mercoledì 30 dicembre 2015

Il Ponte delle Spie

Bridge of Spies

di Steven Spielberg.

con: Tom Hanks, Mark Rylance, Alan Alda, Domenenick Lombardozzi, Amy Ryan, Francis Gary Powers, Jesse Plemons, Will Rogers, Sebastian Koch.

Usa, Germania, India 2015















Alle soglie dei settant'anni e con oltre cinquanta regie accreditate, Spielberg continua a sorprendere. Perchè su di lui è stato scritto tutto ed il contrario di tutto: prodigio della Nuova Hollywood, distruttore di un nuovo modo (all'epoca) di intendere la narrazione filmica, innovatore ineguagliato, massacratore di botteghini, artista raffinato, ruffiano indefesso e chi più ne ha più ne metta.
Dinanzi allo spettacolo, spiazzante ed eccelso, de "Il Ponte delle Spie" converrebbe rivedere e ripercorrere la sua carriera e capire, con distacco, quanto di effettivamente valido ci sia stato e quanto, invece, sia frutto di sopravvalutazione.



Stati Uniti, 1957. Dopo una sortita della C.I.A., Rudolf Abel (Mark Rylance), spia sovietica sotto copertura, viene tratto in arresto. Per difenderlo nell'imminente processo viene nominato James Donovan (Tom Hanks), avvocato specializzato in diritto assicurativo, il quale riesce a convincere il giudice di merito ad evitare la condanna a morte. Tempo dopo, a seguito della cattura del giovane pilota Francis Powers (Austin Stowell) da parte delle autorità sovietiche e dello studente Frederic Pryor (Will Rogers) da parte della DDR, Donovan viene ingaggiato dall'Agenzia per trattare lo scambio di prigionieri.


Più che un thriller d'altri tempi o un pamphlet sullo scontro tra morale nazionale e diritto, l'ultima fatica di Spielberg è uno spaccato dei primi anni della Guerra Fredda. Uno spaccato integerrimo ed incredibilmente asciutto. Tralasciata ogni retorica, messo da parte lo spirito patriottico e la ridondanza di "Salvate il Soldato Ryan" (1998) e "Lincoln" (2012), l'autore, coadiuvato nientemeno che dai fratelli Coen in sede di script, traccia una descrizione ferma e marcata della paranoia imperante negli States, dando spazio ai filmati di propaganda mostrati ai bambini su come comportarsi un caso di attacco nucleare causticamente giustapposti al giuramento di fedeltà alla bandiera e a personaggi secondari rozzi, stupidi e fieramente violenti, che non si farebbero problemi a calpestare la legge pur di giustiziare il "pericolo rosso". Descrizione al vetriolo figlia della genialità del duo di sceneggiatori, il cui tocco si sente anche e sopratutto negli sprazzi di umorismo che costellano anche le sequenze più serie, come l'incontro tra Donovan e il capo della DDR o quello con la finta famiglia di Abel.
Ma se questa rievocazione dell'America che fu è riuscita e interessante, il merito è anche del regista.


Spielberg plasma Donovan come un "eroe per caso", un uomo qualunque chiamato a recitare una farsa, ossia un processo vistosamente afflitto da vizi procedurali, il cui esito è già scritto; ma che, nonostante tutto, riesce a tirare fuori il meglio da un situazione a lui sfavorevole. Nella seconda parte, questa "spia per caso" deve affrontare l'ostilità dei vertici della Repubblica Democratica Tedesca, pronti a tutto per arrivare alla ribalta internazionale e per questo ancora più pericolosi dei Sovietici. Descrizione che pur viziata da inesattezze storiche (prima di divenire un affermato civilista, il vero Donovan era stato consulente dell'OSS durante la II Guerra Mondiale, il che spiega il suo reclutamento da parte della C.I.A.), riesce a convincere e che ben si poggia sulle spalle di uno stagionato Tom Hanks. Un uomo comune chiamato a reggere le vite di tre persone e i destini delle due sfere mondiali il quale non si cura delle critiche o delle minacce di una società becera e che per questo diviene fin da subito simpatico, nonostante il finale fin troppo ottimista, decisamente spielberghiano ed indigesto.


Finale che tutto sommato mal si sposa con il tono del film, secco ed immediato, privo di ogni volontà agiografica e per questo decisamente convincente. Una sorta di "nuovo corso" nel cinema di un autore solitamente avezzo alle semplificazioni e alle spettacolarizzazioni narrative, che qui ritrova, come in "Munich" (2005), un gusto per la semplicità classica, quasi eastwoodiana, davvero gradita, che rende questo suo ultimo exploit uno dei migliori della sua carriera.

lunedì 21 dicembre 2015

Star Wars- Il Risveglio della Forza

Star Wars- The Force Awekens

di J.J.Abrams.

con: Daisy Ridley, John Boyega, Adam Driver, Harrison Ford, Peter Mayhew, Carrie Fisher, Mark Hamil, Domhnall Gleeson, Oscar Isaac, Andy Serkis, Lupita Nyong'O, Gwendoline Christie, Max Von Sydow, Anthony Daniels, Kenny Barker.

Fantastico/Avventura

Usa 2015











---CONTIENE SPOILERS---


Dieci anni dopo "La Vendetta dei Sith" (2005), il fandom di "Star Wars" non è più lo stesso. Appurata la fallacia di Lucas, subite le delusioni della "nuova trilogia", stanchi delle nuove edizioni dei primi tre film che ogni due o tre anni si affacciano sugli scaffali, i fans sembrano (o sembravano) più smaliziati verso il loro oggetto di culto.
Eppure, quando fu annunciata la lavorazione de "Il Risveglio della Forza" in molti gioirono. Forse per il coinvolgimento di J.J. Abrams, che già riuscì a rilanciare il marchio di "Star Trek" nel 2009. Forse per il semplice fatto che questo nuovo "episodio" avrebbe fatto da seguito a "Il Ritorno dello Jedi" (1983), ossia avrebbe continuato la storyline più amata.





Fatto sta che questo nuovo exploit è il primo film della saga ad essere stato concepito e prodotto per fini unicamente ed esclusivamente commerciali, ossia far conoscere il marchio a quei giovanissimi che non hanno nemmeno potuto conoscere in sala la "nuova trilogia" e far tornare in sala gli amanti di vecchio corso. Tolto di mezzo di demiurgo Lucas, l'intera operazione poggia sulle spalle di Abrams, ma sopratutto degli esecutivi Disney, che non hanno badato a spese e compromessi pur di far contenti i fans: tornano di forza tutti i personaggi più amati interpretati dal cast originale, oltre che Lawrence Kasdan, sceneggiatore di quel "L'Impero Colpisce Ancora" (1980) giustamente osannato.
Il paradosso puro è che questa operazione giostrata a tavolino per piacere a tutti e per forza può dirsi vincente, a discapito della palese derivatività.




Dalla trilogia classica ritornano tutti gli elementi che ne fecero la fortuna. Primo fra tutti quello dei "cattivi", i nazisti spaziali che opprimono i buono, ora definiti "Nuovo Ordine". Questa volta, la crudeltà di questi miliziani non viene celata dietro la sola distruzione di un pianeta, ma sbattuta in faccia fin dalla prima scena, con la fucilazione degli innocenti. Tornano di peso anche le ambientazioni: un pianeta deserto, qui chiamato Jakku al posto del classico Tatooine, uno innevato, ossia la roccaforte del Nuovo Ordine, e persino uno boscoso; tris di ambientazioni nostalgiche, dietro le quali si cela un forte manierismo di scrittura.
Quasi tutti gli elementi che compongono la storia di base sono anch'essi ripresi dai vecchi film. Anche qui la trama prende le mosse da un mcguffin occultato all'interno di un droide che per caso viene raccolto da un'abitante di un pianeta desolato, la quale sogna di fuggire via, ossia la giovane Rey (Daisy Ridley), che seguirà le vie della forza anche grazie ai consigli di una piccola e determinata creatura aliena, Maz Kanata (Lupito Nyong'O), al seguito del cui incontro avrà una visione degli eventi futuri. I cattivi sono nuovamente capeggiati da un genio del male sfregiato, il signore dei Sith Snoke (Andy Serkis), guidati in battaglia da un cavaliere del lato oscuro, Kylo Ren (Adam Driver), nonchè da un irreprensibile ufficiale simil SS, il generale Hux (Domhnal Gleeson). La battaglia finale si combatterà nei pressi di una super-arma imperiale, la stazione Starkiller, nuova e più imponente Morte Nera, della quale i nostri eroi dovranno disattivare gli scudi per permettere ad un asso dell'aviazione, il pilota Poe Dameron (Oscar Isaac), di bombardarne il punto debole.
In sostanza: proprio come avveniva nel precedente film di Abrams "Star Trek: Into Darkness" (2013), che saccheggiava parti de "L'Ira di Khan" (1982), anche qui si ha un sequel-reboot composto con i pezzi più amati dei film più amati dei fans. La sensazione di dejà-vu è forte e la natura strettamente nostalgica-commemorativa diviene quasi ridicola a causa del numero spropositato di citazioni che vengono letteralmente sputate in faccia allo spettatore.
Eppure, "Il Risveglio della Forza" risulta, al di là di tutto, estremamente riuscito sul piano narrativo ed estetico grazie agli sforzi di regista e sceneggiatore.




Kasdan riesce a caratterizzare a dovere il terzetto di protagonisti inediti. Rey, sebbene inizialmente ricalcata sul giovane Luke Skywalker, convince per la sua carica vitale, degna erede della tradizione di eroine della saga, nonchè per i dubbi che affliggono il suo cammino sui passi della Forza, non più una linea dritta come avveniva in "Guerre Stellari" (1977), bensì un sentiero fatto di vera paura e dolore. Il giovane Finn (John Boyega), il cui nome di battesimo e la storia di origini rimandano direttamente alla distopia di "THX1138" (1970), è uno dei personaggi più sfaccettati dell'intera serie: uno stormtrooper che si ribella all'omologazione, ma non diviene subito un eroe, quanto uno scavezzacollo che riesce a trovare il coraggio solo per salvare la sua bella compagna. Il villain Kylo Ren, novello Darth Vader, ha anch'esso dei tratti caratteriali "grigi" che aumentano la profondità della narrazione: un jedi questa volta davvero sedotto dal potere del Lato Oscuro, ma ancora dilaniato dai sentimenti paterni. Un antagonista che, dal terzo atto in poi, viene svestito in parte della sua carica intimidatoria per farsi personaggio completo, via di mezzo tra la vittima e il carnefice.
Persino il ritorno di Han Solo, interpretato da un 73enne Harrison Ford che ancora sprizza carisma da tutti i pori, porta ad una forma di approfondimento del personaggio: un ex eroe tornato a fare il pirata per dimenticare il tradimento del figlio, il quale ama ancora come tale.
E a differenza del passato, non mancano momenti nei quali l'azione rallenta, il ritmo si rilassa per permettere di dare spazio ai personaggi, ai loro sentimenti e alle loro relazioni, piuttosto che all'azione dura e pura, permettendo allo spettatore, neofita o veterano che sia, di avvicinarvisi, evitando di schiacciarli a meri pupazzi in un gioco di luci e suoni.



Il tocco di Abrams trasforma le battaglie in veri e propri spettacoli visivi. Abbandonati i green-screen e la CGI ad oltranza, il cineasta si rifà al Lucas prima maniera, con effetti pratici, location e animatronici. Il mondo di "Star Wars" non è mai stato così vivo e credibile su schermo e le sequenze d'azione, grazie all'uso di set fisici, abbondano di movimenti di macchina che le rendono finalmente cinetiche e rutilanti. E come Kasdan in sede di scrittura, anche  Abrams non ha paura di rallentare il ritmo, di concedersi un avvicinamento ai personaggi e finanche un finale triste, dove gli eroi per una volta non trionfano, ma devono fare i conti con il lutto anche quando raggiungono i loro scopi.




Pur con i suoi difetti, "Il Risveglio della Forza" è un buon esempio di cinema disimpegnato interessante. Un ritorno alle atmosfere e agli elementi che resero celebre la creatura di Lucas riletti in chiave moderna, più attenta al contenuto che non al mera forma.

sabato 12 dicembre 2015

4 Mosche di Velluto Grigio

 di Dario Argento.

con: Michael Brandon, Mimsy Farmer, Bud Spencer, Jean-Pierre Marielle, Aldo Bufi Landi, Callisto Calisti, Oreste Lionello.

Thriller

Italia, Francia 1971















---CONTIENE SPOILERS---

Ultimo capitolo della "trilogia animale", cominciata sorprendentemente con "L'Uccello dalle Piume di Cristallo" (1970) e proseguita in modo mediocre con "Il Gatto a Nove Code" (1971), "4 Mosche di Velluto Grigio" rappresenta un ritorno alla forma smagliante degli esordi per il primo Argento. Thriller "classico", basato sui dettami del "giallo all'italiana" e del canonico "Whudunnit", questo terzo exploit si lascia apprezzare tutt'oggi per la carica visionaria, la bella fotografia e l'uso a tratti originale dei luoghi comuni del genere.


Il batterista Roberto (Michael Brandon) viene coinvolto suo malgrado in un omicidio. Ossessionato dai sensi di colpa, ben presto viene ricattato da uno strano figuro, la cui identità è celata da un'inquietante maschera infantile. Con l'aiuto del barbone Diomede (Bud Spencer), del suo amico detto "il professore" (Oreste Lionello) e di uno scalcinato detective omosessuale (Jean-Pierre Marielle), Roberto cerca in tutti i modi di smascherare il suo stalker.


Abbandonata la piattezza all'americana del film precedente, Argento torna a costruire la narrazione attorno al tema della visione e della sua manipolazione. Roberto viene incastrato grazie ad una vera e propria sciarada e ricattato con le foto della stessa, dalle quale traspare una sua possibile, ma fasulla, colpevolezza. Allo stesso modo, il dettaglio che gli permette di smascherare il killer deriva dall'ultima immagine saldatasi nella cornea di una delle vittime, data dalle "4 mosche" del titolo.
Tema della visione che viene sottolineato dalle belle sequenze in soggettiva, che anticipano quelle ancora più riuscite del successivo "Profondo Rosso" (1975): la visione del killer e quella di Roberto si intrecciano nella soggettiva per annullare ogni intermezzo tra soggetto e spettatore, con esiti eleganti e spettacolari, come la scena dell'ingresso al teatro o l'omicidio dell' "attore", totalmente consumato in prima persona, in una ripresa del classico "L'Occhio che Uccide" (1960).


La rielaborazione del giallo si riaffaccia nelle atmosfere oniriche e nei sogni del protagonista. La bellissima fotografia di Franco di Giacomo immerge le azioni in una tenebra opprimente, che si fa setting ideale per le sequenze di morte, ancora più stilizzate che in passato. Le visioni di Roberto e del killer si scindono per farsi dapprima rielaborazione degli eventi, poi, una volta giunti nel finale, flashback e flashforward degli stessi, con la decapitazione che si trasforma da elaborazione del senso di colpa ad anticipazione della bella sequenza di chiusura. Il tema della pazzia e il gender del killer ritornano nuovamente e, da qui, divengono tratti essenziali nella poetica dell'autore, rinverdendone i fasti.
Le false piste (i "red herring" derivanti dal giallo all'americana) si moltiplicano: tanti i personaggi introdotti con possibili moventi per gli omicidi, molti dei quali riescono davvero a sviare l'attenzione dello spettatore più attento e partecipe. Tanto che la rivelazione finale giunge davvero inaspettata, prova dell'ottima costruzione narrativa.


Laddove Argento inciampa è nella commistione con il registro comico. I personaggi di Diomede, interpretato da un inedito Bud Spencer, del professore e del detective spezzano fin troppo bene la tensione, introducendo una serie di sequenze troppo sopra le righe, come quella della "mostra d'arte funeraria", che sembra uscita più da un episodio di "Fantozzi" che a un thriller all'italiana.
Giustapposizione che non sempre paga, ma che non affossa del tutto le sorti della pellicola, a conti fatti forse tra le migliori del (ex) maestro del brivido.

giovedì 10 dicembre 2015

The People vs. George Lucas

di Alexandre O.Philippe.

Documentario

Usa 2010





















Due generazioni nate e cresciute nel segno di "Star Wars". Un fandom enorme ed in costante crescita. Intere schiere di individui (matti? Deviati? Semplicemente entusiasti?) disposti ad affermare candidamente come "Star Wars" sia la loro unica ragione di vita. Un fenomeno inarrestabile, irrefrenabile, irraggiungibile, quello della creatura di Lucas, che si è imposto fin dalla prima, timida ma trionfale comparsa in sala nel 1977.
E nel 2010, cinque anni dopo la stoccata finale de "La Vendetta dei Sith" (2005) e al contempo cinque anni prima dell'avvento de "Il Risveglio della Forza" (2015), il documentario "The People vs. George Lucas" cerca di chiarire lo stato delle cose, in particolare il rapporto controverso tra il creatore e gli adepti, in quella che è divenuta una vera e propria divinazione religiosa, attraverso una divisioni in capitoli tematici,dissezionando l'opera di Lucas, il suo approccio alla stessa e le reazioni dei fans.




Perchè "Star Wars", oramai, è un fenomeno di massa, un ciclone che ha invaso le vita di milioni di persone, che a loro volta hanno omaggiato, sfottuto, ripristinato ed esaltato il loro "tesoro" in milioni di modi possibili attraverso internet. Parodie su parodie, scene ricostruite con pupazzetti in stop motion, attori improvvisati, costumi tirati su alla bene e meglio o addirittura uova dipinte a mano. Il tutto per testimoniare l'amore verso la creatura del filmmaker di Modesto. Un amore che non conosceva confini. Almeno fino al 1997.
L'opera di Philippe, a tratti divertita, talvolta inaspettatamente spiazzante, dà voce al contrasto avvenuto a seguito dell'uscita delle "Edizioni Speciali", intervistando fanboys da tutto il mondo, tra i quali spiccano Neil Gaiman e, nelle vesti di guest star illustri, l'ex "secondo padre" della saga Gary Kurtz, nonchè Francis Ford Coppola.
Edizioni Speciali che hanno commesso il peccato di togliere una certezza fondamentale al pubblico: l'opera cinematografica (ed in generale l'opera d'arte) in ultima istanza non appartiene a chi la osserva (o la compera), ma al suo creatore, che in quanto tale può sempre decidere di modificarla. Affermazione categorica, che Lucas persegue con tutte le sue forze pur di rivendere il tanto amato marchio. Nonostante la sua accorata testimonianza al Congresso degli Stati Uniti, nel 1988, dove, in un processo vero, accusava Ted Turner di aver vandalizzato alcuni classici del cinema americano proponendone una versione a colori sul suo network televisivo.
Sorge, dunque, un primo ed urgente dubbio: tale statuizione è vera o quantomeno condivisibile? Ognuno, naturalmente, finisce per pensarla come vuole, ma su tutto svetta il cinismo di Lucas nel non voler restituire ai fans, ossia alla sua principale fonte di reddito e sostegno, quella prima, imperfetta ma mai dimenticata versione della "trilogia classica".




Ancora più sorprendente è il confronto generazionale tra chi è cresciuto amando proprio quella prima trilogia ed i giovani che si sono avvicinati all'universo lucasiano con la vituperata (ed obiettivamente inferiore) nuova trilogia. La rabbia dei fans più anziani è tangibile, talvolta persino condivisibile, ma appare quantomai interessante vedere come i bambini apprezzino anche le trovate più stupide dei nuovi film. E ciò se si tiene conto di come, a detta dello stesso autore, essi siano destinati proprio ad una platea di giovani. Un "tradimento" verso i fans di vecchia data utile a capire la trasformazione del filmmaker: se prima la sua attitudine era quella di un Walt Disney, in grado di creare film per infanti trattando loro, però, come adulti intelligenti e, così, conquistando un pubblico trasversale, ora Lucas è più simile ad un qualsiasi regista di film d'animazione occidentale, convinto che il pubblico giovane sia per forza di cose stupido e che, di conseguenza, vada abbindolato a suon di battutine e luci colorate.
Tradimento che si palesa in quel mitico Maggio del 1999, quando la febbre dei fans esplode alla prima de "La Minaccia Fantasma". Un'attesa spossante, durata sedici lunghissimi anni, ripagata con un film talmente brutto da far infuriare anche gli aficionados più irriducibili. D'obbligo, in questa parte, assaltare il personaggio di Jar Jar Binks, ripetendo per l'ennesima volta la sua fastidiosità. E se le posizioni d'odio sono collaudate, più curiose sono quelle dei fanboys francesi, che anzi apprezzano il personaggio proprio per la sua totale estraneità al contesto serioso del film. Sopratutto, è l'intervento di Neil Gaiman a suscitare interesse, affermando come un personaggio mal riuscito sia sempre una parte delle visione dell'autore e che, per questo, nessun fan può arrivare a chiedergli di cancellarlo.



Critica al vetriolo anche sull'impero commerciale di Lucas, con le migliaia di giocattoli che negli anni sono stati prodotti. Semplicemente agghiacciante è la testimonianza dei fans più accaniti, che, con loro stessa sorpresa, si sono ritrovati a comprare qualsiasi oggetto avesse il logo di "Star Wars" sulla confezione: decine di edizioni Home-Video, centinaia di riproposizioni in scala del medesimo personaggio, senza contare i costumi, i pigiami e le mutandine a tema.




Si arriva alla parte più controversa: l'odio viscerale verso Lucas. L'odio ingenerato dalla delusione dei nuovi film, ma anche del terribile "Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo" (2007). Odio per una volta non campato in aria, ma dovuto alla presa di coscienza di come Lucas non abbia più talento alcuno e, men che meno, rispetto per l'intelligenza del suo pubblico.
L'esempio chiarificatore è l'ormai mitico episodio di "South Park" intitolato "The Chinese Syndrome", dove Lucas stupra le sue creature e con esse l'infanzia degli spettatori. Ed anche qui il film di Philippe si dimostra attento a non prendere posizioni, ma a dare a ciascuna "parte" il giusto spazio, tra chi appoggia la satira di Parker & Stone e chi invece se ne infischia.
La testimonianza che resta, tra la visione dei fans e le dichiarazioni di conoscenti, è comunque quella di un uomo che per anni si è opposto al controllo creativo dei produttori sulle sue opere, che ha sempre cercato di dare il meglio di sé sperimentando nuove vie, ma che alla fine ha letteralmente "ceduto al lato oscuro", tramutandosi in un mercante privo di inventiva, un produttore che pensa solo al profitto, preoccupato solo di accalappiare un'audience più giovane e facilmente plagiabile. Un uomo che arrivato alla vetta di Hollywood, ha deciso di ritirarsi, di non fare nulla perchè ora soddisfatto sotto il profilo economico. Un uomo che, nelle parole dell'amico e mentore Coppola che chiudono il film, può anche aver creato un impero transmediatico, ma il cui talento era immane, talmente grande da poter (una volta) eclissare la sua opera più famosa.


venerdì 4 dicembre 2015

Fratelli

The Funeral

di Abel Ferrara.

con: Christopher Walken, Chris Penn, Annabella Sciorra, Isabella Rossellini, Vincent Gallo, Benicio Del Toro, Gretchen Mol, Paul Hipp, Victor Argo.

Usa 1996















---CONTIENE SPOILERS---

Nel 1996 la poetica di Ferrara raggiunge un ulteriore culmine. Dopo la fusione totale tra le istanze di genere e le esigenze introspettive, culminate nel capolavoro "Il Cattivo Tenente" (1992) ed il successivo superamento degli schematismi propri del genere e della cinematografia occidentale tutta, il grande autore newyorkese crea un nuovo exploit dove fonde, questa volta definitivamente, il registro del gangster movie e lo spaccato morale di una comunità, questa volta circoscritta a quella cattolica-italoamericana, ossia il suo territorio ideale. "Fratelli" (il titolo italiano ben si adatta alla tematica della famiglia dissezionata nel film) rappresenta un'ulteriore apice nella sua carriera, una pellicola incredibilmente lucida eppure profondamente dolorosa, un nuovo viaggio sentito nel territorio del Male e del dolore, ultima collaborazione con l'amico Nicolas St.John ed excursus definitivo nel buio dell'animo umano, forse ancora più disperato e totalizzante del precedente "The Addiction" (1994).


Come da tradizione, Ferrara riprende il genere e lo piega ai propri fini. Il gangster movie classico qui viene trasfigurato in tragedia, come già avveniva ai tempi della New Wave con "Il Padrino" (1972); non per nulla, giusto un paio d'anni prima usciva nelle sale il "Carlito's Way" di De Palma, ideale punto d'arrivo dell'opera di riscrittura del filone. E sempre come da tradizione, Ferrara e St.John vanno oltre, scardinandone tutte le convenzioni.
I tre fratelli Tempio non hanno nulla a che spartire con i criminali che solitamente solcano gli schermi, neanche quelli più smaliziati e stanchi presentati da De Palma e Pacino, i quali non sono che un riflesso, nel film, richiamati nella scena iniziale con le immagini di "La Foresta Pietrificata" (1936): la figura di Bogart, il film nel film, testimonia la totale estraneità di ogni romanticismo al mondo di "Fratelli". I suoi personaggi sono più complessi, più vicini alla realtà di quanto si possa credere. Persone chiamate a fronteggiare le più umane delle emozioni e gli aspetti più turpi della vita da strada, alle quali ogni forma di idealizzazione, anche solo metaforica, viene negata.


I tre protagonisti Ray (Walken), Cesarino detto "Chez" (uno straordinario Chris Penn, premiato con la Coppa Volpi a Venezia) e il defunto Johnny (Vincent Gallo) sono tre figure perse nei meandri della loro stessa oscurità.
Ray è il classico personaggio "ferrariano": un uomo vinto dall'idea dell'ineluttabilità del Male, al pari dei vampiri i "The Addiction". Impersonificato nelle movenze rigide e nel volto luciferino di un Christopher Walken al solito sublime, è un "dannato" lontano anni luce da ogni forma di redenzione. "Ci dicono che tutto quello che facciamo è una libera scelta, ma allo stesso tempo ci dicono che abbiamo bisogno dell Grazia di Dio per fare il bene" e "Se faccio qualcosa di sbagliato è perchè Dio non ha concesso la Grazia. Se questo mondo fa schifo, è colpa sua". Non c'è possibilità ammenda nel suo mondo: Ray è perso nel concetto steso di dannazione, percorre la via della vendetta in modo automatico, seguendo una specie di copione scritto dal quale è impossibile deviare. La coscienza del suo male ne acuisce la portata totalizzante, non lo rende libero da nulla, ma ancora più schiavo. Se in "The Addiction" il finale aperto e vago lasciava presagire una forma di superamento del dolore causato dalla presa di coscienza, ora questo dolore è ineludibile, questa realizzazione annichilente. Si può solo accetare la perdizione, essere cosciente che, dinanzi a Dio, si verrà castigati all'Inferno. Nè più, nè meno.



Johnny, il più giovane dei tre, è il ribelle, l'anticonformista e provocatore. A discapito delle origine cattoliche, aderisce al partito comunista, intrigato dalle idee del compagno Stein (un cameo di David Patrick Kelly), si diverte a provocare gli altri criminali, ad inveire contro la smania di potere. Arriva ad intrecciare una pericolosa relazione con la moglie del boss Gaspare (Benicio Del Toro) per il solo gusto di infangarlo, sbattendola in faccia al fratello Chez solo per provocarne le ire. Johnny non ha morale: non è sicuramente un buono, ma ha degli ideali, ossia la lotta contro quella categoria di che sfrutta il prossimo per il profitto. Un'aderenza al marxismo, la sua, che intreccia alla formazione criminale per perseguire una personale forma di "giustizia sociale" con la violenza, in un trionfo, nei fatti, dell'egoismo più sfrenato. Non è un eroe, Johnny, ma un "semplice" ribelle, una scheggia impazzita che decide di infrangere le tradizioni familiari (lo scontro frontale con gli "affari") e sociali (l'aderenza al comunismo); un uomo che tenta di disfarsi di ogni forma di costrizione, ma che, inevitabilmente fallisce. Un personaggio che nasce morto, vive solo nei ricordi degli altri personaggi e al quale viene negata ogni forma di tragicità, morendo per mano di un comune ragazzo.



Chez, ultimo polo del trio, è l'ideale antitesi di Ray e Johnny. Non ha l'indole egoista del più giovane, né il cinismo criminale del maggiore. Chez è cosciente del male, ma anche del fatto che la libera scelta lo possa eliminare. Coscienza che, tuttavia, provoca anche in lui dolore e follia. Dolore dovuto alla constatazione di come il prossimo vi si abbandoni coscientemente al male: nella scena della prostituta, la sua ira viene ingenerata dalla scelta della ragazza, poco più di una bambina, di prostituirsi anche quando può non farlo. La realizzazione del Male ingenera ferocia, dovuta all'incredulità con cui vi si concede spontaneamente. La follia, successiva, è solo in parte dovuta all'ereditarietà: il padre, gangster di vecchia data, gli ha trasmesso la tara dell'insania, così come trasmise il "peso" del male al fratello Ray. Follia dovuta all'incapacità di raggiungere una catarsi o anche semplicemente un compromesso con la sua natura violenta, sostanziandosi in un climax distruttivo, nel quale decide di porre fine al dolore proprio e altrui proprio con la violenza, con quel male che tanto a lungo lo ha corroso.



Sullo sfondo, come nella tragedia classica, gli orrori degli "eroi" si riverberano sulle donne, il trio di mogli interpretato dalle bellissime Isabella Rossellini, Annabella Sciorra e Gretchen Mol, nel quali si confrontano con i drammi, le paure e le debolezze dei personaggi maschili, sottolineando la totale mancanza di romanticismo in questi "gangster" di un mondo crudo e dolorante. Le donne sono le uniche depositarie della ragione, coro mai ascoltato del raziocinio, di quel Bene che i personaggi maschili ignorano o schivano per abbandonarsi alla violenza del mondo.




Un mondo, quello di "Fratelli", ammantano nell'oscurità. Abbandonati i contrasti forti di "King of New York" (1990), resta solo il buio a cingere i corpi dei personaggi, che come nella tradizione del gangster movie classico appaiono quasi sempre a mezza figura, cui Ferrara concede pochissimi primi piani, come al solito straordinariamente incisivi. Un mondo nel quale il dolore non trova una chiusa, se non nella circolarità della morte insensata. Nel quale l'omicidio è futile: il ribelle e dannato Johnny viene giustiziato per motivi puramente pretestuosi da un perfetto nessuno, all'uscita di quel cinema nel quale amava perdersi, ossia fuori dalla tradizione filmica, ma anche fuori da qualsiasi abbellimento.
La vendetta non è catarsi. Il castigo non è foriero di pace. L'uccisione del "colpevole" è il punto di non ritorno per Ray, l'apice dell'abisso in cui si precipita scientemente, rinnegando totalmente quell'umanità che la figura femminile tentava, invano, di risvegliare. Omicidio che si fa tramite irrimediabile per l'autodistruzione.
Solo nella morte, nel lutto definitivo, i tre fratelli ritrovano la pace, incarnata dalla bellissima sequenza nel quale intonano, divertiti e appassionati, "Tonight will be the night", abbracciati e sorridenti, in un ricordo del passato (remoto? recente?) che ritorna a testimoniarne la ritrovata comunione.