mercoledì 2 marzo 2016

Sugarland Express

The Sugarland Express

di Steven Spielberg.

con: Goldie Hawn, Ben Johnson, William Atherton, Micahel Sacks, Gregory Walcott, Steve Kanaly.

Usa 1974


















Fu davvero immane la portata della New Wave sul cinema americano, un vero e proprio tornado che scardinò clichè, pregiudizi tematici ed estetici per ricreare a nuova forma la tradizione filmica a stelle e strisce. Motivo comune a quasi tutte le pellicole del filone era l'avversione al sistema, la collisione urlata a quel codice di valori tradizionali (la famiglia, il patriottismo, la reverenza verso le istituzioni civili e politiche) che oramai calzavano stretti ad un'America disillusa. Gli effetti distruttivi della guerra in Vietnam, della fin troppo odiata presidenza Nixon, ma anche dell'infrangersi del sogno di "Peace & Love" dei movimenti controculturali svegliò le coscienze dei giovani filmmakers, che ora posavano uno sguardo maturo e privo di compromessi sulla realtà viva e tangibile, che finalmente trovava una rappresentazione viva anche su schermo.
Avversione ai valori che face grande sopratutto la primissima stagione del filone; basti pensare a "Easy Rider" (1969), dove il sogno di libertà veniva castrato dalla grettezza dell'uomo medio. O, ancora prima e ancora meglio, il bellissimo "Nick Mano Fredda" (1967), dove il grande Paul Newman incarnava lo spirito ribelle che si scontra contro un'istituzionalismo cieco ed opprimente, simboleggiato dal sistema carcerario.
Quando Spielberg si affaccia al cinema, dopo il folgorante esordio televisivo di "Duel" (1972), la New Wave era già entrata nella sua fase più matura. Lo sguardo disilluso verso la società andava posandosi, un pò alla volta, verso quelle figure umane lasciate ai margini della società, quegli outsider solitamente snobbati dalla tradizione americana, protagonisti di storie piccole e fortemente umane. I grandi autori dell'epoca davano spazio e corpo a figure pronte a perdere o che avevano già perso tutto in partenza, scandagliandone i caratteri con uno sguardo attento, compassionevole ed empatico talvolta, lucido e distaccata talaltra, per dare vita ad un cinema fatto di persone, più che di personaggi, di emozioni reali anzicchè artefatte mediante il ricorso al canonico registro del melodramma. Storie piccole di gente piccola che spesso non mancava, ancora, di scontrarsi contro quelle convenzioni sociali volte a stritolarle o sottometterle a causa della loro posizione di emarginati.
Tuttavia, Spielberg pare non abbia capito la grandezza di quel cinema o la profondità di sguardo di cui necessita; tanto che il suo secondo lungometraggio, "Sugarland Express" testimonia la sua incapacità di approcciarsi a materie e personaggi credibili in modo efficace, restando tutt'oggi un perfetto esempio della sua visione superficiale.



1969, Texas. I giovani coniugi Lou Jean (Goldie Hawn) e Clovis Poplin (William Atherton), freschi di galera, rapiscono il giovane agente di polizia Maxwell Slide (Michael Sacks) ed intraprendono una disperata corsa verso Sugarland per riprendersi il loro figlioletto, affidato ad altri genitori a causa della loro cattiva condotta. Sulle loro tracce ci sono lo sceriffo Tanner (Ben Johnson) ed un immenso convoglio di auto della polizia.




Sulla carta, la storia dei Poplin, ispirata ad eventi reali ma romanzata per esigenze narrative, farebbe ben pensare ad una perfetta opera di rottura verso le convenzioni sociali, in perfetta continuità con i dettami della New Wave. "Eroi" sono due reietti tout court: giovani ed ex galeotti, ma spinti da un irrefrenabile desiderio amoroso verso il loro pargolo, al punto di scontrarsi contro l'autorità sociale, incarnata dalla polizia, finendo anche in tragedia. Ma Spielberg spunta ogni possibile lettura "ribellistica" caratterizzando in modo poco convincente i due protagonisti e il loro antagonista, lo sceriffo Tanner.
Lou Jean e Clovis non sono due novelli Bonnie e Clyde, non sono dei "ribelli senza causa" come la tradizione americana vorrebbe, né rappresentano la volontà di rivalsa del singolo verso un sistema gretto e ottuso. Sono due semplici "simpatici idioti", due giovani stupidi che cercano di ricostruire quell'habitat familiare tanto caro all'autore e che qui, per la prima volta nella sua filmografia, diviene centro gravitazionale di tutta la narrazione. La loro ribellione è quasi causale e non arriva mai a colorarsi di vera rabbia o forza distruttiva, persa com'è negli sguardi vacui e nei caratteri modesti di due personaggi mai veramente profondi o sfaccettati.




Dall'altra parte c'è Tanner, lo sceriffo, ossia l'autorità che cerca di porre un freno al manicomio ambulante che i due ragazzi sgunizagliano sulle highways del sud. Ma la sua figura non è quella di un ottuso o di un autoritario, bensì un vecchio padre che guarda ai guai dei figli putativi con condiscendenza, quasi simpatia, al quale il grande Ben Johnson infonde il giusto carisma; caratterizzazione di per sé stessa non sbagliata, né detestabile, ma che nel contesto del film appare blanda. Tanner non è cattivo e non è mai in vero conflitto con i Poplin, questo il grandissimo limite della visione di Spielberg: non c'è empatia con le vittime o vero biasimo verso l'autorità, non c'è vera violenza nella sua visione sociale, né il coraggio di dare vera voce ai disagiati, agli outsider che pone in primo piano. Il suo sguardo è come quello di un bambino incuriosito da una vicenda stramba, ai limiti del caricaturale, che non si prende mai la briga di razionalizzare, né di analizzare con serietà o passione, ma anzi con un distacco ludico, giocando così a fare il ribelle giusto per inserirsi nel solco tracciato dai suoi più illustri colleghi della Nuova Hollywood. L'unico momento in cui decide di aprire un vero conflitto verso quell'America dei padri, ottusa ed insensibile, è quando arrivano in scena i finti riservisti, galvanizzati dalla violenza, ma non ci vuole poi tanto coraggio a prendersela con zotici fascistoidi. Persino lo scalpore che la vicenda dei Poplin accende nella comunità viene lasciato sullo sfondo e portato in primo piano solo per fare un pò di sterile sensazionalismo.




Tanto che alla fine, la visione del film viene salvata solo da mestiere del regista, che inventa letteralemente la panoramica attorno ad un auto in movimento per riprendere i dialoghi; e naturalmente di Vilmos Zsigmond, che crea immagini forti e a tratti poetiche. Il che è quasi degradante se si tiene conto di come, all'epoca della sua uscita, "Sugarland Express" venne addirittura premiato a Cannes per la migliore sceneggiatura.

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