigliare al Luke Skywalker che cerca disperatamente di trovare del buono nel genitore passato al lato oscuro. Al punto che finanche una pellicola scialba e stupida come "La Vendetta dei Sith" passa, da qualche anno a questa parte, come "unico esito decente" del revival operato da Lucas.
Eppure, anche a voler essere buoni oltre che corretti, non si può davvero salvare un film come questo terzo (sesto) episodio della saga, afflitto da tutti i difetti dei suoi due predecessori e graziato unicamente da una sottotraccia narrativa interessante, ma mal sviluppata.


Come al solito, tutto ciò che rese celebre il primo "Guerre Stellari" (1977), qui viene ripreso e annacquato fin dalla prima sequenza: una battaglia stellare nella quale la CGI raggiunge, per una volta, uno status di credibilità, ma coreografata come uno scontro tra giocattoli, dove i caccia stellari non si affrontano ad armi spianate come in passato, ma con androidi che smontano i pezzi del "modellino" avversario, disinnescando automaticamente ogni forma di tensione. E nonostante il testo introduttivo esordisca con un roboante "E' guerra!", non si ha mai la sensazione, per tutto il film, di assistere ad un effettivo conflitto armato per il dominio galattico, visto che i due protagonisti Obi-Wan e Anakin non perdono occasione per fare battutine ironiche o lanciarsi frecciatine, alla faccia dell'enfasi o dell'epica.
Enfasi che si perde del tutto quando ci si accorge di come "Episodio III" sia il film nel quale lo stile di Lucas tocca il fondo. Ogni singola scena (salvo rarissimi inserti) è girata con green-screen e doppia macchina da presa in contemporanea per girare, all'unisono, campo e controcampo nei dialoghi. Ogni sequenza diventa piatta: la messa in scena è nulla, i personaggi non fanno altro che scambiarsi dialoghi vacui e stupidi stando in piedi o seduti, non c'è mordente, non c'è azione a trascinare gli eventi, solo parole, discorsi sulla politica talmente basilari da suscitare i nervi più che il riso e slanci romantici talmente smielati da cariare i denti.


La commistione tra attori e personaggi in animazione 3D raggiunge il fondo nel combattimento tra Obi-Wan e il generale Grivieus, personaggio che compare di punto in bianco, senza che lo spettatore che non conosca la serie "Clone Wars" possa anche solo intuire chi sia e cosa voglia; il loro duello è palesemente finto: Grivieus volteggia quattro spade laser, mentre lo jedi risponde a risatine, a dimostrazione di come McGregor sul set non avesse davanti nulla che non fosse un pezzo di tela colorata. Lo scontro è privo di mordente e di fisicità: i colpi non hanno peso, né ripercussioni. La magia del Cinema, dell'illusione di un effetto speciale che sembra reale quanto gli attori, che fece la fortuna della "trilogia classica", viene del tutto disintegrata.


Al solito è inutile parlare di caratterizzazioni o sviluppo dei personaggi, del tutto inesistenti. Padmè, Obi-Wan, Yoda e il Mace Windu di Samuel L.Jackson sono solo dei cartonati che fanno procedere l'esilissima storia, lanciando battutine, facendo faccette e snocciolando frasi noiose. L'enfasi viene posta di più, e finalmente verrebbe da dire, su Anakin ed il suo rapporto con Palpatine. Il giovane viene affascinato dal lato oscuro propinatogli dall'anziano senatore ed i loro dialoghi, per quanto talvolta frettolosi, sono la parte migliore del film.
Peccato che Lucas, come al solito, si sia dimenticato di ciò che rese il personaggio affascinante nel vecchi film: la seduzione del Male che subisce. Ora Anakin non è più un "giovane jedi sedotto dal lato oscuro", ma un innamorato che cede alle lusinghe dell'oscurità per salvare il suo amore adolescenziale. Non solo non si riesce a concepire un modo più complesso e credibile per causare la caduta del personaggio, ma, così facendo, lo si appiattisce in una maniera ridicola, sino a doverne giustificarne le azioni, non essendo possibile per Lucas concepire un personaggio che si abbandona volontariamente al male. E quando Anakin e Palpatine intavolano il dialogo nella famosa scena del teatro, vera delizia per i fans che vi vedono l'apice dell' "epica" starwarsiana, si resta attoniti dinanzi alla storia che si sarebbe potuto vedere su schermo ma che si è preferito relegare ad un paio di linee dialogiche. Lucas, come al solito, sottovaluta il suo pubblico, crede che la complessità spaventi lo spettatore e concede solo pretesti narrativi per gli effetti, come il peggior prestigiatore da baraccone che si possa immaginare.


Effetti che divorano, oltre la narrazione, anche stile ed estetica. Davvero insostenibile quel duello finale nella lava che sembra uscito da un videogame, per coreografia, ambientazione e totale mancanza di enfasi. Semplicemente inguardabili le sequenze di guerra tra cartoni animati del tutto prive di mordente. E quando la violenza fa capolino, si è spiazzati per il modo in cui mal si amalgama con il resto.
Come se non fosse abbastanza "Episodio III" è oltretutto un film genuinamente stupido. Non si riesce a credere ad un massacro di cavalieri dai poteri sovrannaturali ed ai limiti dell'onnipotenza effettuato da un manipolo di soldati armati di soli fucili. Si ride di gusto dinanzi alle vessazioni adolescenziali dei due amanti e alla paura infantile di Anakin per la morte. Si ride di pancia nella sequenza della morte di Padmè, che "si rifiuta di vivere", qualsiasi cosa voglia dire. E ancora di più nella scena in cui l'iconico Darth Vader perde ogni forma di fascino e carisma gridando quell'ilare "Noooooooo!", giustamente divenuto un tormentone. Ci si straccia la faccia dinanzi all'idiozia del duello "gemello" tra Yoda e l'Imperatore, dove ad un certo punto, per nessun motivo apparente, il primo decide di andarsene e lasciare che l'Impero del Male trionfi, stratagemma di scrittura di una pigrizia rivoltante.
E si ride ancora dinanzi alla totale incapacità di Lucas di dare una continuità alla sua stessa visione: come sempre, risvolti di trama ed intere sequenze cozzano con quanto visto nella "trilogia classica". Perchè se sulla carta sembrava simpatico far abitare Luke sul pianeta natale di Anakin, in prospettiva non si capisce per quale motivo il saggio Yoda decida di lasciarlo proprio lì dove il padre potrebbe trovarlo con più facilità. Quanto a Leia, Lucas si è dimenticato di come ne "Il Ritorno dello Jedi" (1983) parlasse di sua madre, che di fatto non ha mai conosciuto. E come sempre gli jedi riservano l'assenza di continuità più marcata: a  quanto pare l'abilità di sopravvivere alla morte non è innata in chi muore, ma in chi li osserva; sorge quindi il dubbio su come Luke potesse vedere senza problemi il fantasma di Obi-Wan, mentre questi necessita di uno speciale addestramento per farlo.


Superato il ridicolo, l'inconsistenza, la mancanza di continuità e le idiozie assortite, quel che resta è uno spettacolo vuoto, compiaciuto nell'abuso di effetti, senza nè arte nè parte e sopratutto senz'anima. Un film infantile, ridicolo, genuinamente cretino, il perfetto veicolo per vendere il marchio, per lucrare sulla buona fede e, purtroppo, sulla stupidità dei fans. Un prodotto fatto da un uomo ormai privo di talento e pensato per gente senza pretese e senza cervello. Un affronto a quanto di buono c'era in passato nella "saga cosmica" per eccellenza" e a quanto di buono possa esserci nel cinema di puro intrattenimento.

lunedì 9 novembre 2015

Il Gatto a Nove Code

di Dario Argento.

con: James Franciscus, Karl Malden, Catherine Spaak, Cinzia De Carolis, Pier Paolo Capponi, Rada Rassimov, Horst Frank.

Thriller

Italia, Francia Germania- 1971
















Il successo internazionale di critica e pubblico de "L'Uccello dalle Piume di Cristallo" (1970) lanciò immediatamente Dario Argento nell'olimpo del cinema di genere. Un nuovo autore era nato, un regista in grado di riprendere stilemi consolidati per riorganizzarli in modo personale. Un autore che tanto avrebbe dato alla cinematografia nazionale e al genere tutto, ma che per il momento, alla sua seconda prova dietro la macchina da presa, deluse ogni aspettative.
Uscito appena un anno dopo il suo folgorante esordio, "Il Gatto a Nove Code" (1971) rappresenta infatti un passo indietro per Argento: un thriller più canonico nella costruzione e nella messa in scena, che parte da presupposti poco credibili nella storia per allontanarsi in tutto e per tutto dal "giallo" e rifarsi al più blando thriller d'indagine americano. Con risultati talmente scarni da costringere lo stesso regista a prenderne successivamente le distanze.



A seguito di un furto in una industria farmaceutica, uno dei ricercatori viene ucciso in modo da farne credere il suicidio. Il giornalista Carlo Giordani (James Franciscus) e l'enigmista non-vedente Franco Arnò (Karl Malden), consci della messa in scena, indagano.




Tutti (o quasi) gli elementi che resero interessanti l'esordio di Argento vengono qui a mancare. La violenza viene asciugata sino all'essenziale, l'erotismo escluso quasi del tutto (l'eccezione è data da un topless della bellissima Catherine Spaak, che però a causa del ridicolo parrucco non riesce ad essere eccitante quanto dovrebbe) e la stilizzazione visiva si ripresenta solo grazie alle soggettive dell'assassino, ancora più marcate che in precedenza. Manca una vera ispirazione, una vena non semplicemente "di genere" che anche nei film a venire avrebbe caratterizzato il miglior cinema dell'autore. L'unica forma di sperimentazione è data dalla giustapposizione con le parentesi comiche, data dall'uso di spalle (il poliziotto fissato con la cucina della moglie, lo scassinatore sfigato) o di vere e proprie situazioni gonfiate al limite del ridicolo (il gay bar) che finiscono per strappare qualche risata senza risultare troppo invasive o forzate.
Per il resto, "Il Gatto a Nove Code" è un thriller blando, dove la costruzione è schematica, talvolta artificiosa e forzata (scoperta l'identità del "colpevole", si fatica a capire come possa ottenere informazioni riguardo ai due improvvisati detective e sopratutto al fotografo, prima vera vittima). I brividi latitano e il gioco di specchi del "whudunnit" non coinvolge più di tanto.




L'intera opera è fredda, anche a causa della mancanza di stile nell'esecuzione degli omicidi e nella scarsa ricercatezza della tensione. Quello di Argento, qui, è puro mestiere, che non si fa disprezzare, ma neanche stupisce, al punto da deludere immancabilmente le aspettative. Le uniche note davvero rimarchevoli sono date dal cast, dove compare come co-protagonista il grande caratterista Karl Malden in una rara trasferta capitolina; e, ovviamente, negli effetti speciali: la sequenza della morte sotto il treno stupisce tutt'oggi per perizia immaginifica e realismo nell'esecuzione.
Quanto al resto, è un semplice thriller diretto con il pilota automatico, privo di guizzi, con una trama a tratti risibile ed orfano delle intuizioni geniali proprie dell'autore. Ma anche, il che è ancora peggio, dei tratti stilistici che hanno fatto la fortuna del "giallo".

martedì 3 novembre 2015

The Addiction- Vampiri a New York

di Abel Ferrara.

con: Lili Taylor, Christopher Walken, Annabella Sciorra, Edie Falco, Paul Calderon, Kathryn Erbe, Michael Imperioli.

Usa, 1995

















---CONTIENE SPOILERS---


Il biennio 1994-1995 rappresenta un ideale punto d'arrivo nel cinema americano. Gli anni '90, con la riscoperta del "cinema d'autore", la rinascita di un sistema produttivo non unicamente imperniato sulla logica del profitto e la contemporanea massimizzazione del cinema indipendente, si pongono come la perfetta continuazione di quel cinema sperimentale che tra la fine degli anni '60 e i primissimi anni '80 configurò la cosiddetta "New Wave", apice inarrivabile della cinematografia a stelle e strisce, che, inutile negarlo, in quegli anni raggiunge il massimo splendore.
Nel biennio, a metà decennio, un ristretto pugno di pellicole reinventa, riarrangia e ristruttura tutte le convenzioni estetico-narrative del "classicismo" per creare nuovi linguaggi. Basti pensare all'exploit di Tarantino con "Pulp Fiction" (1994), dove la destrutturazione narrativa , fortemente influenzata da Godard, Kubrick e Welles, ricrea da capo le regole della narrazione. Allo speculare "I Soliti Sospetti" (1995), dove si ha invece un costruttivismo totale che trova il suo punto di forza nel colpo di scena finale. O ancora a "Natural Born Killers" (1994), dove l'estetica filmica si colora di influenze video e televisive, così come nel meno noto ma altrettanto importante "Wild Bill" (1995) di Walter Hill, che riprende il discorso del western "revisionista" anni '70.
Eppure, per quanto fortemente legati alla sperimentazione, cineasti come Tarantino,Stone o Richard Linklater non si sono mai davvero allontanati da una forma di classicismo nella scrittura, che li porta sempre e comunque ad usare una struttura in atti e a regolare la caratterizzazione dei personaggi su una forma di necessità narrativa. Laddove costoro si sono fermati, Abel Ferrara è riuscito ad andare oltre con il capolavoro "The Addiction".
Nella struttura di base, Ferrara scompagina totalmente ogni forma di schematismo classico, infrange la narrazione lineare per creare una struttura para-episodica dove ogni sequenza e talvolta ogni singola scena è un mondo a sé, un tassello di un mosaico che vive grazie al simbolismo filosofico-religioso. Un tassello dove ogni gesto, simbolo, immagine o personaggio veicola parte del tutto, per creare una nuova struttura narrativa, al contempo estremamente frammentata e ineludibilmente compatta.


"The Addiction" è però anzitutto un compiuto racconto morale, una riflessione amara, viscerale e talvolta sfrontata sul concetto di "Male" che attanaglia l'essere umano. Laddove "Il Cattivo Tenente" (1992) si poneva come una parabola su di un peccatore, "The Addiction" è lo spaccato di una vita che prende coscienza dell'ineludibilità del peccato stesso, vissuta come un gigantesco flusso di coscienza nel quale si mischiano citazioni filosofiche e reminiscenze religiose.
Il vampirismo di Ferrara è malattia dell'anima che passa per il corpo. Un malanno simile all'AIDS (si propaga grazie al sangue ed è sinonimo di abbandono al puro senso, entra dalle vene del braccio e causa la "fuoriuscita della vita") che circola per le strade, distrugge il corpo, condannato a marcire in una morte perenne, ma sopratutto infrange lo spirito. La malattia della giovane Kathleen (Lili Taylor, specchio di Ferrara e sopratutto di Nicholas St.John, all'epoca in preda ad una profonda crisi spirituale), il "vizio", ossia la sete di sangue, la porta a realizzare compiutamente l'onnipresenza del male nella vita umana. "Adesso capisco, o Signore, la mostruosità che c’è dentro di noi, la nostra droga è il male, la nostra propensione al male risiede nella nostra debolezza. Kierkegaard aveva ragione, c’è un terribile precipizio davanti a noi, ma si sbagliava riguardo al salto, c’è differenza tra il saltare e l’essere spinti. Si arriva a un punto in cui bisogna fare i conti con i propri bisogni e l’incapacità di gestire fino in fondo la situazione crea un’insopportabile ansia, non è cogito ergo sum, ma pecco ergo sum, pecco quindi sono"; tale è il punto di arrivo del peregrinare dell'uomo all'interno del mondo, la presa di coscienza dolorosa ed incontrovertibile della propria vera essenza. Il male è parte dell'uomo: "Non siamo peccatori perchè pecchiamo. Pecchiamo perchè siamo peccatori". Il male, in quanto parte dell'essere, porta l'uomo a commettere il male. Non si può scindere il male dall'essenza umana; dinanzi alle foto dei massacri della II Guerra Mondaile, Kath afferma come la riflessione di Santayana secondo la quale colui che non conosce la Storia è condannato a ripeterne gli errori sia solo una falsità: il male esiste a prescindere dalla storia e dalla sua coscienza. L'uomo, in quanto portare del "virus" del male, lo commetterà a prescindere da ogni forma di conoscenza storica. Ma sopratutto: una volta raggiunta la piena realizzazione della propria malvagità, l'uomo non può conoscere altri limiti di sorta nella commissione dello stesso.


Nella piena realizzazione della propria compiutezza, l'uomo non può sottrarsi da compiere quel male che è parte di sé. L'atto peccaminoso (il morso, inteso sia come diffusione del malessere nella sequenza in cui Kath seduce il suo insegnante e lo porta a consumare una dose di sangue, sia come atto puramente violento in quella nella quale morde la studentessa di antropologia) diviene affermazione di sé, intesa come imposizione della propria superiorità. Il peccatore, come il super-uomo di Nietzsche, usa il peccato come arma per sottomettere il prossimo. Quest'ultimo ai suoi occhi è un debole: un soggetto che non ha coscienza di sé e che dunque è preda designata. Quando la vampira Casanova (Annabella Sciorra) aggredisce Kath per la prima volta, le chiede di gridarle contro, di imporle di andarle via: l'essere che ai propri occhi è superiore può avere rispetto solo per un suo pari; nel momento in cui Kath si dimostra sottomessa, tenta ossia di salvarsi facendo ricorso non alla forza ma alla clemenza, il vampiro non può obbedire: non può riconoscere la pietà, in quanto sistema di valore a lui avulso poichè superato. Allo stesso modo, anche Kath ordina alle sue vittime di essere scacciata con la forza: l'affermazione di sé non può trovare limite alcuno se non in un altro sé stesso, ossia in un soggetto speculare e perciò pari in dignità.



Pur tuttavia, l'abbandono totale al peccato, inteso ora anche come abbandono al vizio e alla dipendenza (il titolo indica appunto una dipendenza ineludibile), porta indefettibilmente alla rovina. Quando Kath sembra persa, incontra per caso il personaggio di Pena (un magnetico Christopher Walken), vampiro anziano che riesce a contenere la "fame". L'abbandono al vizio porta all'autodistruzione, ma Pena riesce a contenere il proprio, a non esserne vittima: l'uomo, pur cosciente del "male" riesce ad addivenire ad una sorta di patto con lo stesso, o, per meglio dire, con la propria percezione. Il vecchio vampiro è dipinto come un intellettuale, forse un artista, membro di quella classe un pò bohemien prodotta dall'Occidente borghese che si diverte a mistificare il mondo che l'ha generata. Pena è il simbolo di quella parte d'umanità che non ignora il peccato (i vivi), né vi si abbandona totalmente (i vampiri), ma che in ogni singolo gesto, pensiero e ragionamento sa ricondurre il proprio essere in una zona sita al di là della semplice dicotomia bene/male. Una zona oscura (esordisce chiedendo a Kath se "vuole essere portata in un luogo oscuro") poichè difficile da raggiungere. Uno stato dell'essere, il suo, comune a molti filosofi occidentali (il richiamo esplicito è al solito fatto a Nietzsche, ma anche a Sartre) e che porta al dolore, la "pena" (in originale "Peinia", pronunciato "Pain") che deve scontare colui che sia attanagliato dalla coscienza del male e dalla ripulsione per lo stesso. 
Il dolore dell'anima è il primo antidoto al vizio: un limite che porta l'uomo ad avere coscienza del proprio male grazie al superamento del suo concetto assolutistico. Non per nulla, è lo stesso Pena ad affermare:"L'umanità ha cercato di esistere al di là del bene e del male e sai cos'ha trovato? Me."


Ulteriore mitigazione all'abbandono al vizio è il valore religioso: prima del massacro finale, Kath incontra un giovane prete (Michael Imperioli) il quale le ricorda della presenza di un altro termine assoluto, il quale, nella confessione cattolica, è anche essere immanente, non solo trascendente. Il male assoluto del peccatore non può tuttavia accettare la coesistenza con un ulteriore assolutezza: "non mi sottometterò!" esclama furente. L'essere assoluto, poichè portatore di un concetto assoluto ed assolutizzante, non può riconoscere l'esistenza di un principio supremo (il Bene, il Dio misericordioso e amorevole del Cattolicesimo) che ne limiti o neghi l'azione, poichè in sua presenza non potrebbe affermarsi e dunque realizzarsi.
Pur tuttavia, l'incapacità di schivare le conseguenze del male (il malessere fisico e spirituale) portano l'uomo a nuova sofferenza. L'abbandono al vizio viene sublimato dalle parole di Kath prima del massacro, utili a comprendere la sua successiva caduta in disgrazia: si cerca il vizio per soddisfare una propria irresistibile pulsione, ma questo porta con sé, oltre al soddisfacimento, anche l'ottundimento dei sensi. La soddisfazione di una voglia conduce alla perdita di una parte di sé. La soddisfazione del desiderio del Male, porta ad una autodistruzione definitiva, la quale viene però negata a Kath da Casanova, che le ricorda il suo status di peccatore, di portatrice del Male. L'escapismo del suicidio, visto come forma di sollievo al dolore del vivere, viene negato in quanto non conforme non solo alla dottrina religiosa di riferimento dei due autori (Nicholas St.John, è bene ricordarlo, è un prete mancato), ma anche perchè non idoneo a portare alla accettazione del proprio essere.


La piena realizzazione di sé stessi viene fatta invece passare dai due autori attraverso il sacramento della confessione: l'ammissione totale e cosciente del peccato, inteso non solo in senso religioso (e quindi spogliando il sacramento stesso della sola valenza sacrale per aggiungervi anche quella laica), ma sopratutto come esternazione cosciente e critica della propria natura, viatico per la propria accettazione. L'affermazione sentita di "essere il male" e la richiesta del perdono portano ad una forma di autocoscienza totale che permette all'uomo di poter convivere con la propria natura 
Pur tuttavia, nel criptico finale Kath afferma come l'autocoscienza sia autodistruzione: è davvero possibile giungere ad una piena realizzazione del proprio essere o bisogna affidarsi alla religione, così come suggerisce l'ultimissima inquadratura? Ferrara e St.John non rispondono: il loro non vuole essere un trattato filosofico finito, il quale sarebbe per forza di cose riduttivo, quanto una riflessione esistenzialista aperta, uno spaccato più che un diktat, la descrizione critica e sentita di uno stato d'essere, piuttosto che l'indicazione definitiva di una dottrina.


La costruzione fluviale della coscienza di Kath e delle riflessioni dei due autori, si fa decostruzione totale di ogni schematismo filmico. La tripartizione in atti, pur presente, viene obliata dalla distruzione della linearità. La citazione colta si fa dialogo e la dialettica filosofica forma narrante. "The Addiction" è la totale negazione di ogni forma narrativa evolutiva: non vi è sviluppo lineare, la narrazione è inscindibile dalla riflessione. Laddove questa è talvolta ellittica e caotica, anche la prima deve necessariamente esserlo. Forma e contenuto si saldano tanto da divenire inscindibili: l'ellissi narrativa diviene salto logico motivato, mentre il caos spirtual-esistenziale dà forma all'ellissi stessa.
Ferrara crea una nuova narrativa, che trova antecedenti logici in molto cinema europeo (su tutti "Rabbia" di Pasolini), ma che risulta inedita nel panorama americano e che non deve formalmente nulla a chi è venuto prima di lui.
Il "nuovo linguaggio" può risultare ostico, ma altrettanto evocativo. "The Addiction" è un capolavoro di cinema al servizio della mente, un flusso costante di immagini in grado di dar forma compiuta, coerente e vivida ad una ricerca spasmodica, scomoda eppure ineludibile.