sabato 16 gennaio 2016

Creed- Nato per Combattere

Creed

di Ryan Coogler.

con: Micahel B.Jordan, Sylvester Stallone, Tessa Thompson, Phylicia Rashad, Graham McTavish, Tony Bellew.

Drammatico

Usa 2015













La moda di ri-creare, ri-aggiornare e riproporre eroi, saghe e brand storici del cinema pop americano non trova fine. Nel 2015 già "Star Wars- Il Risveglio della Forza" si era imposto come perfetto esempio di remake camuffato da seguito; ma poco prima del ritorno della saga spaziale più famosa di sempre, per il Giorno del Ringraziamento il pubblico americano ha potuto assaggiare un'altra minestra riscaldata: "Creed", sulla carta uno spin-off della saga dello "Stallone Italiano" inaugurata quasi quarant'anni prima, ma di fatto un vero e proprio remake che riprende il personaggio di Rocky e lo affianca al newcomer Adonis "Donnie" Creed, figlio di Apollo, per un film che cerca in tutti i modi possibili una propria identità, ma che soccombe spesso e volentieri allo storico modello di riferimento.


E' impossibile parlare di "Creed" senza sviscerare quello che fu il primo film della serie, quel "Rocky" (1976) che fece incetta di oscar e trasformò Stallone in un big della New Hollywood. "Rocky" era un piccolo film prodotto con tutti i crismi dell'allora imperante New Wave americana: concepito dalla sua star, che all'epoca aveva collezionato giusto qualche particina in pellicole di second'ordine ed una divertente comparsata ne "Il Dittatore dello Stato Libero di Bananas" (1971), sul cui set strinse amicizia con il mitico Woody Allen. Una pellicola girata tutto sommato con pochi mezzi, che però si avvaleva delle musiche di un esordiente Bill Conti, la cui "Gonna Fly Now" divenne giustamente una delle tracce più celebri della Storia del Cinema, e sopratutto della fotografia di Garrett Brown, che sperimentò per la prima volta la steadycam per creare la sequenza di culto della corsa sulla scalinata del museo d'arte di Philadelphia.
Ma la forza di "Rocky" non stava tanto nella verve tecnica, quanto nell'onestà con il quale un giovane Stallone si approcciava al mondo del cinema. Rocky Balboa è in tutto e per tutto Stallone: un atleta di quart'ordine, relegato a combattere in circuiti amatoriali per motivi strettamente alimentari. Un uomo comune, innamorato della timida e poco attraente Adrian (Talia Shire), ancorato alla strada di Philadelphia, al suo quartiere più povero, dove cerca disperatamente e con umiltà di sbarcare il lunario. E quando la grande occasione si presenta, lo fa quasi per caso: in incontro di pura esibizione con il campione del mondo Apollo Creed (Carl Weathers), uomo arrogante, ricco e spocchioso sin nel midollo, che organizza il torneo al solo fine di rinvigorire ulteriormente la sua immagine facendo credere al pubblico di voler concedere un'occasione ad un dilettante. Rocky si lascia sfruttare, accetta il compito con tutta l'umiltà possibile e senza montarsi la testa, riuscendo a catturare immediatamente la simpatia dello spettatore: la modestia del personaggio, proprio come quella del suo autore, rendono ancora oggi quel piccolo classico godibile e divertente. E per questo che una volta giunto al match, non ha nemmeno bisogno di sconfiggere il suo avversio, ma semplicemente di dimostrare il suo valore, senza bisogno di strafare, di conquistare la corona o divenire un eroe del popolo.
Una genuinità propria di un modo di fare cinema che di lì a poco si sarebbe perduta. Perchè con i successivi quattro film, Stallone decide trasformare questo suo avatar, questa sorta di maschera del sogno americano, in un supereroe con i guantoni, che, in "Rocky IV", arriva persino a vincere la Guerra Fredda, trasformandosi in un ottuso strumento reazionario al pari dell'altro grande personaggio forgiato da Stallone, quel John Rambo che da incarnazione della delusione di un'intera generazione di americani si trasforma, sempre nel 1985, in una macchina da guerra ammazzarussi.
Caduta di stile che rispecchia l'ascesa definitiva di Stallone allo star system, con la successiva perdita d'occhio di quei valori che rendevano i suoi personaggi davvero riusciti ed interessanti. Tanto che con il successivo "Rocky V" (1990) cerca di ritrasfromare il personaggio in un buzzurro dal cuore d'oro, fallendo miseramente a causa di una scrittura ed una regia risibile. Dovranno così passare ben 16 anni prima che lo Stallone Italiano possa ritrovare dignità su schermo (al pari dell'alter ego Rambo). "Rocky Balboa" (2006) era, in un certo senso, la conclusione perfetta della saga: un film piccolo, quasi timido, girato nuovamente con pochi mezzi ed un'inedita e spiazzante iniezione di cinema veritée ottenuta girando un vero match di pugilato tra Stallone ed il pugile Antonio Tarver. Una pellicola nella quale una ex star ormai vecchia e lontana dai fasti (il successo della serie di "The Expendables" sarebbe arrivato solo quattro anni dopo) decideva di confessarsi, di mostrare nuovamente il suo lato più sensibile ed umano per dimostrare di avere qualcosa da dire nonostante l'età avanzata. Finendo per riuscirci, in un finale che, al pari del primo capitolo, era sincero e umile e per questo coinvolgente.



Tanto che il Rocky di "Creed" è in tutto e per tutto lo stesso di 9 anni prima: un uomo lontano dai fasti che vive la propria vita in solitudine, resa oggi ancora più forte dall'assenza dell'amico Paulie e del figlio. La morte di Sage Stallone, il Rocky Jr. di "Rocky IV" e "Rocky V" offre una nuova, potente catarsi per Stallone, che mostra nel film una suo vecchia foto visibilmente commosso. Nuovamente, il personaggio e l'interprete tornano a combaciare in un perfetto gioco di specchi, avvalorato dal tema del rapporto padre-figlio alla base del film.


Perchè "Creed" è la storia di un figlio abbandonato dal padre che si unisce ad un padre privato del figlio per scrollarsi di dosso l'eredità paterna. Un'eredità scomoda ed ingombrante, data l'indimeticata caratura del personaggio di Apollo nel mondo della boxe.
Un rapporto stratificato, a tratti difficile e complesso, dove il giovane tenta in ogni modo di affermare sé stesso per il tramite dell'aiuto e dell'affetto del vecchio. E dove quest'ultimo è un uomo che oramai non ha più nulla né da perdere, tantomeno da dimostrare e che quindi trova nel giovane Adonis una vera e propria ragione di vita. Un rapporto dove la boxe non è che un mezzo, uno strumento per trovare la via per sé stessi, piuttosto che un fine. E se il coinvolgimento arriva è sopratutto grazie all'alchimia tra Stallone e Miachel B.Jordan, il cui trasporto è vivo e tangibile, anche se il primo si limita semplicemente a riprendere il personaggio "storico" con tutti i suoi tratti distintivi (la parlata scrausa, la filosofia spicciola ma efficace, la fisicità ormai ingombrante), al punto che la vittoria del Golden Globe e la nomination all'Oscar sembrano essere la classica manovra "politca" dell'Accademy.


Ma al di là dell'impegno dei due protagonisti e dell'interesse per i personaggi, non c'è davvero nulla di nuovo in questa settima pellicola della serie. Ryan Coogler, autore anche del soggetto, ha praticamente resuscitato Rocky per il solo gusto di farlo: sua è l'idea alla base dell'intero progetto, suo è anche la stesura finale dello script. Ed oltre al personaggio, resuscita di fatto il primo film, riprendendone la struttura e lo sguardo benevolo sugli outsider, portandolo in scena con il canonico piglio oggettivo imperante nel cinema indipendente americani, quasi a ricercare ossessivamente una forma di autenticità nella messa in scena che, tuttavia, spesso si traduce in mancanza di mordente.
Persino l'avversario di turno, l'inglese "Pretty" Conlan, altro non è se non una versione "wasp" dell'Apollo originale. Mancanza di personalità che affossa in parte l'interesse per questo nuovo, inaspettato exploit; che sul piano stilistico si segnala solo per il bel piano sequenza, girato senza stacchi camuffati in post-produzione, nella messa in scena del primo combattimento; boccata d'aria fresca, inserto virtuosistico in quello che è, per il resto, un vero e proprio remake indie.

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