martedì 3 marzo 2015

Avatar

di James Cameron

con: Sam Worthington, Zoe Saldana, Stephen Lang, Sigourney Weaver, Giovanni Ribisi, Michelle Rodriguez, Wes Studi.

Fantascienza/Animazione

Usa, Inghilterra (2009)

















Parlare di "Avatar" implica necessariamente la ricerca di una risposta ad un quesito scottante, che nel corso del decennio scorso si è più volte affacciato nella mente della critica più acculturata e degli autori più ortodossi: quando l'uso della computer graphic arriva a trasformare un lungometraggio cinematografico in qualcosa di diverso dalla più basica grammatica filmica?
Va specificato sin da subito che la tecnologia del performing capture non è stata inventata da Cameron nè da egli adoperata per la prima volta: il primo lungometraggio d'animazione sviluppato con tale tecnica fu "The Polar Express" (2004), mentre già ne "Il Signore degli Anelli- Le Due Torri" (2003) Peter Jackson aveva fatto ricorso alla (allora) innovativa tecnologia per dar vita a Gollum, ibridando l'interpretazione di Andy Serkis con l'animazione in 3d classica. Così come per tutti gli anni zero non sono mancati esempi di blockbuster che hanno coniugato attori in carne ed ossa con mondi e scenari totalmente costruiti in post-produzione; l'esempio più fulgido e che per primo ha sollevato il sopra riportato quesito fu "Speed Racer", che un anno prima di "Avatar" portava sugli schermi la fusione totale e completa tra live action e animazione tridimensionale scardinando il linguaggio cinematografico per creare qualcosa di inedito e clamorosamente mal riuscito.
Ma con "Avatar" siamo ad un passo oltre: il performing capture arriva a sostituire totalmente il lavoro degli attori quando questi si calano nei panno degli alieni Na'vi, costruendo totalmente i personaggi principali; l'animazione, in sostanza, qui non si fonde con la ripresa dal vivo, ma la sostituisce per creare un nuovo linguaggio filmico e visivo; il che porta ad un ulteriore quesito: è questo ancora cinema?


Se diamo per scontato che la definizione di Cinema sia quella di "ripresa di immagine in movimento", allora "Avatar" non può essere considerato Cinema; in esso ogni azione, reazione, dialogo è, per la maggior parte del minutaggio, creato ad hoc in post-produzione lavorando solo sulla base delle espressioni facciali degli attori; in sostanza, il lavoro degli stessi viene quasi mortificato perchè sepolto sotto tonnellate e tonnellate di pixel che arrivano non solo a modificarne le fattezze, ma anche le espressioni stesse per creare un qualcosa di diverso da quanto effettivamente registrato dalla macchina da presa. Se già in passato in pellicole come "La Leggenda di Beowulf" (2007) e gli stessi "Polar Express" e "Le Due Torri" si era arrivati a modificare espressioni e lineamenti per creare performance più credibili da parte dei personaggi, Cameron va oltre e nullifica ogni rimanenza di "live action" nel prodotto finale, il quale risulta pertanto un mero film d'animazione in computer graphic.
Allorchè ben si potrebbe constatare come, di fatto, sin dall'alba dei tempi l'animazione, sia essa bidimensionale che tridimensionale, sia stata sempre assimilata al cinema in quanto rappresentazione di corpi in movimento su pellicola, ascrivendosi come un vero e proprio "genere"; eppure, anche in questa categoria "Avatar" risulta estraneo, proprio perchè tutto il lavoro degli animatori è pur sempre basato sugli imprint degli attori. Il "nuovo linguaggio" di Cameron si caratterizza così per la sua totale unicità: non è Cinema in nessun senso; il che non sarebbe per forza un male: la voglia di modificare, scardinare, ricombinare o semplicemente infrangere i topoi della grammatica filmica è un'operazione che da più di cinquant'anni è in atto e che ha portato alla nascita di alcuni tra i più grandi capolavori della Settima Arte; sfortunatamente, a causa di una serie di vere e proprie falle nella sua costruzione, "Avatar" non può imporsi come pellicola spartiacque, ma solo come esperimento fine a sé stesso.


Il problema di fondo è, in termini semplici, che Cameron non vuole raccontare né una storia, né portare in scena in scena dei personaggi; la sua è sperimentazione pura, compressa in una pellicola di 162 minuti nella quale non c'è nulla, in fin dei conti, di stupefacente.
Se la tecnologia del performing capture, non nuovo di certo, arriva con Cameron al suo stato dell'arte, altrettanto non si può dire per l'altra "tecnologia sperimentale" del film: il Digital 3D, procedimento che permette di girare il film in tre dimensioni e di ricreare su schermo una tridimensionalità inedita. Inedita e rivoluzionaria, tuttavia, solo sulla carta: inutile ricordare come il 3d sia di fatto una tecnologia risalente ai primi anni '50 e che già in questo periodo aveva toccato il suo apice con la magnifica esperienza visiva de "Il Mostro della Laguna Nera" (1954), nel quale non erano solo attori ed oggetti a balzare fuori dallo schermo, ma finanche l'acqua nelle splendide (e tutt'ora ardite) riprese subacquee, che portavano lo spettatore letteralmente sott'acqua, creando un'esperienza davvero inedita e affascinante. Mentre l'uso del 3d per motivi puramente "ludici" aveva raggiunto il suo apice nel 1983, con "Venerdì 13- Week-End di Terrore", grazie al quale gli spettatori venivano assaltati dalle frattaglie dei personaggi fatti a pezzi. "Avatar" non può vantare la complessità visiva del primo e si limita ad usare la tridimensionalità come escamotage per creare una finta profondità nelle immagini, data dalla semplice dissociazione tra personaggio e sfondo (e saltuariamente da oggetti che sbucano dallo schermo come nel film dell' '83); esperienza di per sè stessa piacevole, ma non rivoluzionaria: la percezione dello spettatore viene sicuramente alterata, ma la profondità di campo fittizia non è paragonabile alla vera profondità di campo che si ottiene con la normale ripresa bidimensionale; basta paragonare le immagini di "Avatar" con quelle di qualsiasi film di Fassbinder, Fellini, Leone, Welles o Peter Bogdanovich per accorgersi di come la vera prospettiva si più efficace di quella forzata dalla ripresa tridimensionale; senza contare come la natura di per sé stessa bidimensionale dello schermo cinematografico porta nuovamente a questionare la natura cinematografica del film.


E' bene ribadirlo: "Avatar" non racconta nulla, si limita ad usare un canovaccio e delle macchiette per portare in scena la voglia di sperimentazione del suo autore; la storia del marine Jake Sully (Worthington) chiamato a spiare i Na'vi solo per poi innamorarsi della loro cultura è trita e ritrita, si è vista e rivista in pellicole quali "Soldato Blu" (1970), "Balla coi Lupi" (1990) o "Pocahontas" (1995), finanche in "Red Scorpion" (1988), dove il ruolo del soldato in cerca di redenzione era ricoperto (meglio!) dal golem Dolph Lundgren; anche qui la trama è asservita totalmente allo spettacolo, come avveniva con la love-story di "Titanic" (1997); il che, in fin dei conti, non sarebbe di per sé stesso neanche un grosso difetto se Cameron si fosse degnato di rendere i personaggi credibili o sfaccettati; cosa che non ha fatto, riuscendo talvolta a scadere persino nel ridicolo involontario; impossibile non ridere dinanzi al capo tribù Eytukan (Wes Studi) che pur riconoscendo in Sully una spia decide di accettarlo lo stesso nei suoi ranghi ed insegnarli usi e costumi della sua gente; non più credibile è la storia d'amore con la fiera Neytiri (Zoe Saldana), Pocahontas dalla pelle blu; semplicemente ridicola la scelta di cucire il ruolo di villain addosso a Quatrich (Stephen Lang), vero e proprio crogiolo di tutti gli stereotipi del generale cattivo che la hollywood liberal abbia mai concepito; mantre il volto da nerd di Giovanni Ribisi usato per riconoscere la compagnia escavatrice altro non è se non la riproposizione di uno stereotipo in parte creato dallo stesso Cameron: il Carter Burke di "Aliens" (1986), pellicola dalla quale riprende anche lo stereotipo della donna soldato di ferro, qui interpretata da Michelle Rodriguez.
La sospensione del ridicolo va poi a farsi benedire del tutto quando Cameron decide di trasformare il pallido Sully in un eroe a tutto tondo, sforando il ridicolo quando doma la bestia volante semplicemente saltandole in groppa, riunisce le tribù divise pur essendo l'ultimo arrivato e sconfigge praticamente da solo l'intero esercito nemico.


Quello che l'autore non aveva calcolato nel momento in cui decise di optare per una trama puramente pretestuosa è la totale inutilità della ricerca estetica ed emotiva; il regista prova in ogni scena a regalare un'emozione che sia una al pubblico, ma fallisce; le sequenze romantiche ed epiche risultano fredde a causa della scarsa credibilità dei personaggi (su tutte la distruzione dell'Albero Sacro), mentre la costruzione del mondo, teoricamente favoloso, si infrange dinanzi ad un design tutto sommato poco ispirato; il mecha design preso in sé è derivativo e risulta annichilito dal confronto fatto con i precedenti lavori dell'autore; gli ambienti del mondo di Pandora, sebbene forti di dettagli meravigliosi, non riescono mai davvero ad incantare a causa dell'impossibilità di empatizzare con i suoi abitanti; l'unica sequenza in cui si resta davvero meravigliati dalla qualità del design e delle animazioni è la corsa nella foresta che culmina con l'incontro con le meduse; ma anche qui dopo un pò la mente si disincanta a causa dei pessimi dialoghi tra i due protagonisti. L'unica sperimentazione estetica davvero riuscita e godibile risiede nell'accostamento dei colori: l'azzuro dominante in tutte le sue sfaccettature ben si adatta con le tinte più disparate, dal rosso intenso all'arancio delle pinture di guerra dei Na'vi; un pò poco per la pellicola più costosa della storia del cinema.


Al netto della sua lunga sfilza di difetti e dei suoi sparuti pregi, vien da chiedersi alla fine della visione, che cosa sia davvero "Avatar"; se fosse un film amatoriale volto ad illustrare la bravura degli autori degli SFX analogici, si potrebbe parlare di showcase; se fosse un cortometraggio volto ad mostrare le potenzialità del Digital 3D e del performing capture, si potrebbe parlare di una tech-demo; se fosse un film con una storia o anche più semplicemente con un'anima, si potrebbe parlare di pellicola sperimentale; una cosa è certa: "Avatar" non è cinema.

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