martedì 24 novembre 2015

Bone Tomahawk

di S.Craig Zahler.

con: Kurt Russell, Patrick Wilson, Richard Jenskins, Lili Simmons, Matthew Fox, Sid Haig, David Arquette, Kathryn Morris, Michael Parè, James Tolkan, Sean Young.

Western/Horror

Usa 2015















Il western è un "genere" immortale. Dato più volte per estinto (è di qualche giorno fa la dichiarazione di Steven Spielberg secondo la quale "i cinecomic si eclisseranno come successe con il western", con evidenti risvolti ridicoli, oltre che catastrofici) e sempre, prepotentemente tornato alla ribalta, vista la sua codificazione nello stesso DNA del cinema americano, che lo ha trasfuso in ogni altro genere e filone possibile. Ultimo, ma non meno importante, l'horror, che con "Bone Tomahawk" vi viene saldato in modo curioso.



La cittadina di frontiera di Bright Hope è teatro di un misterioso rapimento. Lo sceriffo Frankilin Hunt (Kurt Russell) recluta una "posse" composta dal suo vecchio vice Chicory (Richard Jenkins), lo sfrontato vanesio Brooder (Matthew Fox) ed il cowboy O'Dwyer (Patrick Wilson), marito di una delle vittime, per indagare. I responsabili sembrano appartenere ad una oscura tribù di nativi, temuti e scacciati perchè dediti all'incesto e al cannibalismo.




S.Craig Zahler nasce come scrittore, poi votatosi al cinema dapprima come sceneggiatore, poi nelle più inusuali vesti di direttore della fotografia e, in ultimo, regista. Autore dello script ed ideatore dell'intero progetto, si rifà a fonti piuttosto originali per la sua visione western: al bando i classici John Ford e Howard Hawks, ma anche i più moderni Sergio Leone e Sam Peckinpah, Zahler guarda a Monte Hellman ed al suo west sulfureo ed introspettivo. I paesaggi di "Bone Tomahawk" sono brulli ed infestati da sterpaglie, non hanno la magnificenza della tradizione, né la vis violenta del cinema crepuscolare: la frontiera è arida, vuota, un luogo inospitale ed irto di pericoli, lontano anni luce da qualsiasi forma di mito.
I personaggi che la popolano si rifanno in parte al western più elegiaco: il vecchio sceriffo, con i suoi baffoni bianchi ed il volto duro e carismatico di Kurt Russell, non sfigurerebbe in un revival dei tempi della New Vawe americana, mentre "l'adorabile idiota" vice di Jenkins è un omaggio riuscito ai caratteristi leoniani. Tra loro, la nota più bizzarra è data da quello che si rivelerà il vero eroe della vicenda: lo storpio O'Dwyer, totalmente fuori posto in un luogo insidioso, eppure incredibilmente vincitore, in una riscrittura dei luoghi comuni quasi iconoclasta.



Il connubio tra western e horror non è ibridazione totale, quanto una saldatura tra i due: metà film viene costruita come un western bizzarro, l'altra metà come un cannibal movie alla Deodato, dove i "selvaggi" sono aizzati dall'idiozia dell'uomo bianco. Lo splatter non manca, riuscendo talvolta a disturbare, ma l'enfasi viene posta più che altro sull'assurdità di un assunto che, per quanto mai improbabile, è più verosimile di quanto si possa pensare.
E da questo punto di vista, Zahler vince la scommessa: nonostante le lungaggini e la regia acerba, il suo excursus è interessante e riuscito. Un piccolo esperimento che dà alla luce un frutto bizzarro, che forse avrebbe fatto meglio ad osare di più, ma che riesce ad incantare, sopratutto grazie al cast affiatato. Tanto da chiedersi il perchè la sua uscita sia stata destinata al solo mercato direct-to-DVD: nomi coinvolti e valori produttivi sono al pari di qualsiasi uscita cinematografica stagionale, Se non talvolta superiori.

domenica 15 novembre 2015

Star Wars- Episodio III- La Vendetta dei Sith

Star Wars- Episode III- Revenge of the Sith

di George Lucas.

con: Ewan McGregor, Hayden Christiansen, Natalie Portman, Ian McDiarmid, Frank Oz, Samuel L.Jackson, Christopher Lee.

Azione/Fantastico

Usa, 2005













L'ossessione dei fanboys di "Star Wars", si sa, non conosce confini. La loro volontà di trovare qualcosa di buono in quell'accozzaglia di pessima CGI, personaggi inesistenti e storie risibili chiamata "nuova trilogia" è talmente forte e smodata da farli somigliare al Luke Skywalker che cerca disperatamente di trovare del buono nel genitore passato al lato oscuro. Al punto che finanche una pellicola scialba e stupida come "La Vendetta dei Sith" passa, da qualche anno a questa parte, come "unico esito decente" del revival operato da Lucas.
Eppure, anche a voler essere buoni oltre che corretti, non si può davvero salvare un film come questo terzo (sesto) episodio della saga, afflitto da tutti i difetti dei suoi due predecessori e graziato unicamente da una sottotraccia narrativa interessante, ma mal sviluppata.


Come al solito, tutto ciò che rese celebre il primo "Guerre Stellari" (1977), qui viene ripreso e annacquato fin dalla prima sequenza: una battaglia stellare nella quale la CGI raggiunge, per una volta, uno status di credibilità, ma coreografata come uno scontro tra giocattoli, dove i caccia stellari non si affrontano ad armi spianate come in passato, ma con androidi che smontano i pezzi del "modellino" avversario, disinnescando automaticamente ogni forma di tensione. E nonostante il testo introduttivo esordisca con un roboante "E' guerra!", non si ha mai la sensazione, per tutto il film, di assistere ad un effettivo conflitto armato per il dominio galattico, visto che i due protagonisti Obi-Wan e Anakin non perdono occasione per fare battutine ironiche o lanciarsi frecciatine, alla faccia dell'enfasi o dell'epica.
Enfasi che si perde del tutto quando ci si accorge di come "Episodio III" sia il film nel quale lo stile di Lucas tocca il fondo. Ogni singola scena (salvo rarissimi inserti) è girata con green-screen e doppia macchina da presa in contemporanea per girare, all'unisono, campo e controcampo nei dialoghi. Ogni sequenza diventa piatta: la messa in scena è nulla, i personaggi non fanno altro che scambiarsi dialoghi vacui e stupidi stando in piedi o seduti, non c'è mordente, non c'è azione a trascinare gli eventi, solo parole, discorsi sulla politica talmente basilari da suscitare i nervi più che il riso e slanci romantici talmente smielati da cariare i denti.


La commistione tra attori e personaggi in animazione 3D raggiunge il fondo nel combattimento tra Obi-Wan e il generale Grivieus, personaggio che compare di punto in bianco, senza che lo spettatore che non conosca la serie "Clone Wars" possa anche solo intuire chi sia e cosa voglia; il loro duello è palesemente finto: Grivieus volteggia quattro spade laser, mentre lo jedi risponde a risatine, a dimostrazione di come McGregor sul set non avesse davanti nulla che non fosse un pezzo di tela colorata. Lo scontro è privo di mordente e di fisicità: i colpi non hanno peso, né ripercussioni. La magia del Cinema, dell'illusione di un effetto speciale che sembra reale quanto gli attori, che fece la fortuna della "trilogia classica", viene del tutto disintegrata.


Al solito è inutile parlare di caratterizzazioni o sviluppo dei personaggi, del tutto inesistenti. Padmè, Obi-Wan, Yoda e il Mace Windu di Samuel L.Jackson sono solo dei cartonati che fanno procedere l'esilissima storia, lanciando battutine, facendo faccette e snocciolando frasi noiose. L'enfasi viene posta di più, e finalmente verrebbe da dire, su Anakin ed il suo rapporto con Palpatine. Il giovane viene affascinato dal lato oscuro propinatogli dall'anziano senatore ed i loro dialoghi, per quanto talvolta frettolosi, sono la parte migliore del film.
Peccato che Lucas, come al solito, si sia dimenticato di ciò che rese il personaggio affascinante nel vecchi film: la seduzione del Male che subisce. Ora Anakin non è più un "giovane jedi sedotto dal lato oscuro", ma un innamorato che cede alle lusinghe dell'oscurità per salvare il suo amore adolescenziale. Non solo non si riesce a concepire un modo più complesso e credibile per causare la caduta del personaggio, ma, così facendo, lo si appiattisce in una maniera ridicola, sino a doverne giustificarne le azioni, non essendo possibile per Lucas concepire un personaggio che si abbandona volontariamente al male. E quando Anakin e Palpatine intavolano il dialogo nella famosa scena del teatro, vera delizia per i fans che vi vedono l'apice dell' "epica" starwarsiana, si resta attoniti dinanzi alla storia che si sarebbe potuto vedere su schermo ma che si è preferito relegare ad un paio di linee dialogiche. Lucas, come al solito, sottovaluta il suo pubblico, crede che la complessità spaventi lo spettatore e concede solo pretesti narrativi per gli effetti, come il peggior prestigiatore da baraccone che si possa immaginare.


Effetti che divorano, oltre la narrazione, anche stile ed estetica. Davvero insostenibile quel duello finale nella lava che sembra uscito da un videogame, per coreografia, ambientazione e totale mancanza di enfasi. Semplicemente inguardabili le sequenze di guerra tra cartoni animati del tutto prive di mordente. E quando la violenza fa capolino, si è spiazzati per il modo in cui mal si amalgama con il resto.
Come se non fosse abbastanza "Episodio III" è oltretutto un film genuinamente stupido. Non si riesce a credere ad un massacro di cavalieri dai poteri sovrannaturali ed ai limiti dell'onnipotenza effettuato da un manipolo di soldati armati di soli fucili. Si ride di gusto dinanzi alle vessazioni adolescenziali dei due amanti e alla paura infantile di Anakin per la morte. Si ride di pancia nella sequenza della morte di Padmè, che "si rifiuta di vivere", qualsiasi cosa voglia dire. E ancora di più nella scena in cui l'iconico Darth Vader perde ogni forma di fascino e carisma gridando quell'ilare "Noooooooo!", giustamente divenuto un tormentone. Ci si straccia la faccia dinanzi all'idiozia del duello "gemello" tra Yoda e l'Imperatore, dove ad un certo punto, per nessun motivo apparente, il primo decide di andarsene e lasciare che l'Impero del Male trionfi, stratagemma di scrittura di una pigrizia rivoltante.
E si ride ancora dinanzi alla totale incapacità di Lucas di dare una continuità alla sua stessa visione: come sempre, risvolti di trama ed intere sequenze cozzano con quanto visto nella "trilogia classica". Perchè se sulla carta sembrava simpatico far abitare Luke sul pianeta natale di Anakin, in prospettiva non si capisce per quale motivo il saggio Yoda decida di lasciarlo proprio lì dove il padre potrebbe trovarlo con più facilità. Quanto a Leia, Lucas si è dimenticato di come ne "Il Ritorno dello Jedi" (1983) parlasse di sua madre, che di fatto non ha mai conosciuto. E come sempre gli jedi riservano l'assenza di continuità più marcata: a  quanto pare l'abilità di sopravvivere alla morte non è innata in chi muore, ma in chi li osserva; sorge quindi il dubbio su come Luke potesse vedere senza problemi il fantasma di Obi-Wan, mentre questi necessita di uno speciale addestramento per farlo.


Superato il ridicolo, l'inconsistenza, la mancanza di continuità e le idiozie assortite, quel che resta è uno spettacolo vuoto, compiaciuto nell'abuso di effetti, senza nè arte nè parte e sopratutto senz'anima. Un film infantile, ridicolo, genuinamente cretino, il perfetto veicolo per vendere il marchio, per lucrare sulla buona fede e, purtroppo, sulla stupidità dei fans. Un prodotto fatto da un uomo ormai privo di talento e pensato per gente senza pretese e senza cervello. Un affronto a quanto di buono c'era in passato nella "saga cosmica" per eccellenza" e a quanto di buono possa esserci nel cinema di puro intrattenimento.

lunedì 9 novembre 2015

Il Gatto a Nove Code

di Dario Argento.

con: James Franciscus, Karl Malden, Catherine Spaak, Cinzia De Carolis, Pier Paolo Capponi, Rada Rassimov, Horst Frank.

Thriller

Italia, Francia Germania- 1971
















Il successo internazionale di critica e pubblico de "L'Uccello dalle Piume di Cristallo" (1970) lanciò immediatamente Dario Argento nell'olimpo del cinema di genere. Un nuovo autore era nato, un regista in grado di riprendere stilemi consolidati per riorganizzarli in modo personale. Un autore che tanto avrebbe dato alla cinematografia nazionale e al genere tutto, ma che per il momento, alla sua seconda prova dietro la macchina da presa, deluse ogni aspettative.
Uscito appena un anno dopo il suo folgorante esordio, "Il Gatto a Nove Code" (1971) rappresenta infatti un passo indietro per Argento: un thriller più canonico nella costruzione e nella messa in scena, che parte da presupposti poco credibili nella storia per allontanarsi in tutto e per tutto dal "giallo" e rifarsi al più blando thriller d'indagine americano. Con risultati talmente scarni da costringere lo stesso regista a prenderne successivamente le distanze.



A seguito di un furto in una industria farmaceutica, uno dei ricercatori viene ucciso in modo da farne credere il suicidio. Il giornalista Carlo Giordani (James Franciscus) e l'enigmista non-vedente Franco Arnò (Karl Malden), consci della messa in scena, indagano.




Tutti (o quasi) gli elementi che resero interessanti l'esordio di Argento vengono qui a mancare. La violenza viene asciugata sino all'essenziale, l'erotismo escluso quasi del tutto (l'eccezione è data da un topless della bellissima Catherine Spaak, che però a causa del ridicolo parrucco non riesce ad essere eccitante quanto dovrebbe) e la stilizzazione visiva si ripresenta solo grazie alle soggettive dell'assassino, ancora più marcate che in precedenza. Manca una vera ispirazione, una vena non semplicemente "di genere" che anche nei film a venire avrebbe caratterizzato il miglior cinema dell'autore. L'unica forma di sperimentazione è data dalla giustapposizione con le parentesi comiche, data dall'uso di spalle (il poliziotto fissato con la cucina della moglie, lo scassinatore sfigato) o di vere e proprie situazioni gonfiate al limite del ridicolo (il gay bar) che finiscono per strappare qualche risata senza risultare troppo invasive o forzate.
Per il resto, "Il Gatto a Nove Code" è un thriller blando, dove la costruzione è schematica, talvolta artificiosa e forzata (scoperta l'identità del "colpevole", si fatica a capire come possa ottenere informazioni riguardo ai due improvvisati detective e sopratutto al fotografo, prima vera vittima). I brividi latitano e il gioco di specchi del "whudunnit" non coinvolge più di tanto.




L'intera opera è fredda, anche a causa della mancanza di stile nell'esecuzione degli omicidi e nella scarsa ricercatezza della tensione. Quello di Argento, qui, è puro mestiere, che non si fa disprezzare, ma neanche stupisce, al punto da deludere immancabilmente le aspettative. Le uniche note davvero rimarchevoli sono date dal cast, dove compare come co-protagonista il grande caratterista Karl Malden in una rara trasferta capitolina; e, ovviamente, negli effetti speciali: la sequenza della morte sotto il treno stupisce tutt'oggi per perizia immaginifica e realismo nell'esecuzione.
Quanto al resto, è un semplice thriller diretto con il pilota automatico, privo di guizzi, con una trama a tratti risibile ed orfano delle intuizioni geniali proprie dell'autore. Ma anche, il che è ancora peggio, dei tratti stilistici che hanno fatto la fortuna del "giallo".

martedì 3 novembre 2015

The Addiction- Vampiri a New York

di Abel Ferrara.

con: Lili Taylor, Christopher Walken, Annabella Sciorra, Edie Falco, Paul Calderon, Kathryn Erbe, Michael Imperioli.

Usa, 1995

















---CONTIENE SPOILERS---


Il biennio 1994-1995 rappresenta un ideale punto d'arrivo nel cinema americano. Gli anni '90, con la riscoperta del "cinema d'autore", la rinascita di un sistema produttivo non unicamente imperniato sulla logica del profitto e la contemporanea massimizzazione del cinema indipendente, si pongono come la perfetta continuazione di quel cinema sperimentale che tra la fine degli anni '60 e i primissimi anni '80 configurò la cosiddetta "New Wave", apice inarrivabile della cinematografia a stelle e strisce, che, inutile negarlo, in quegli anni raggiunge il massimo splendore.
Nel biennio, a metà decennio, un ristretto pugno di pellicole reinventa, riarrangia e ristruttura tutte le convenzioni estetico-narrative del "classicismo" per creare nuovi linguaggi. Basti pensare all'exploit di Tarantino con "Pulp Fiction" (1994), dove la destrutturazione narrativa , fortemente influenzata da Godard, Kubrick e Welles, ricrea da capo le regole della narrazione. Allo speculare "I Soliti Sospetti" (1995), dove si ha invece un costruttivismo totale che trova il suo punto di forza nel colpo di scena finale. O ancora a "Natural Born Killers" (1994), dove l'estetica filmica si colora di influenze video e televisive, così come nel meno noto ma altrettanto importante "Wild Bill" (1995) di Walter Hill, che riprende il discorso del western "revisionista" anni '70.
Eppure, per quanto fortemente legati alla sperimentazione, cineasti come Tarantino,Stone o Richard Linklater non si sono mai davvero allontanati da una forma di classicismo nella scrittura, che li porta sempre e comunque ad usare una struttura in atti e a regolare la caratterizzazione dei personaggi su una forma di necessità narrativa. Laddove costoro si sono fermati, Abel Ferrara è riuscito ad andare oltre con il capolavoro "The Addiction".
Nella struttura di base, Ferrara scompagina totalmente ogni forma di schematismo classico, infrange la narrazione lineare per creare una struttura para-episodica dove ogni sequenza e talvolta ogni singola scena è un mondo a sé, un tassello di un mosaico che vive grazie al simbolismo filosofico-religioso. Un tassello dove ogni gesto, simbolo, immagine o personaggio veicola parte del tutto, per creare una nuova struttura narrativa, al contempo estremamente frammentata e ineludibilmente compatta.


"The Addiction" è però anzitutto un compiuto racconto morale, una riflessione amara, viscerale e talvolta sfrontata sul concetto di "Male" che attanaglia l'essere umano. Laddove "Il Cattivo Tenente" (1992) si poneva come una parabola su di un peccatore, "The Addiction" è lo spaccato di una vita che prende coscienza dell'ineludibilità del peccato stesso, vissuta come un gigantesco flusso di coscienza nel quale si mischiano citazioni filosofiche e reminiscenze religiose.
Il vampirismo di Ferrara è malattia dell'anima che passa per il corpo. Un malanno simile all'AIDS (si propaga grazie al sangue ed è sinonimo di abbandono al puro senso, entra dalle vene del braccio e causa la "fuoriuscita della vita") che circola per le strade, distrugge il corpo, condannato a marcire in una morte perenne, ma sopratutto infrange lo spirito. La malattia della giovane Kathleen (Lili Taylor, specchio di Ferrara e sopratutto di Nicholas St.John, all'epoca in preda ad una profonda crisi spirituale), il "vizio", ossia la sete di sangue, la porta a realizzare compiutamente l'onnipresenza del male nella vita umana. "Adesso capisco, o Signore, la mostruosità che c’è dentro di noi, la nostra droga è il male, la nostra propensione al male risiede nella nostra debolezza. Kierkegaard aveva ragione, c’è un terribile precipizio davanti a noi, ma si sbagliava riguardo al salto, c’è differenza tra il saltare e l’essere spinti. Si arriva a un punto in cui bisogna fare i conti con i propri bisogni e l’incapacità di gestire fino in fondo la situazione crea un’insopportabile ansia, non è cogito ergo sum, ma pecco ergo sum, pecco quindi sono"; tale è il punto di arrivo del peregrinare dell'uomo all'interno del mondo, la presa di coscienza dolorosa ed incontrovertibile della propria vera essenza. Il male è parte dell'uomo: "Non siamo peccatori perchè pecchiamo. Pecchiamo perchè siamo peccatori". Il male, in quanto parte dell'essere, porta l'uomo a commettere il male. Non si può scindere il male dall'essenza umana; dinanzi alle foto dei massacri della II Guerra Mondaile, Kath afferma come la riflessione di Santayana secondo la quale colui che non conosce la Storia è condannato a ripeterne gli errori sia solo una falsità: il male esiste a prescindere dalla storia e dalla sua coscienza. L'uomo, in quanto portare del "virus" del male, lo commetterà a prescindere da ogni forma di conoscenza storica. Ma sopratutto: una volta raggiunta la piena realizzazione della propria malvagità, l'uomo non può conoscere altri limiti di sorta nella commissione dello stesso.


Nella piena realizzazione della propria compiutezza, l'uomo non può sottrarsi da compiere quel male che è parte di sé. L'atto peccaminoso (il morso, inteso sia come diffusione del malessere nella sequenza in cui Kath seduce il suo insegnante e lo porta a consumare una dose di sangue, sia come atto puramente violento in quella nella quale morde la studentessa di antropologia) diviene affermazione di sé, intesa come imposizione della propria superiorità. Il peccatore, come il super-uomo di Nietzsche, usa il peccato come arma per sottomettere il prossimo. Quest'ultimo ai suoi occhi è un debole: un soggetto che non ha coscienza di sé e che dunque è preda designata. Quando la vampira Casanova (Annabella Sciorra) aggredisce Kath per la prima volta, le chiede di gridarle contro, di imporle di andarle via: l'essere che ai propri occhi è superiore può avere rispetto solo per un suo pari; nel momento in cui Kath si dimostra sottomessa, tenta ossia di salvarsi facendo ricorso non alla forza ma alla clemenza, il vampiro non può obbedire: non può riconoscere la pietà, in quanto sistema di valore a lui avulso poichè superato. Allo stesso modo, anche Kath ordina alle sue vittime di essere scacciata con la forza: l'affermazione di sé non può trovare limite alcuno se non in un altro sé stesso, ossia in un soggetto speculare e perciò pari in dignità.



Pur tuttavia, l'abbandono totale al peccato, inteso ora anche come abbandono al vizio e alla dipendenza (il titolo indica appunto una dipendenza ineludibile), porta indefettibilmente alla rovina. Quando Kath sembra persa, incontra per caso il personaggio di Pena (un magnetico Christopher Walken), vampiro anziano che riesce a contenere la "fame". L'abbandono al vizio porta all'autodistruzione, ma Pena riesce a contenere il proprio, a non esserne vittima: l'uomo, pur cosciente del "male" riesce ad addivenire ad una sorta di patto con lo stesso, o, per meglio dire, con la propria percezione. Il vecchio vampiro è dipinto come un intellettuale, forse un artista, membro di quella classe un pò bohemien prodotta dall'Occidente borghese che si diverte a mistificare il mondo che l'ha generata. Pena è il simbolo di quella parte d'umanità che non ignora il peccato (i vivi), né vi si abbandona totalmente (i vampiri), ma che in ogni singolo gesto, pensiero e ragionamento sa ricondurre il proprio essere in una zona sita al di là della semplice dicotomia bene/male. Una zona oscura (esordisce chiedendo a Kath se "vuole essere portata in un luogo oscuro") poichè difficile da raggiungere. Uno stato dell'essere, il suo, comune a molti filosofi occidentali (il richiamo esplicito è al solito fatto a Nietzsche, ma anche a Sartre) e che porta al dolore, la "pena" (in originale "Peinia", pronunciato "Pain") che deve scontare colui che sia attanagliato dalla coscienza del male e dalla ripulsione per lo stesso. 
Il dolore dell'anima è il primo antidoto al vizio: un limite che porta l'uomo ad avere coscienza del proprio male grazie al superamento del suo concetto assolutistico. Non per nulla, è lo stesso Pena ad affermare:"L'umanità ha cercato di esistere al di là del bene e del male e sai cos'ha trovato? Me."


Ulteriore mitigazione all'abbandono al vizio è il valore religioso: prima del massacro finale, Kath incontra un giovane prete (Michael Imperioli) il quale le ricorda della presenza di un altro termine assoluto, il quale, nella confessione cattolica, è anche essere immanente, non solo trascendente. Il male assoluto del peccatore non può tuttavia accettare la coesistenza con un ulteriore assolutezza: "non mi sottometterò!" esclama furente. L'essere assoluto, poichè portatore di un concetto assoluto ed assolutizzante, non può riconoscere l'esistenza di un principio supremo (il Bene, il Dio misericordioso e amorevole del Cattolicesimo) che ne limiti o neghi l'azione, poichè in sua presenza non potrebbe affermarsi e dunque realizzarsi.
Pur tuttavia, l'incapacità di schivare le conseguenze del male (il malessere fisico e spirituale) portano l'uomo a nuova sofferenza. L'abbandono al vizio viene sublimato dalle parole di Kath prima del massacro, utili a comprendere la sua successiva caduta in disgrazia: si cerca il vizio per soddisfare una propria irresistibile pulsione, ma questo porta con sé, oltre al soddisfacimento, anche l'ottundimento dei sensi. La soddisfazione di una voglia conduce alla perdita di una parte di sé. La soddisfazione del desiderio del Male, porta ad una autodistruzione definitiva, la quale viene però negata a Kath da Casanova, che le ricorda il suo status di peccatore, di portatrice del Male. L'escapismo del suicidio, visto come forma di sollievo al dolore del vivere, viene negato in quanto non conforme non solo alla dottrina religiosa di riferimento dei due autori (Nicholas St.John, è bene ricordarlo, è un prete mancato), ma anche perchè non idoneo a portare alla accettazione del proprio essere.


La piena realizzazione di sé stessi viene fatta invece passare dai due autori attraverso il sacramento della confessione: l'ammissione totale e cosciente del peccato, inteso non solo in senso religioso (e quindi spogliando il sacramento stesso della sola valenza sacrale per aggiungervi anche quella laica), ma sopratutto come esternazione cosciente e critica della propria natura, viatico per la propria accettazione. L'affermazione sentita di "essere il male" e la richiesta del perdono portano ad una forma di autocoscienza totale che permette all'uomo di poter convivere con la propria natura 
Pur tuttavia, nel criptico finale Kath afferma come l'autocoscienza sia autodistruzione: è davvero possibile giungere ad una piena realizzazione del proprio essere o bisogna affidarsi alla religione, così come suggerisce l'ultimissima inquadratura? Ferrara e St.John non rispondono: il loro non vuole essere un trattato filosofico finito, il quale sarebbe per forza di cose riduttivo, quanto una riflessione esistenzialista aperta, uno spaccato più che un diktat, la descrizione critica e sentita di uno stato d'essere, piuttosto che l'indicazione definitiva di una dottrina.


La costruzione fluviale della coscienza di Kath e delle riflessioni dei due autori, si fa decostruzione totale di ogni schematismo filmico. La tripartizione in atti, pur presente, viene obliata dalla distruzione della linearità. La citazione colta si fa dialogo e la dialettica filosofica forma narrante. "The Addiction" è la totale negazione di ogni forma narrativa evolutiva: non vi è sviluppo lineare, la narrazione è inscindibile dalla riflessione. Laddove questa è talvolta ellittica e caotica, anche la prima deve necessariamente esserlo. Forma e contenuto si saldano tanto da divenire inscindibili: l'ellissi narrativa diviene salto logico motivato, mentre il caos spirtual-esistenziale dà forma all'ellissi stessa.
Ferrara crea una nuova narrativa, che trova antecedenti logici in molto cinema europeo (su tutti "Rabbia" di Pasolini), ma che risulta inedita nel panorama americano e che non deve formalmente nulla a chi è venuto prima di lui.
Il "nuovo linguaggio" può risultare ostico, ma altrettanto evocativo. "The Addiction" è un capolavoro di cinema al servizio della mente, un flusso costante di immagini in grado di dar forma compiuta, coerente e vivida ad una ricerca spasmodica, scomoda eppure ineludibile.