mercoledì 26 agosto 2015

Brutti, Sporchi e Cattivi

di Ettore Scola.

con: Nino Manfredi, Maria Luisa Santella, Francesco Annibali, Maria Bosco, Giselda Castrini, Alfredo D'Ippolito.

Grottesco

Italia (1976)

















Trasformare le tragedie quotidiane in farsa, questa era la forza della "commedia all'italiana", filone che tanto lustro portò al nostro cinema; prendere argomenti scottanti o tabù, come il divorzio ed il tradimento, rivoltarli come un calzino per mostrarne gli aspetti più controversi in chiave leggera, ma mai disimpegnata, e creare un registro unico, più volte imitato all'estero ma mai davvero eguagliato.
Registro che negli anni '70 andava già declinando; Ettore Scola, nel 1977, ne avrebbe sancito un'ideale chiusa con "I Nuovi Mostri", pietra tombale di ciò che fu l'arte del ridere nostrana. Eppure, appena un anno prima, lo stesso Scola aveva diretto una pellicola che avrebbe scandalizzato e divertito mezzo mondo rinverdendo i fasti della commedia; un film scomodo, difficile, acido, eppure irresistibile: "Brutti, Sporchi e Cattivi", spaccato di vita quotidiana di una famiglia di poveracci della periferia romana descritto senza idealismi, né peli sulla lingua.


Si diceva come negli anni '70 la "commedia all'italiana" avrebbe trovato la sua naturale estinzione, prima della totale distruzione dovuta all'arrivo dei vari Vanzina, Oldoini e Neri Parenti, che ne riprendevano solo gli aspetti formali per appiattirne il contenuto e la carica comica; ma a metà del decennio sembrava che il genere stesse per cambiare pelle, mutare per adattarsi ad una nuova sensibilità, più cinica e feroce, mediante il registro grottesco.
E' del 1975, infatti, il primo exploit di questo "nuovo corso", il "Fantozzi" di Villaggio e Luciano Salce, che pur prendendo spunto da quella quotidianità ed attualità che costituivano la linfa vitale del genere sin dalle origini, le portava in scena esasperandone i risvolti folli, caricando la comicità con vagonate di cattiveria.
"Brutti, Sporchi e Cattivi" si inserisce nel solco tracciato da "Fantozzi": le quotidiane sventure della famiglia di Giacinto e company sono caricate sino al parossistico, lontane dal realismo della messa in scena e perfettamente inserite in un contesto caricaturale e metaforico.
Personaggi e situazioni sono deformati sino alla parodia: il Giacinto di Manfredi è una maschera di italiana cattiveria che presenta tutti i difetti dell'uomo medio, mentre le sequenze dell'asilo-lager e della litigata coniugale sotto gli occhi stanchi e abituati alla violenza del bambino sono da antologia del cinema grottesco.
La "commedia all'italiana", in sostanza, si deformava e trovava nella cattiveria parossistica un nuovo registro più consono a quegli anni; gli anni della disillusione, della violenza, dove volenti o nolenti ci si doveva abituare allo sfacelo sociale in cui l'Italia vessava. Ma Scola va oltre ed infrange uno dei tabù più sacri della sinistra italiana: distrugge il mito del "buon povero" e descrive la classe sottoproletaria come un coacervo di belve luride e libidinose.


Non c'è bontà nello sguardo di Scola, non c'è empatia verso quel mondo di ultimi; la realtà che descrive, in fondo, non è lontana da quella di Pasolini e del suo "Accattone" (1961); ma se l'autore emiliano guardava ai poveri come a delle vittime, Scola li vede come degli aguzzini, anime perse nel proprio vizio prima ancora che nella miseria.
I sottoproletari sono, qui, animali che sguazzano nella loro stessa cattiveria, totalmente dediti alla pura sopravvivenza e del tutto freddi verso il legame familiare. Fulcro descrittivo e motore delle singole vicende è ovviamente il pater familias, quel Giacinto che un Nino Manfredi impersona con trasporto; un vecchio avido in grado di sparare a sangue freddo pur di difendere i soldi dell'assicurazione, res totalmente fine a sè stessa; i soldi, in questo mondo di vizi, non sono strumento per il benessere, ma fine per uno status quo di superiorità verso la prole; il sogno del benessere consumistico viene ridefinito come incubo e la taccagneria diviene valore. Unico fine del denaro è quello di appagare gli istinti del basso ventre: il vino ed il sesso.


Sesso che diviene ossessione e mezzo di affermazione individuale; tutti i personaggi sono in preda alle convulsioni sessuofile: persino il personaggio del figlio travestito ritrova la passione per le donne in quel coacervo di squallore che è la casa familiare.
Casa che è al contempo palco per gli scontri e arena nel quale si ritrovano tutti i personaggi; la baracca sovraffollata è il simbolo di quest'umanità abbruttita, un coacervo di legna e lamiere nel quale i personaggi si ammassano come buoi pronti il macello.
Nella sabbia della periferia, tutti i personaggi sono chiamati a sfilare dinanzi all'occhio freddo della macchina da presa; ridotta a zero la componente narrativa, Scola si rifà ad un registro puramente descrittivo portando alla ribalta i suoi personaggi con singoli episodi e situazioni volte a sviscerarne la disumanità. I vizi sono i tratti distintivi dei personaggi: oltre la libidine e l'avarizia, anche l'accidia, la mancanza di volontà nel rimediare alla miseria e la totale sfrontatezza nella ricerca della sussistenza.


Il valore familiare, ultimo baluardo della società civile, si infrange; Giacinto tenta più volte di massacrare i suoi familiari pur di custodire "la roba", a loro volta i familiari tentano di avvelenare l'ipocrita patriarca in un gioco di violenza nerissima e di cattiveria acida.
Ma non ci sono soluzioni, non c'è nessuno sbocco verso una situazione migliore o peggiore; tutti i personaggi alla fine ritornano al punto di partenza a dormire nella baracca, pronti per un nuovo giorni e ancora persi nella loro inettitudine, nella loro stupidità, nella loro genuina incapacità di emanciparsi dalla miseria materiale e spirituale; la distruzione del mito del "buon proletario" è completa: la baraccopoli romana, preludio a quella fogna a cielo aperto che la metropoli diverrà 40 anni dopo, è un girone dantesco in cui i drammi si ripetono all'infinito in un tormento perenne.


Lo sguardo cinico e disincantato di Scola stupisce ancora oggi; a quattro decadi dalla sua uscita, "Brutti, Sporchi e Cattivi" ha perso quella sua connotazione di "ritratto di una parte della società" per imporsi, agli occhi dell'odierno spettatore, come un quadro desolante della realtà italiana, una visione cattiva, prima di compromessi e stramaledettamente veritiera.






EXTRA

Ottimo successo di critica e pubblico alla sua uscita in sala, "Brutti, Sporchi e Cattivi" trionfò al Festival di Cannes aggiudicandosi addirittura il premio per la miglior regia.
Oggi purtroppo dimenticato da grande pubblico, nonostante i continui passaggi televisivi, può vantare lo status di cult a livello internazionale. La sua fama ha generato almeno una "imitazione illustre":


"Shameless", serie televisiva creata da Paul Abbott nel 2004, riprende i concetti di sottoproletari "maledetti" e della famiglia allargata e disfunzionale del film di Scola e li trasporta nella realtà inglese del decennio scorso. Ancora più riuscito il remake americano, ambientato nella fatiscente periferia di Chicago e con un cast incredibilmente in parte, capitanato da William H.Macy nei panni del patriarca Frank, fotocopia a stelle e strisce del personaggio di Manfredi.

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