mercoledì 30 marzo 2016

Lo Squalo

Jaws

di Steven Spielberg.

con: Roy Scheider, Richard Dreyfuss, Robert Shaw, Lorrainne Gray, Murray Hamilton, Karl Gottileb.

Thriller

Usa 1975
















Di epiteti, Steven Spielberg ne può contare davvero tanti: dal famoso "Re Mida di Hollywood" a "regista più sopravvalutato di sempre", passando per alcuni decisamente poco lusinghieri come "buffone", "istrione" e "autore bollito", termini e soprannomi non gli mancano davvero. E' curioso, tuttavia, constatare come in questo marasma, forse nessuno ha avuto mai il coraggio o la lungimiranza di etichettarlo con un termine che, a ben vedere, si attanaglia perfettamente alla sua filmografia e, in parte, alla sua visione autoriale: quello di "perfetto regista di genere".
Questo perché quasi tutti i migliori esiti del suo cinema (se si escludono tra i migliori, in sostanza, solo tre titoli, ossia "L'Impero del Sole", "Schindler's List" e "Munich") sono tutti rigorosamente film di genere, come il suo folgorante esordio "Duel" (1971), l'imprescindibile "I Predatori dell'Arca Perduta" (1981) e lo sfavillante "Le Avventure di Tin Tin- Il Segreto dell'Unicorno" (2011). Oltre, naturalmente, a "Lo Squalo", il suo primo vero capolavoro.




Reduce dal mezzo flop di "Sugarland Express" (1974), che gli aveva comunque garantito una buona visibilità, nel 1975 l'enfant prodigé di Hollywood decide di portare su schermo il romanzo "Jaws" di Peter Benchley, la cui trama è, nella migliore tradizione della narrativa di genere, striminzita: nella piccola località balneare di Amity, un gigantesco squalo bianco terrorizza i bagnanti; lo sceriffo Brody (Scheider) decide di dargli la caccia, coadiuvato dal giovane "pescecanologo" Hooper (Dreyfuss) e al navigato cacciatore di squali Quint (Shaw).
Questa volta il successo è globale e il nome di Spielberg diviene sinonimo di grande cinema, oltre che di successo commerciale. Utilizzando una strategia allora inedita, la Universal decide di far uscire il film durante la stagione estiva, in modo da permettere allo spettatore di immergersi meglio negli eventi; il risultato fu dirompente: a fronte degli otto milioni di budget, "Lo Squalo" ne incassa complessivamente 260 solo negli Stati Uniti (oltre 470 in tutto il mondo), inaugurando il trend dei blockbuster estivi, anticipando i record di spettatori ed incassi di "Guerre Stellari" (1977) ed infliggendo un primo, duro colpo alla politica degli autori della New Hollywood. Ma a differenza del blockbuster di Lucas, la grandezza del film di Spielberg è innegabile: "Lo Squalo" è innanzitutto un perfetto meccanismo di tensione, un gioiello del thriller classico ibridato con la tradizione del "beast movie", che da qui in poi tornerà ad essere uno dei filoni più frequentati dal cinema di genere.




Rifacendosi ad Hitchcock, Spielberg usa la tecnica del "crescendo" per la costruzione di ogni singola sequenza di tensione. La paura cresce a poco a poco, sottolineata dal celebre score di John Williams, qui usato come strumento di messa in scena, divenendo parte integrante ed essenziale del meccanismo grammaticale. Ad una costruzione certosina si giustappone la velocità del climax, che porta ad esplodere la tensione in attimi brevi, dove la bestia uccide la vittima di turno o, con un'inversione verso l'anticlimax totale, si scopre come la minaccia fosse infondata.
La genialità di Spielberg sta, poi, nel non mostrare l'animale per i primi due atti: l'animatrone utilizzato all'epoca, enorme e difficile da utilizzare in acqua, non permetteva l'uso di inquadrature troppo lunghe; per ovviare a tale inconveniente, l'autore fu costretto a celarlo per la maggior parte della durata; soluzione geniale fu quella di utilizzare il suo punto di vista per gli attacchi, con la macchina da presa che diviene, letteralmente, la visuale dell'assassino, in una ripresa delle lavoro svolto dal grande Michael Powell nel suo capolavoro "Peeping Tom" (1960). Il virtuosismo stilistico diviene così perfetto strumento di tensione, che dona al film un'unicità stilistica incredibile.





Proprio lo squalo torna ad incarnare quella paura atavica, primordiale, che Spielberg già dipingeva con efficacia in "Duel": un mostro ora non più meccanico, prodotto da una natura oscura, i cui meccanismo restano ignoti all'uomo, creatura imprevedibile e inarrestabile, incarnazione di un ignoto ostile, distruttivo, per questo visceralmente inquietante. Natura alla quale si contrappone l'idiozia di un essere umano che invece si è totalmente distaccato dalla sua primordiale necessità, la sopravvivenza, per dedicarsi unicamente alla ricerca del profitto. Conflitto che resta sempre sullo sfondo degli eventi, ma lo stesso avvertibile come tematica.





Ed è nel terzo atto che l'estro di Spielberg tocca il vertice massimo. Da un lato concede spazio ai tre protagonisti, che confrontandosi e confessandosi riescono ad incrementare il coinvolgimento; dall'altro riesce a muovere con efficacia la macchina da presa in pieno oceano, mostrando polso fermo ed incredibili capacità di coordinazione, prova della sua grandezza come regista, che qui giunge ad una prima, perfetta maturazione.

giovedì 24 marzo 2016

Batman v. Superman: Dawn of Justice

di Zack Snyder.

con: Ben Affleck, Henry Cavill, Jesse Eisenberg, Amy Adams, Jeremy Irons, Gal Gadot, Holly Hunter, Laurence Fishburne, Diane Lane, Jeffrey Dean Morgan, Lauren Cohan, Michael Shannon, Jason Momoa, Ezra Miller, Tao Okamoto, Ray Fisher.

Azione/Supereroistico

Usa 2016















Prima ancora che uscisse nelle sale, addirittura prima ancora che venisse a piena esistenza, questo "Batman v. Superman: Dawn of Justice" era stato criticato dalle masse di fanboys urlanti. Troppo azzardata, sulla carta, la scelta di far scontrare subito il Superman de "L'Uomo d'Acciaio" (2013) con una nuova incarnazione del Cavaliere Oscuro; troppo impopolare la scelta di far vestire i panni dell'eroe più amato di tutti i tempi a quel Ben Affleck il quale, non solo non ha mai brillato per carisma o qualità recitative, ma che aveva già rovinato il personaggio di Daredevil con l'omonimo, inguardabile film del 2003; troppo pacchiana, infine, la scelta di far dirigere il tutto ad un regista scarso e fin troppo entusiasta come Zack Snyder, il cui unico lavoro veramente riuscito coincideva proprio con quell'exploit su Superman che tanta perplessità aveva suscitato tra i fan più ortodossi, ancora innamorati della sua versione anni '70. Il progetto, in pratica, cadeva sotto la maledizione che, bisogna ammetterlo, affligge qualsiasi trasposizione di Batman al cinema, a partire dal primo film di Burton sino alla re-immaginazione di Christopher Nolan: il pregiudizio ottuso e talvolta ignorante di chi crede che tra film e fumetto debba esserci una coincidenza totale, a prescindere dalle differenze dei due media; e che, una volta che un adattamento si sia dimostrato come riuscito e fruttuoso, quello successivo debba per forza di cose essere malriuscito, soprattutto se più ambizioso.
Di certo, anche la Warner non ha fatto nulla per rassicurare gli aficionados, rilasciando un trailer tra i più brutti mai concepiti e facendo trapelare il loro nervosismo per l'investimento di circa 400 milioni di dollari riservati al progetto (dei quali però "solo" 250 sono stati investiti nella produzione vera e propria, lasciando il resto al reparto marketing).
Paradosso puro si disvela quando si nota l'accoglienza tutto sommato positiva che il film sta riscuotendo in queste ore tra i fandom, acclamato come uno dei cinecomic più riusciti di sempre. Peccato, però, che come sempre tra la visione dei fans e la qualità effettiva dell'opera vi sia una discrepanza notevole: a conti fatti, "Batman v. Superman: Dawn of Justice" rappresenta un passo indietro rispetto al suo diretto predecessore, che avvicina le produzioni della DC/Warner, solitamente più ambiziose e a loro modo profonde, al film-di-puro-servizio made in Marvel Studios.






Basato in parte sugli ultimi due volumi del mitologico "Il Ritorno del Cavaliere Oscuro" di Farnk Miller, quello di "BvS" è uno scontro di caratteri e di idee prima ancora che fisico, tra due delle incarnazioni meglio riuscite dei supereroi del titolo.
Il Superman di Henry Cavill è, in tutto e per tutto, quello visto ne "L'Uomo d'Acciaio": un dio in terra perso tra i propri sensi di colpa e ora spaventato dalla venerazione che i terrestri dimostrano. Il mondo in cui si muove è tratteggiato in modo credibile e stratificato: l'umanità è esterreffata e spiazzata dalla presenza di una forma di vita in grado di annullarne tutte le convinzioni possibili. Al contempo, serpeggia la paranoia, acuita dalla ripresa intelligente del finale del film precedente, di cosa possa accadere qualora costui decida di volgersi contro: un potere troppo grande, il suo, troppo imprevedibile e pericoloso.
Il Lex Luthor qui descritto (interpretato da un Jesse Eisenberg istrionico, che si rifà in parte alla sua performance in "The Social Network"), prima ancora di essere un genio del male folle, è, più semplicemente, un uomo spaventato da cotanto potere, la cui psiche viene distrutta sia dalla paura, che da un complesso di inferiorità verso una creatura aliena venerata come una divinità. Le sue azione, per quanto spregevoli, sono condivisibili e a marchiarlo come "villain" sono solo la sua follia e la sua mancanza di umanità.






Dall'altra parte della barricata (e della baia di Metropolis) troviamo un Batman disilluso, che da oltre 20 anni è impegnato nella sua crociata contro il crimine; un Batman ruvido, violento, simile a quello de "Il Ritorno del Cavaliere Oscuro", talmente milleriano da rinunciare, purtroppo, alla famosa "no kill rule": un Batman che non si fa scrupoli a uccidere e a marchiare a fuoco i suoi nemici, vicino, oltre alla discussa controparte cartacea, anche all'eroe dark e tormentato del dittico di Tim Burton. E va detto a suo merito che Ben Affleck riesce ad infondere una buona dose di carisma al personaggio, oltre a presentare un fisico perfetto per il ruolo.






Lo scontro tra i tre personaggi è quindi innanzitutto ideale: Batman e Luthor temono il potere di Superman e questi è spaventato dalla condotta violenta del primo e dalla mancanza di discernimento del secondo. Gli eventi che portano alla contrapposizione fisica sono ben orchestrati e permettono allo spettatore di comprendere a dovere la necessità dello stesso.
Malauguratamente, una volta giunti alla fase finale, il film crolla su sé stesso, disvelando la vera intenzione degli autori: creare un semplice trampolino di lancio definitivo per i personaggi del roaster DC.






Benché ben congegnata per 3/4 della sua durata, la storia di fondo lascia freddi; non ci sono emozioni vere, non si trema per il destino dei personaggi, né si gioisce delle loro vittorie; non c'è coinvolgimento emotivo che vada oltre il solo apprezzamento per lo sforzo di dare coerenza e credibilità ai personaggi e al loro universo. E nell'ultimo atto tutto precipita: la storia non ha una conclusione vera e propria, le implicazioni narrative più spettacolari e complesse sono lasciate fuori schermo o isolati in miseri rimandi (la sequenza del sogno di Batman) del tutto incomprensibili a chi non segua da anni i fumetti di casa DC. L'inclusione del personaggio di Wonder Woman si rivela ben presto come stratagemma per introdurre il personaggio al fine di farlo conoscere al pubblico in vista del suo film in solitario; così come i cameo di Flash, Cyborg e Aquaman sono utili unicamente alla loro introduzione, non avendo un peso specifico negli eventi.
Si arriva al finale basiti: tutta la costruzione narrativa è utile solo ad introdurre nuovi film, nulla trova una vera conclusione o una catarsi adeguata; e quel poco di coinvolgimento emotivo viene negato dall'ultimo colpo di coda, quell'ultimissima inquadratura che liquida definitivamente ogni forma di empatia verso gli eventi.
Persino la pura spettacolarità finisce per latitare; se nel precedente film Snyder aveva dimostrato una voglia di stuzzicare lo spettatore con una spettacolarità immensa ma non gratuita, qui si limita ad imbastire una serie di sequenze action prive di originalità, talvolta ricalcate sullo stile di Nolan e del suo mai dimenticato "Il Cavaliere Oscuro" (2008), talaltra affidate unicamente agli effetti in CGI, la cui carica visiva viene frustrata da una fotografia troppo cupa. Persino le musiche di Hans Zimmer e JunkieXL deludono, essendo per la maggior parte anonime e poco ispirate.






Il risultato finale è un film pensato ed eseguito esclusivamente al fine di compiacere i fans. Più simile ai due film dedicati agli Avengers di Kevin Feige e soci, "Batman v.Superman: Dawn of Justice" ha poca sostanza cinematografica e narrativa, differenziandosi dagli esiti peggiori degli exploit della concorrenza solo per la cura riservata nella caratterizzazione dei due protagonisti. Non è poco, dato il panorama desolante del cinecomic odierno, ma di sicuro non rende giustizia a quanto di buon fatto in passato, né a dare allo spettatore più esigente o occasionale uno spettacolo degno di questo nome.

lunedì 21 marzo 2016

Profondo Rosso

 di Dario Argento.

con: David Hemmings, Daria Nicolodi, Gabirele Lavia, Macha Meril, Eros Pagni, Clara Calamai, Giuliana Calandra, Glauco Mauri.

Thriller

Italia 1975
















---CONTIENE SPOILER---


Quando, nel 1975, "Profondo Rosso" invase le sale della Penisola dapprima e quelle del mondo in un secondo momento, facendo, è il caso di dirlo, "stragi" al botteghino, il "thriller all'italiana" o "giallo movies" che dir si voglia, era un filone già fortemente avviato verso una naturale chiusa. Registi come Luigi Cozzi e Sergio Martino, che pure sulla falsariga di Maria Bava avevano contribuito alla sua affermazione, volgevano la loro attenzione verso altri lidi, come il "chaippa e spada" o il polizziottesco; lo stesso Dario Argento sembrava deciso ad abbandonare completamente registro e stile che lo resero famoso con la trilogia faunistica tra il 1970 e il 1971, proprio lui che veniva osannato come vero genio del thriller. E di fatto, l'unico exploit cinematografico che ebbe a seguito del successo di "4 Mosche di Velluto Grigio" fu il terribile "Le Cinque Giornate" (1973), impresentabile rievocazione degli ultimi giorni del Risorgimento in chiave malamente comica, con protagonista un insostenibile Adriano Celentano. Esito così disastroso sia sul piani artistico che economico da costringere il regista romano a tornare sui suoi passi e dedicarsi alla creazione di un nuovo thriller.
"Profondo Rosso" nasce così dall'esigenza di ritrovare il favore di critica e pubblico, ma paradossalmente si afferma come il perfetto capolavoro di Argento: un thriller dove tutte le sue intuizioni precedenti assumono forma matura, in cui il suo stile raggiunge la piena espansione e dove il "genere" thriller si colora ancora più marcatamente di una componente horror viscerale, dalla quale non potrà più fare a meno.






Marcus Daly (David Hemmings) è un musicista di origine inglese stabilitosi in Italia. Dopo una notte passata a provare assieme alla sua band, assiste per casso all'assassinio di Helga Ullmann (Macha Mèril), veggente che, durante una conferenza pubblica, pare avesse notato una presenza diabolica tra la folla. Affiancato dalla frizzante giornalista Gianna (Daria Nicolodi), Marcus decide di investigare sull'accaduto.






La struttura di base imbastita da Dario Argento e Bernardino Zapponi riprende tutti i canoni del "whodunnit" e ricalca, a grandi linee, quella de "L'Uccello dalle Piume Cristallo", sia da un punto di vista strutturale che, in parte, tematico; anche qui protagonista è un artista di origine straniera che assiste ad un omicidio, la cui soluzione giace nel suo inconscio, in qualcosa che ha visto ma che non riesce a razionalizzare; chiave di volta nella sua indagine è nuovamente un disegno naif che raffigura un delitto; alla base di tutto c'è un omicidio compiuto nel passato che torna a perseguitare il killer di turno, che anche qui è una donna affetta demenza; non manca neanche il falso finale, seguito dalla risoluzione vera e propria, più truce e sanguinaria.
Quello che rende "Profondo Rosso" un capolavoro non è dunque l'originalità delle premesse, quanto la perfetta, quasi maniacale esecuzione di tutti gli elementi che lo compongono.





Argento colora il giallo con un'atmosfera onirica; l'indagine di Mark e Gianna ha le cadenze ed è formata da immagini che sembrano uscire da un incubo; le inquadrature si fanno più possenti e plastiche, i personaggi secondari recitano con tempistiche e flemma teatrale, caricando ogni parola ed ogni gesto; sullo sfondo, vive una città buia, spoglia, fatta di enormi piazze vuote e strade desolate. Ogni ambiente è immerso in una luce espressionista, dove non esistono tonalità calde, solo la contrapposizione tra un bianco neutrale e dei neri profondissimi, che tagliano le figure umane in forme geometriche astratte o ne decontesualizzano i corpi in uno spazio negativo, creando una sensazione di inquietitudine perenne.



 



Senso di inquietitudine che trova corpo anche nella scelta, bizzarra ed azzeccatissima, di giustapporre il sangue e la tensione ad un immaginario infantile, fatto di bambole e ninne nanne, per spiazzare totalmente e giocare sulle paure più inconsce dello spettatore, che si ritrova come un bambino ad assistere ad una violenza cieca. Giustapposizione perfettamente integrata nella sequenza della morte del professor Giordani: una stana marionetta meccanica si lancia contro di lui, che per difendersi la spacca in due; lo spavento dovuto all'entrata in scena improvvisa viene acuito dal volto della bambola, una sorta di bambino dal ghigno satanico, erede della maschera di "4 Mosche di Velluto Grigio"; Passato questo primo pericolo, il killer entra in scena scatenando tutta la sua ferocia nell'omicidio più disturbante dell'intera pellicola.






L'umorismo viene ridotto: non ci sono più personaggi sopra le righe (eccettuato il commissario "toscanaccio", che si limita ad apparire in un paio di scene) o sequenze squisitamente comiche; lo humor viene relegato a singole, sparute immagini che spezzano la tensione senza mai azzerarla, come nei "bisticci" tra Mark e Gianna. Ancora meno presente è la componente erotica, che scompare praticamente del tutto per tutta la durata.
L'esecuzione degli omicidi diviene il fulcro portante della tensione, che esplode durante i massacri. Ogni sequenza è costruita in modo diverso, dal climax all'anticlimax più puro, con l'intenzione netta di spiazzare lo spettatore, disorientarlo senza mai dargli la certezza sul quando il killer colpirà, al punto che, ora più che mai, esso diviene una presenza quasi esoterica, che potrebbe celarsi dietro ogni angolo, giusto al di fuori dello spazio dell'inquadratura; e che quando colpisce, lo fa nel modo più brutale immaginabile.






La violenza di "Profondo Rosso" corre su due direttrici essenziali. Da una parte la brutalità grafica, che da ora in poi diverrà componente essenziale nel "giallo movie": i corpi vengono mutilati e distrutti in modo sempre più esagerato e vivido, trasformando la semplice violenza in vero e proprio splatter, che prende la forma dei bei effetti speciali di Carlo Rambaldi,che di lì a poco diverrà il meastro riconosciuto. Il rosso del sangue si fa volutamente vivido al punto di divenire finto, irreale, caricato di una valenza orrorifica dirompente.
Altro elemento essenziale è la creazione di morti sadiche che lo spettatore possa percepire attraverso le immagini: al bando armi da fuoco o trabocchetti vari, a farla da padrone sono ora immagini di accidenti quasi causali che chiunque potrebbe sperimentare, come l'ustionamento da acqua, la mutilazione con coltelli da cucina o, il più sadico tra tutti, le percosse contro gli spigoli, che spaccano gli incisivi di una delle vittime fino a distruggerne le gengive. La violenza diviene così disturbante e la visione diviene, oltre che terrorizzante, anche scomoda, quasi dolorosa.






Lo stile di Argento si fa più solido anche sul piano squisitamente estetico; i suoi movimenti di macchina si fanno fluidi: le soggettive del killer, da qui in poi, faranno scuola e sono usate non solo per creare tensione, ma anche per creare un immersione totale nella sua mente; la magnifica sequenza, tutta giocata sui dettagli, nella quale l'assassino si trucca gli occhi mentre la macchina sorvola sui suoi oggetti personali è la perfetta messa in scena delle forze, opposte, che lo stringono: da un lato i balocchi infantili, dall'altra un immaginario violento e satanico.
La musica diviene definitivamente strumento stilistico essenziale; le splendide note dello score, scritto da Giorgio Gaslini ed eseguite dai Goblin, acuiscono il senso di terrore e straniamento, ammaliano per sonorità e si sposano perfettamente con le superbe immagini.
Lo stile divora il film: mai come ora quello di Argento è un cinema ove l'estetica diviene sostanza senza mai scadere nel goffo o nel tronfio; ogni movimento di macchina, taglio di luce e partitura musicale è messo totalmente al servzio non tanto dell'esile storia, quanto della tensione, che come un perfetto mosaico viene creata dall'insieme di ogni singolo tassello; la potenza dell'effetto è unica: mai c'è stato e mai ci sarà un "giallo" così visceralmente riuscito.








Un tocco di originalità nella storia è poi da apprezzare nella caratterizzazione dei personaggi. Mark è un uomo comune, ma anche una maschio la cui virilità viene depotenziata; non tanto dal confronto con il killer, come avveniva ne "L'Uccello dalle Piume di Cristallo", quanto con la collega di indagini Gianna; è lei l'unico vero esempio di donna emancipata che il cinema italiano tutto abbia mai prodotto: una giornalista integerrima, la cui sensualità viene bandita in favore del carattere vivido, che si afferma smontando, sia nelle parole che nei fatti, la presunta superiorità del suo pertner di indagini.







Stile impeccabile, tensione insostenibile e caratterizzazione dei personaggi riuscita che permettono a "Profondo Rosso" di essere, tutt'oggi, il miglior esito del filone, nonchè tra i picchi della carriera di Argento.
Il successo di pubblico permise al "giallo" di perdurare per un altro decennio, sebbene gli esiti migliori si fossero avuti nel lustro 1970-1975.
Oltre che a sancire la grandezza di quello che, un tempo, era uno degli autori di punta del cinema italiano tutto.

lunedì 14 marzo 2016

Ave, Cesare!

Hail, Caesar!

di Joel e Ethan Coen.

con: Josh Brolin, George Clooney, Scarlett Johansson, Tilda Swinton, Alen Ehrenrheich, Veronica Osorio, Frances McDormand, Channing Tatum, Jonah Hill.

Usa, Inghilterra, Giappone 2016

















C'era una volta la Golden Age degli studios di Hollywood; tra produzioni faraoniche, divi viziati, talento inesistente, teatri di posa ciclopici e una ineliminabile mancanza di sostanza, il cinema americano dei kolossal e dell'intrattenimento puro e semplice era il frutto di un mondo strambo, a volte genuinamente folle. E chi meglio dei fratelli Coen poteva dar vita su schermo in modo appropriato a quel caleidoscopio colorato e marcio, proprio loro che già con "Barton Fink" (1991) avevano inferto un affondo al vetriolo a quel mondo, del quale "Ave, Cesare!" è di fatto una perfetta rievocazione, filtrata attraverso l'occhio grottesco e disincatato del duo, che ne fa a pezzi i miti e ne cannibalizza i resti per mostrarne in modo iperbolico la genuina idiozia.




1951, Eddie Mannix (Josh Brolin) è il direttore di produzione della Capitol Pictures, major impegnata nella produzione del kolossal "Ave, Cesare!". In 27 ore, l'indaffaratissimo dirigente dovrà fronteggiare la scomparsa del divo Baird Whitlock (George Clooney), l'inattesa gravidanza della cafonissima diva DeeAnna Moran (Scarlett Johannsonn), l'insistenza delle sorelle Thacker (Tilda Swinton), reporter scandalistiche in cerca di notizie e i problemi causati da Hobie Doyle (Alen Ehrenrheich), cowboy malamente promosso sul set di una screwball comedy.




Lo sguardo feroce dei Coen è sempre presente, ma qui si fa meno acido, più votato al divertimento. La cattiveria che contraddistingueva capolavori del calibro di "Fargo" (1996) e "A Proposito di Davis" (2013) è sempre presente, ma celata sotto uno strato gioviale, quasi solare. L'intento, qui, è di ridicolizzare il passato e l'istituzione hollywoodiana mediante un registro più leggero, da commedia brillante virata verso il grottesco. I personaggi, così, divengono quasi tutti dei "magnifici cretini", dei pupazzi da deridere, i cui difetti, pure atroci come da tradizione, sono da mettere alla berlina con un sorriso stavolta sguaiato, che non cela alcuna nota dolente. Il mordente non manca, ma si fa ora più calmo, lasciando che siano le azioni dei personaggi a parlare piuttosto che il contesto il cui si muovono.




Personaggi dei quali nessuno, o quasi, si salva, se non quel Mannix che tenta disperatamente di avere una fede in un mondo di plastica. La sua ricerca ossessiva della grazia divina resta inascoltata, persa in un confessionale che diviene rituale quotidiano per aggiustare una bussola mentale prossima alla distruzione, o arenata in cima ad un golgota  scenografico vuoto, verso una catarsi inesistente.
Il resto del cast è invece formato da un gruppo di macchiette, volutamente bidimensionali, costruite sulla falsariga dell'immagine, pubblica e privata, di veri divi e divetti del passato ed ingrandita sino al grottesco, i quali si muovono in un mondo sul cui sfondo si agitano i fantasmi del comunismo e della guerra nucleare, quelle paranoie che di lì a poco invaderanno anche gli schermi.
Baird Whtilock, l'aitante superdivo tonto è un Kirk Douglas che scopre le contraddizioni dello studio system grazie ad uno sgangherato rapimento orchestrato da una versione iperbolica dei "10 di Hollywood", folli comunistoidi totalmente persi nelle loro elucubrazioni socio-economiche senza capo né coda. Hobie Doyle è un Ronald Reagan/John Wayne totalmente incapace di pronunciare parola, un clown semi-ritardato che, nel paradosso puro, finisce per salvare la situazione con una serie di intuizioni talmente geniali da essere totalmente folli. Le sorelle Thacker sono una versione gonfiata di Hedda Hopper e delle sorelle Friedman, fusesi per formare uno squalo affamato di vite umane da distruggere o elevare allo stato divino con ossessiva voracità. Il Burt Gurney di Channing Tatum è un Gene Kelly le cui simpatie sinistrorse sono tramutate in militanza irredenta verso il comunismo. Il regista Lurence Laurentz di Fienness è un Vincent Minnelli in preda ad una crisi di nervi.
Tutti i personaggi si muovono in un mondo fatto di scenografie di cartapesta o di aridi vicoli tra i capannoni: un mondo vuoto.




Ai colori sgargianti e alle musiche allegre dei film nel film, i Coen giustappongono un mondo svuotato di significato, dove nulla ha un peso specifico. Non c'è arte nel cinema, non c'è passione, solo la creazione di un prodotto da dare in pasto al pubblico per "nutrirne i sogni" un tanto al chilo. In tale contesto, Mannix è un operaio non dissimile da quelli difesi dagli sceneggiatori comunisti, l'unico uomo dotato di senno, carisma e spina dorsale in un circo fuori controllo, il cui apporto è necessario per la riuscita. Se la storia dei personaggi secondari è una commedia grottesca tout court, quella di Mannix viene costruita e ritratta come un noir, con un misfatto da sbrogliare in un'atmosfera che si fa cupa, dai colori scuri e inquadrata in immagini forti ed oblique, che Roger Deakins si diverte a ricreare usando luci e palette di quella stessa epoca che i registi deridono.
Nel suo mondo, si diceva, non c'è fede, non c'è un Dio o un'Idea primigenea a reggere il tutto, se non quella che si sforza di rincorrere. Il tema della fede nei "sandaloni" viene messa alla berlina in una delle sequenze più divertenti: la riunione dei ministri che, chiamati a pronunciarsi sul ritratto del Cristo in "Ave, Cesare!" finiscono per disquisire in tutt'altro. Non esiste il sacro nella vita di Mannix e soci, così come quelle storie tratte dai Testi Sacri venivano svuotate di ogni valenza non prettamente spettacolare nelle produzione dell'epoca, come Pasolini lamentava dopo la visione, tutt'oggi insostenibile, de "Il Re dei Re" (1961). Non per nulla, nel finale Whitlock non riesce a completare il suo monologo sulla grandezza della fede, a causa dello smarrimento dovuto al "trattamento" ricevuto da Mannix dopo la sua scoperta di un mondo fatto di idee e valori.
Tanto che questi personaggi fasulli, creati ad hoc dagli studios e venduti tramite gli articoli sui giornalacci, finiscono per divenire un'umanità altra, che riconosce e apprezza solo altri "simulacri", come nella storia d'amore tra Doyle e Carlota Valdez o, ancora più inquietante, tra la Moran e il Jospeh Silverman di Jonah Hill, quella "persona" creata appositamente per pilotare i processi in cui erano invischiati i divi: un essere privo di identità, quindi perfetto attore e partner ideale per una diva la cui immagine di beltà è solo un panno per coprire un'identità di tutt'altra indole. Umanità "altra" che ricorda lo sguardo di un altro grande autore confrontatosi di recente con la decadenza hollywoodiana: il Cronenberg di "Maps to the Stars" (2014).
Unica eccezione, oltre Mannix, è il "divo comunista" Burt Gurney, che nel finale assume un'identità vera e forte di agente sovietico, partendo per il "mondo reale".




Se i personaggi sono vuoti a perdere che sguazzano nella loro idiozia, non meno cattiva è la descrizione dei "prodotti" che quel mondo ha sfornato: il kolossal "Ave, Cesare!" è un "Ben-Hur" vuoto e ridicolo, il musical interpretato da Gurney è un eruzione di sottotesti licenziosi e omoerotici, il western di Doyle è un'accozzaglia di capitomboli e stunt senza continuità, mentre la commedia brillante di Laurenz un perfetto esempio di cinema dei "telefoni bianchi", dai dialoghi talmente snob da essere incomprensibili.





La critica dei Coen si fa così divertente, oltre che, come al solita, ferma e intelligente. "Ave, Cesare!" non è certo annoverabile tra i loro film migliori, mancando di veri colpi di genio oltre quello, irresistibile, della creazione di un'estetica nostalgica per abbellire una critica forte e metodica, ma resta pur sempre un pamphlet divertente e tutto sommato corrosivo.




EXTRA

Diversi i punti in comune, non si sa fino a che punto voluti, tra "Ave, Cesare!" e il capolavoro di Robert Altman "I Protagonisti" (1992). Entrambi sono ritratti al vetriolo di una Hollywood vuota e folle, con protagonista un dirigente invischiato in una storia "hard boiled" portata in scena secondo i crismi del cinema noir classico, la cui figura è ispirata al vero Eddie Mannix, dirigente e "problem solver" della MGM.



E proprio come Altman, anche i Coen infarciscono il film di comparsate illustri, date qui, nel più puro stile cinefilo del duo, da grandi caratteristi del cinema americano: oltre Jonah Hill e Frances McDormand, che compaiono entrambi in un'unica scena pur essendo accreditati sul poster, si possono contare Robert Picardo nei panni del rabbino, Allison Pill in quelli della moglie di Mannix, il premio Oscar Fisher Stevens nei panni del capo degli sceneggiatori comunisti e Wayne Knight come la comparsa che avvelena Whitlock; Clancy Brown e Christophe Lambert, che tornano a recitare nello stesso film anche se non sono mai nella medesima scena, dopo il cult "Highlander- L'Ultimo Immortale" (1986), compaiono rispettivamente nei panni del centurione Gracco e del regista Arne Seslum. Difficilissima da cogliere è infine l'apparizione "fantasma" di Dolph Lundgern, che interpreta la silouette dell'ufficiale sovietico.

lunedì 7 marzo 2016

Il Nostro Natale

'R Xmas

di Abel Ferrara.

con: Drea De Matteo, Ice-T, Lillo Brancato Jr., Victor Argo, Denia Brache, Lisa Valens, Gloria Irizzarry.

Usa, Francia 2001

















Dopo l'uscita di "New Rose Hotel" (1998), sembrava che il cinema di Ferrara fosse finito, chiuso in un cerchio di autoreferenzialità estrema, del tutto incapace di comunicare altro se non la perfetta estetica data dallo stile, sperimentale e al contempo rigoroso, con il quale intesseva le sue immagini ipnotiche e calde. Quando nel 2001, "'R Xmas" uscì nelle poche sale selezionate (tra le quali una in Roma, a ridosso delle feste natalizie), ci si dovette ricredere: il maestro newyorkese aveva ritrovato parte dello smalto perso nel tempo e, sebbene lontano dagli esiti che il suo cinema aveva raggiunto negli anni '90 grazie alla collaborazione con Nicolas St.John, era ancora in grado di regalare opere anticonvenzionali e riuscite.




"'R Xmas" è sotto quasi tutti i punti di vista una favola natalizia, una parabola laica e fredda su di una redenzione insperata. Punto di partenza è lo scandalo che nel 1991 investì New York quando un gruppo di poliziotti corrotti fu scoperto a taglieggiare e spalleggiare la piccola criminalità locale. Su tale base, Ferrara inventa due personaggi semplicemente indicati con i termini di "marito" e "moglie" (gli italoamericani Drea De Matteo e Lillo Brancato Jr., all'epoca entrambi nel cast de "I Soprano" e qui chiamati a vestire i panni di una coppia di spacciatori di origine domenicana), i quali, durante le festività natalizie, vengono perseguitati da un misterioso gangster (Ice-T).
Il Natale, ossia il fulcro di tutte le festività cristiane, fa capolino in modo diretto: le cene con gli amici e parenti, le corse ai regali (la bambola "Party Girl", simbolo non tanto del consumismo festivo, quanto dell'affetto dei genitori verso la figlia), le recite scolastiche, le luci calde, gli interni decorati da alberelli e festoni. Il Natale di Ferrara, qui, è luogo di festa e di gioia, nel quale l'umanità si ritrova per confortarsi. Ma in modo geniale, l'autore sovverte, nel corso dei primi 10 minuti, la figura dei genitori mostrando la loro doppia vita: messa a nanna l'amata figlioletta, i due si allontanano dai quartieri alti per chiudersi in un piccolo appartamento dei quartieri bassi, dove letteralmente cambiano pelle per mostrarsi come i criminali che sono: spacciatori volgari, interessati al denaro e in rotta di collisione con i piccoli pusher di Harlem e del Bronx.



La dicotomia tra valore familiare e disfunzione lavorativa manca: i due protagonisti sono totalmente assorbiti nella loro attività e al contempo fortemente devoti all'istituzione familiare, che come in "Fratelli" (1996) è fulcro inscindibile della loro vita. Il "male" a cui sono devoti non viene percepito come tale: i due non hanno coscienza della loro condizione di anime perse, che anzi riescono a coniugare perfettamente con l'affetto verso la figlia ed il resto della famiglia.
La crisi, di fatto, arriva quando questa istituzione viene minacciata dall'esterno, da quello strano gangster che di punto in bianco distrugge l'equilibrio precario delle loro vite, rapendo il marito, ossia portando via un pezzo di quell'istituzione fondamentale. Crisi che si riverbera sul lavoro, distruggendo, in appena 24 ore, i rapporti tra i personaggi.
Tuttavia, questo elemento di disturbo non esiste per distruggere quello strano e precario equilibrio, quanto per portare quella redenzione mai sfiorata dai due. E di fatto, il gangster altro non è se non un poliziotto, un tutore di quell'ordine che dovrebbe essere alla  base della società, prima fra tutti del nucleo familiare, presentandosi come una minaccia purgata da ogni deriva estrema: non è lui a commettere violenza e non sfiora in alcun modo la moglie, nonostante la sua folgorante bellezza.




La distruzione dell'ordine si fa, di conseguenza, creazione di un nuovo equilibrio, nel quale il rapporto tra i due giovani coniugi viene purgato da quel male sociale che lo aveva caratterizzato. La crisi dovuta alla mancanza del denaro e causata da quel businness tanto redditizio quanto pericoloso, li porta a riconsiderare totalmente la loro vita, ad eliminare da essa quel "male" tanto nocivo eppure tanto necessario. Forse, poichè come recita la didascalia finale, la parola fine non è ancora scritta.
L'assunto di base è quantomai e volutamente paradossale: i due peccatori ritrovano la retta via mediante un male inflitto da un personaggio percepito come malvagio. Il valore naturale delle azioni non viene più distinto in modo manicheo tra "bene" e "male", ma come "azione" e "conseguenza". Gli assoluti, ora, sono inesistenti: non esistono più un bianco ed un nero, solo differenti scale di grigio, come testimonia anche la sequenza della chiesa, dove il "male" ha infiltrato anche la priù sacra delle istituzioni.




Ferrara racconta il tutto con una freddezza quasi glaciale, un distacco emotivo totale che per la prima volta lo allontana del tutto dalla materia trattata. Il suo sguardo è quello di un osservatore incuriosito da un mondo lontano, eppure incredibilmente vicino al suo, sito appena al di là delle proprie abitudini. Le immagini, come al solito splendide, si fanno qui più claustrofobiche, raccordate in un montaggio alternato e serrato che fonde i piani spaziali e rallenta il tempo fino quasi ad annullarlo, per sospendere le azioni e le conseguenze in una linearità asettica. "'R Xmas" diviene così non più semplice racconto morale, quanto una piccola favola metropolitana, lineare e beffarda nel suo assunto di base.

mercoledì 2 marzo 2016

Sugarland Express

The Sugarland Express

di Steven Spielberg.

con: Goldie Hawn, Ben Johnson, William Atherton, Micahel Sacks, Gregory Walcott, Steve Kanaly.

Usa 1974


















Fu davvero immane la portata della New Wave sul cinema americano, un vero e proprio tornado che scardinò clichè, pregiudizi tematici ed estetici per ricreare a nuova forma la tradizione filmica a stelle e strisce. Motivo comune a quasi tutte le pellicole del filone era l'avversione al sistema, la collisione urlata a quel codice di valori tradizionali (la famiglia, il patriottismo, la reverenza verso le istituzioni civili e politiche) che oramai calzavano stretti ad un'America disillusa. Gli effetti distruttivi della guerra in Vietnam, della fin troppo odiata presidenza Nixon, ma anche dell'infrangersi del sogno di "Peace & Love" dei movimenti controculturali svegliò le coscienze dei giovani filmmakers, che ora posavano uno sguardo maturo e privo di compromessi sulla realtà viva e tangibile, che finalmente trovava una rappresentazione viva anche su schermo.
Avversione ai valori che face grande sopratutto la primissima stagione del filone; basti pensare a "Easy Rider" (1969), dove il sogno di libertà veniva castrato dalla grettezza dell'uomo medio. O, ancora prima e ancora meglio, il bellissimo "Nick Mano Fredda" (1967), dove il grande Paul Newman incarnava lo spirito ribelle che si scontra contro un'istituzionalismo cieco ed opprimente, simboleggiato dal sistema carcerario.
Quando Spielberg si affaccia al cinema, dopo il folgorante esordio televisivo di "Duel" (1972), la New Wave era già entrata nella sua fase più matura. Lo sguardo disilluso verso la società andava posandosi, un pò alla volta, verso quelle figure umane lasciate ai margini della società, quegli outsider solitamente snobbati dalla tradizione americana, protagonisti di storie piccole e fortemente umane. I grandi autori dell'epoca davano spazio e corpo a figure pronte a perdere o che avevano già perso tutto in partenza, scandagliandone i caratteri con uno sguardo attento, compassionevole ed empatico talvolta, lucido e distaccata talaltra, per dare vita ad un cinema fatto di persone, più che di personaggi, di emozioni reali anzicchè artefatte mediante il ricorso al canonico registro del melodramma. Storie piccole di gente piccola che spesso non mancava, ancora, di scontrarsi contro quelle convenzioni sociali volte a stritolarle o sottometterle a causa della loro posizione di emarginati.
Tuttavia, Spielberg pare non abbia capito la grandezza di quel cinema o la profondità di sguardo di cui necessita; tanto che il suo secondo lungometraggio, "Sugarland Express" testimonia la sua incapacità di approcciarsi a materie e personaggi credibili in modo efficace, restando tutt'oggi un perfetto esempio della sua visione superficiale.



1969, Texas. I giovani coniugi Lou Jean (Goldie Hawn) e Clovis Poplin (William Atherton), freschi di galera, rapiscono il giovane agente di polizia Maxwell Slide (Michael Sacks) ed intraprendono una disperata corsa verso Sugarland per riprendersi il loro figlioletto, affidato ad altri genitori a causa della loro cattiva condotta. Sulle loro tracce ci sono lo sceriffo Tanner (Ben Johnson) ed un immenso convoglio di auto della polizia.




Sulla carta, la storia dei Poplin, ispirata ad eventi reali ma romanzata per esigenze narrative, farebbe ben pensare ad una perfetta opera di rottura verso le convenzioni sociali, in perfetta continuità con i dettami della New Wave. "Eroi" sono due reietti tout court: giovani ed ex galeotti, ma spinti da un irrefrenabile desiderio amoroso verso il loro pargolo, al punto di scontrarsi contro l'autorità sociale, incarnata dalla polizia, finendo anche in tragedia. Ma Spielberg spunta ogni possibile lettura "ribellistica" caratterizzando in modo poco convincente i due protagonisti e il loro antagonista, lo sceriffo Tanner.
Lou Jean e Clovis non sono due novelli Bonnie e Clyde, non sono dei "ribelli senza causa" come la tradizione americana vorrebbe, né rappresentano la volontà di rivalsa del singolo verso un sistema gretto e ottuso. Sono due semplici "simpatici idioti", due giovani stupidi che cercano di ricostruire quell'habitat familiare tanto caro all'autore e che qui, per la prima volta nella sua filmografia, diviene centro gravitazionale di tutta la narrazione. La loro ribellione è quasi causale e non arriva mai a colorarsi di vera rabbia o forza distruttiva, persa com'è negli sguardi vacui e nei caratteri modesti di due personaggi mai veramente profondi o sfaccettati.




Dall'altra parte c'è Tanner, lo sceriffo, ossia l'autorità che cerca di porre un freno al manicomio ambulante che i due ragazzi sgunizagliano sulle highways del sud. Ma la sua figura non è quella di un ottuso o di un autoritario, bensì un vecchio padre che guarda ai guai dei figli putativi con condiscendenza, quasi simpatia, al quale il grande Ben Johnson infonde il giusto carisma; caratterizzazione di per sé stessa non sbagliata, né detestabile, ma che nel contesto del film appare blanda. Tanner non è cattivo e non è mai in vero conflitto con i Poplin, questo il grandissimo limite della visione di Spielberg: non c'è empatia con le vittime o vero biasimo verso l'autorità, non c'è vera violenza nella sua visione sociale, né il coraggio di dare vera voce ai disagiati, agli outsider che pone in primo piano. Il suo sguardo è come quello di un bambino incuriosito da una vicenda stramba, ai limiti del caricaturale, che non si prende mai la briga di razionalizzare, né di analizzare con serietà o passione, ma anzi con un distacco ludico, giocando così a fare il ribelle giusto per inserirsi nel solco tracciato dai suoi più illustri colleghi della Nuova Hollywood. L'unico momento in cui decide di aprire un vero conflitto verso quell'America dei padri, ottusa ed insensibile, è quando arrivano in scena i finti riservisti, galvanizzati dalla violenza, ma non ci vuole poi tanto coraggio a prendersela con zotici fascistoidi. Persino lo scalpore che la vicenda dei Poplin accende nella comunità viene lasciato sullo sfondo e portato in primo piano solo per fare un pò di sterile sensazionalismo.




Tanto che alla fine, la visione del film viene salvata solo da mestiere del regista, che inventa letteralemente la panoramica attorno ad un auto in movimento per riprendere i dialoghi; e naturalmente di Vilmos Zsigmond, che crea immagini forti e a tratti poetiche. Il che è quasi degradante se si tiene conto di come, all'epoca della sua uscita, "Sugarland Express" venne addirittura premiato a Cannes per la migliore sceneggiatura.

martedì 1 marzo 2016

Lo Chiamavano Jeeg Robot

di Gabriele Mainetti.

con: Claudio Santamaria, Luca Marinelli, Ilenia Pastorelli, Stefano Ambrogi, Maurizio Tesei, Francesco Formichetti, Antonia Truppo.

Italia 2015



















Il "cinema" italiano contemporaneo è davvero una strana bestia, totalmente arroccato in un'ignoranza spocchiosa di tutto e di tutti, dimentico delle sue origini e schizzinoso verso forme di contaminazione esterne di ogni sorta. Un cinema, in sostanza, fatto da beceri e pensato per idioti in grado di esaltarsi solo di fronte all'ennesimo comico televisivo con la faccia d'asino che raglia battutacce da quarta elementare.
In tutto questo, è davvero squallido notare come di tutta la gloriosa tradizione filmica nostrana, non sia sopravvissuto nulla; ancora più deprimente è il realizzare come tutta la cultura italiana, sia essa letteraria, pittorica o musicale, compaia solo sporadicamente nelle produzioni tricolori, per di più in modo timido e scolastico, come nell'impresentabile "Il Giovane Favoloso" (2014); definitivamente scandalosa è l'assenza di quella cultura popolare, fatta di musica leggera e nostalgie televisive, che tanto avrebbe da offrire ad una filmografia magra e priva di ispirazione.
Cultura popolare che si affaccia solo di rado nelle "grosse" produzioni targate Medusa o RAI e che quando lo fa è ovviamente filtrata mediante l'omaggio cialtronesco al cinema di Quentin Tarantino, per la mancanza di coraggio e di stile dei filmakers che, giovani o presunti tali, decidono di guardare al glorioso passato pop della nazione. Quel passato fatto dalle scazzottate di Bud Spencer e Terence Hill, delle hit di cantanti del calibro di Patty Pravo e Loredana Bertè e della glorificazione dell'Anime, di quell'universo colorato e ameno fatto di robottoni, eroi invincibili ed avversari demoniaci che invece sembra più presente nello scarno circuito del cinema indipendente, l'unico dove, una tantum, qualche giovane cineasta ha il coraggio di dare forma compiuta e a suo modo originale al pop. Non per nulla, l'unico titolo in grado di imporsi all'attenzione dei moviegorers, sotto questo punto di vista, è stato quel misconosciuto (in Italia) e poco apprezzato "Adam Chaplin" (2011), opera prima dei fratelli De Santi, girata con pochi mezzi e molta passione, che univa l'omaggio all'horror splatter degli anni '80 al mito di "Hokuto no Ken".
Proprio per questo vedere nelle sale un film come "Lo Chiamavano Jeeg Robot" è spiazzante: una pellicola girata con un buon budget, un cast di attori di primo piano e distribuita su suolo nazionale che non prende la cultura popolare come semplice vezzo estetico per imbastire una storia seria o pretenziosa, ma che affonda totalmente nel genere più puro, senza disdegnarlo, con l'intento di dare nuova forma alle influenze senza rifarsi in modo diretto al registro di qualche altro filmmaker (nonostante qualche derivatività) ed anzi cercando di coniarne uno nuovo.
Non per nulla, Gabriele Mainetti fa parte di quella generazione di giovani adulti cresciuti tra gli anni '80 e '90 a pane e Go Nagai, pasta e poliziotteschi e che, per questo, può dire davvero di amare il pop italiano, al punto di farne il punto di riferimento di tutta la sua carriera; la quale, dopo i corti "Basette", omaggio al "Lupin III" di Monkey Punch e "Tiger Boy", che invece si rifà a "Tiger Mask", arriva finalmente al lungometraggio con il più pop dei robottoni nagaiani, quel "Jeeg Robot d'Acciaio" che non aveva la violenza di "Mazinga", né il tono cupo del "Mobile Suit Gundam" di Tomino e che per questo ben si adattava al processo di ri-strutturazione. Ed il risultato è un film imperfetto, ma magnificamente riuscito.


A colpire è innanzitutto il contesto nel quale le vicende dello strampalato eroe si svolgono: una Tor Bella Monaca ultraviolenta, infestata da rapinatori incalliti e volitivi che sembra uscita da un episodio di "Romanzo Criminale"; la violenza fa sovente capolino in scena ed è urlata, grafica e talvolta rivoltante, proprio come nel poliziottesco d'annata.
La stessa definizione dei caratteri dell'eroe e del villain si poggia su due figure che il dramma criminale non disdegna. Enzo "Jeeg" Ceccotti (Santamaria) è un'anima persa, un misantropo rapinatore di quart'ordine che usa i poteri solo per poter sopravvivere. Non un "cattivo", ma un semplice disperato, solo e lontano da tutto e da tutti, la cui sociopatia affonda le radici nel dramma della perdita; Fabio "Zingaro" Cannizzaro (Marinelli) è un figlio di quell'Italia post-berlusconiana che ha eroso ogni forma di dignità: un criminaletto de borgata innamorato della propria immagine e alla ricerca del "colpo del secolo" per allontanarsi dalla periferia. Ognuno dei due è caratterizzato con dei tic che ne definisco la personalità in modo certosino: l'eroe mangia solo yogurt e divora DVD porno, il villain è ossessionato dalla ripresa video (omaggio troppo tirato al Joker di Heath Ledger) e si diverte a cantare un repertorio di musica leggera anni '70. E già queste "piccole accortezze" garantirebbero a "Lo Chiamavano Jeeg Robot" di svettare su qualsiasi altro presunto film di genere che si sia visto negli ultimi 20 anni.




Tolta di mezzo l'ovvia trama (sociopatico scopre la purezza del Bene mediante il sacrificio di una persona amata), comunque condotta a dovere e senza sbavature, a stupire è la vitalità del tocco di Mainetti: effetti speciali e sequenze d'azione, pur non facendo gridare al miracolo, sono usati e condotte in maniera efficacissima, senza mai scadere nella caricatura. Il tono serioso, pur inframezzato da segmenti umoristici, non scade mai nel ridicolo involontario. Sono almeno due le sequenze che gli permettono di entrare di forza nell'immaginario collettivo: lo scontro finale durante il derby Roma-Lazio e il massacro a tempo di musica del clan dei Camorristi. E la direzione degli attori è semplicemente strepitosa: Claudio Santamaria dimostra una versatilità inedita per un attore italiano, in una performance laconica che cela tutta l'immensa gamma delle emozioni del personaggio, mentre Marinelli, con il suo folle "Joker de'noartri", buca lo schermo con il suo sguardo assatanato, perfetto erede di quello del miglior George Eastman.




E a discapito del debito di ispirazione troppo marcato verso Ledger, l'intento di ricreare il pop su schermo si realizza in pieno: il poliziottesco fa da base, il film supereroistico da scheletro e gli anime da colore, fondendosi in un corpo nuovo, simile ai modelli, eppure dotato di una sua autonomia. In questo, "Lo Chiamavano Jeeg Robot" si dimostra intimamente "tarantiniano": non vuole omaggiare Tarantino, ma il lavoro di Mainetti è simile a quello del regista americano, fatto di rielaborazione di modelli dati; la differenza sostanziale sta nel fatto che Mainetti non cita, ma omaggia, riuscendosi a discostare definitivamente da ogni ispirazione.




Laddove inciampa è nella scelta di un ritmo talvolta troppo rilassato, inutilmente lento, e nella scelta di una colonna sonora originale scarna, che purtroppo priva alcune scene del dovuto mordente. Difetti tutto sommato non mortali.