giovedì 28 luglio 2016

Ghostbusters

di Paul Feig.

con: Kristen Wiig, Melissa McCarthy, Kate McKinnon, Leslie Jones, Chris Hemsworth, Neil Casey, Charles Dance, Andy Garcia, Ed Begley Jr, Matt Walsh, Michael Kenneth Williams.

Commedia/Fantastico

Usa 2016
















Rivendere marchi al pubblico, creare franchise con ogni singola idea spremendola sino all'osso, vendere merchandise inutile che diviene il vero motivo di esistere di una pellicola.
Hollywood è sempre stata una fabbrica che crea oggetti da dare in pasto al pubblico, ma negli ultimi dieci anni il trend di trasformare ogni singolo film in un brand commerciale ha oltrepassato la soglia del ridicolo sino a raggiungere lo squallore più puro.
Saghe mediocri quali quelle di "Harry Potter", "Twilight" o "Hunger Games" hanno fomentato l'idea malsana di creare infiniti capitoli su basi letterarie esigue (semplicemente oltraggiosa la trovata di scindere in due film l'ultimo capitolo di ognuna di esse per estorcere più denaro ai fan, quando è palese l'insussistenza quantitativa del contenuto), mentre il successo dei supereroi dei Marvel Studios ha coniato la moda dei marchi associati con gli studios. E questo remake del classico e supercult "Ghostbusters" (1984) altro non è se non il figlio bastardo di queste orripilanti tendenze; come sempre in casi simili, la storia produttiva alla base è talmente incredibile, complessa e a tratti oscena da essere infinite volte più interessante del prodotto finito.




Ogni major ha un proprio franchise da portare avanti, se non più d'uno. La Disney possiede, tra gli altri, il catalogo della Lucasfilm, con "Star Wars" in prima fila; la Marvel di Feige ha i suoi infiniti supereroi; la Warner ha il roaster della Dc, della Vertigo e la saga letteraria di Harry Potter; la Lionsgate acquisisce ossessivamente i diritti di sfruttamento di ogni singolo romanzo young adult in cerca dell'ennesimo colpaccio; la Paramount ha "Star Trek"; la Universal propina e ri-propina remake e reboot dei suoi classici horror; la Fox è ormai lanciatissima nell'adattare le serie mutanti della Casa delle Idee.
La Sony, d'altro canto, può vantare un record poco invidiabile: l'aver fatto deragliare non una, ma ben due saghe cinematografiche sull'Uomo Ragno. In particolare, l'ingerenza produttiva in "The Amazing Spider-Man 2" (2014) ha condotto non solo alla creazione di un film mediocre, ma anche al peggior esito ai box-office di sempre per il personaggio. La produttrice in capo, Amy Pascal, all'epoca dovette quindi arrovellarsi il cervello su come sfruttare al meglio le licenze che già possedeva per creare una serie, potenzialmente infinita, di film di successo.




Produttrice ambiziosa, ma di scarsissima duttilità, la Pascal accarezzava da anni un sogno personale un pò infantile ma in fondo interessante: creare una serie di film con al centro un gruppo di supereroine, tutte donne, tutte forti ed emancipate. La scelta sul cast di personaggi cadde inizialmente sulle protagoniste del "ragno-verso", in particolare sulla Spder-Gwen che, approdata da pochissimo sulle pagine dei fumetti di Spider-Man, riscosse un successo immediato. Ma il pessimo lavoro da lei svolto dietro le quinte all'ultimo exploit del personaggio portò il sogno a sfumare; così come sfumarono tutte le possibili prosecuzioni della saga principale: niente più spin-off sui Sinistri Sei, film in solitaria su Venom o terzo capitolo con protagonista Andrew Garfield; la sua folle ingerenza, che ha portato a far scrivere il film al duo di imbecilli Orci & Kurtzman e ad infestare il tutto con inutili rimandi e easter-egg, non ha pagato.
Serviva qualcosa di diverso, qualcosa che il pubblico non vedeva da anni, ma al quale fosse già affezionato. Un simbolo del passato che potesse nuovamente portare la gente a spendere soldi per il cinema e sopratutto per i prodotti. E la scelta cadde sugli Acchiappafantasmi del trio Aykroyd-Ramis-Reitman.
Peccato che questi tre fossero già alle prese con la pre-produzione del terzo capitolo delle avventure dei quattro scienziati pasticcioni. Da almeno 20 anni.




Era il 1989 quando "Ghostbusters II" arrivava nelle sale. Un sequel mediocre, ma tutt'altro che disprezzabile: una copia carbone poco ispirata del primo film, con uno script a tratti palesemente rozzo, sopratutto nei dialoghi, ma che riusciva lo stesso ad intrattenere e divertire. L'esito scontentò non solo i fan del film originale o dell'allora ruggente cartone animato, ma anche gli attori coinvolti. Primo fra tutti Bill Murray, che non celerà mai il suo fastidio nell'aver preso parte ad un film dove gli effetti visivi contavano più del resto. Ma quell'esperienza deleteria servì molto ai suoi autori.
Chiamati a bordo del progetto, Aykroyd, Ramis e Reitman non avevano nessuna idea in merito ad un possibile sequel di quel film che, fino ad allora, era stato la commedia più vista di sempre. La brutta esperienza, tuttavia, fu coronata dall'ottima accoglienza al botteghino (restò in cima alle classifiche per tutta la prima settimana, dopo la quale fu surclassato unicamente da quel tifone che fu il "Batman" di Burton, riuscendo comunque ad incassare oltre 300 milioni in tutto il mondo a fronte di un budget di poco inferiore ai 40) e da una tiepida accoglienza critica. L'interesse per i personaggi resisteva ed il trio decise di dedicare loro una terza avventura, questa volta più ambiziosa e complessa.




Lo script del terzo film, intitolato dapprima "Ghostbusters in Hell" e poi "Ghostbusters III: Hellbent" era pronto già nei primi anni '90 e vedeva gli Acchiappafantasmi nuovamente alle prese con una minaccia extradimensionale: un portale aperto da uno scienziato che conduce nientemeno che all'inferno, dove si ritrovano ben presto intrappolati. Idea originale, che però restò sepolta per oltre 15 anni: troppo ambiziosa, da un lato, per gli effetti speciali dell'epoca, troppo rischioso, d'altro, investire in un brand che oramai il pubblico generalista cominciava ad ignorare. L'inferno divenne quindi quel "development hell" nel quale i migliori progetti hollywoodiani si perdono talvolta per sempre.
Finchè nel 2009, ossia 20 anni dopo l'uscita nelle sale dell'ultimo film, sugli scaffali dei negozi non arrivò un nuovo prodotto con il famoso logo del fantasmone bianco: un videogame prodotto dalla Atari, ambientato subito dopo gli eventi del secondo film e che riuniva per l'occasione l'intero cast originale del film, compreso il solitamente riluttante Bill Murray, che si dirà divertito dall'esperienza.




L'accoglienza positiva riservata al gioco riportò i riflettori sul progetto "Ghostbusters 3". I tre autori tornarono a collaborare e con l'aiuto di un team di sceneggiatori capitanato da Gene Stupnitsky aggiornarono il vecchio script. Lasciata inalterata la minaccia e il villain, vengono introdotti due elementi del tutto freschi ed originali: l'aggiunta al cast di una donna, che nelle intenzioni di Harold Ramis avrebbe dovuto essere "bella e divertente" e, sopratutto, un nuovo team di acchiappafantasmi più giovani, che si sarebbero affiancati al gruppo storico, tra i quali figurava anche Oscar, l'infante in pericolo di "Ghostbusters II" ora cresciuto. Unico problema: Murray continuava a rifiutare la collaborazione, pur avendo dato precedente disponibilità, affermando di non voler prendere parte come protagonista ad un film disimpegnato, procrastinando ulteriormente l'inizio della produzione.




Ma con la sceneggiatura praticamente pronta, Reitman cominciò il casting principale: contattò Seth Rogen e Ben Stiller per i "cadetti" e persino Sacha Baron Cohen per il ruolo del cattivo di turno. La Sony arrivò persino a pubblicizzare il progetto nei panel commerciali del 2010 e 2011, prova di come la produzione vera e propria fosse imminente. Ma Murray a parte, i tre autori dovettero far fronte ad un altro problema: l'ostracismo della stessa Pascal, che voleva dare priorità ai film sull'Arrampicamuri Scarlatto e al suo personale progetto di supereroi in gonnella. "Ghostbusters III: Hellbent" tornò in quel girone dove era stato sepolto e vi rimase sino al 2014, quando l'improvvisa morte di Harold Ramis mise la parola fine al progetto.




Senza uno dei suoi autori, "Ghostbusters: Hellbent" venne accantonato e la Sony, che non vi aveva mai davvero creduto, si dedicò anima e corpo alla prosecuzione del franchise di Spider-Man.
Due eventi imprevisti sconvolsero nuovamente i piani: il leak di informazioni ad opera degli hacker nordcoreani portò alla luce lo scontento degli impiegati in merito alla poco lungimirante politica produttiva degli executives e scoperchiò le deboli politiche della Pascal e soci. Mentre il mezzo flop di "The Amazing Spider-Man 2", con conseguente rinegoziazione degli accordi di sfruttamento con la Marvel, portò la major alla ricerca di un nuovo franchise. Il colpo di genio della Pascal spiazzò tutti: produrre un nuovo film sui Ghostbusters, ma che non fosse un sequel, bensì un remake, con un cast totalmente al femminile e senza coinvolgere nessuno degli autori originali. Trovata disprezzabile per più motivi.




L'originario film del 1984 non è una pellicola che si presta ad essere clonata con facilità. L'equilibrio, pressocchè perfetto, tra commedia e horror è tutto merito dei due sceneggiatori e del regista, oltre che di un cast affiatato, che si è formato sul palco dei Saturday Night Live affinando l'alchimia comune. Murray, Aykroyd e Ramis si integravano perfettamente sulla scena perchè già colleghi da anni, la sceneggiatura amena degli ultimi due funziona grazie al tono visionario del primo e al sapiente uso del registro comico attuato dal secondo, mentre la genialità di Reitman sta nel portare tutto in scena come se fosse un film fantastico piuttosto che una commedia. Il regista, formatosi nel decennio precedente come produttore per David Cronenberg, sa usare il registro horror e adopera uno stile secco nei passaggi più seri per poi affidarsi totalmente al cast in quelli più leggeri. La fusione dei due registri riesce sopratutto perché il film non scade mai in una bieca parodia del genere e, quando decide di parodiare, lo fa in modo sottile, con un umorismo fine, mai sopra le righe o, peggio, volgare.
In sostanza, la formula alla base della riuscita del film dipende totalmente dai nomi coinvolti. Estromettere totalmente gli autori originali non aveva senso.
L'idea di usare un team al femminile era invece, sulla carta, una trovata interessante, sopratutto se si tiene conto di come fosse già in parte presente nei piani originali di Ramis. E l'aver affidato la regia a Paul Feig, ancora, sembrava la scelta giusta: un autore famoso per le sue commedie al femminile, che sopratutto con "Bridemaids" (2011) aveva saputo creare una commedia divertente e politicamente scorretta, dirigendo un cast perfetto. Ancora più azzeccata era l'idea di portare a bordo Kristen Wiig, Melissa McCarthy e Kate McKinnon, semplicemente le tre migliori attrici comiche che Hollywood ha a disposizione. Tutto questo sempre e solo sulla carta.
Perchè alla luce dei fatti, questo remake, reboot o come lo si voglia chiamare viene disintegrato dal confronto, impietoso, con l'originale e persino con i lavori precedenti di Feig, pur non essendo il disastro inguardabile che in molti temevano sarebbe stato.




"Ghostbusters" non è un prodotto che aggiorna temi e alchimia dell'originale alla nuova sensibilità del XXI secolo, nel bene e nel male, come faceva il riuscito remake di un'altro classico degli anni '80, il RoboCop di José Padillha. Feig non sa gestire il registro horror, quindi costruisce quasi tutta la pellicola come una semplice commedia. Le uniche volte in cui tenta la carta della tensione lo fa senza rischiare nulla, giusto con un jump-scare nella sequenza del primo incontro tra le ghostbusters e lo spettro nella casa-museo o affidandosi totalmente agli effetti speciali, come in quella, più riuscita del manichino. Manca la tensione, ma anche l'atmosfera cupa che spesso faceva capolino nell'originale, così come un immaginario orrorifico vero e proprio. Gli spettri di questo reboot non fanno paura, ma non hanno neanche quel fascino grottesco che ammantava gli originali. L'uso ridicolo della CGI per ogni singolo effetto speciale fa somigliare il tutto ad un cartone animato e la palette di colori accesa funziona solo con la fotografia in camera, mentre appiccicata addosso alle apparizioni le fa somigliare a quelle dei film di "Scooby-Doo".





L'umorismo di Feig non ha nulla a che vedere con il sarcasmo divertito dell'originale, ma anche con la cattiveria dei suoi stessi film precedenti. La maggior parte delle gag sembrano uscire da un parodia piuttosto che da una farsa, tanto sono distaccate dal contesto ed votate all'assurdità gratuita. Molte battute cadono a vuoto o, peggio, sono dilatate e ripetute sino allo sfinimento. Come le gag sulla stupidità di Kevin (Chris Hemsworth), che vengono sputate in faccia allo spettatore ad ogni occasione; e, paradossalmente, alcune di queste sono tra le migliori del film. Ma a difesa del lavoro svolto dall'autore, bisogna ammettere che, quanto meno, anche le battute peggiori non lasciano addosso quel senso di imbarazzo proprio dei peggiori exploit comici americani odierni.




I punti più deboli sono, malauguratamente, la storia ed i personaggi. La prima è, essenzialmente, una flebile rilettura di quella del primo film, purgata dai risvolti più estremi e con un villain a dir poco idiota: un nerd che decide di scatenare l'apocalisse perché alienato e bistrattato.
I personaggi, d'altro canto, sono stereotipati o copie carbone di altri già visti. I più riusciti sono quelli della Wiig e della McCarthy, ma la sensazione di deja-vù è davvero forte; di fatto, Erin altro non è che il medesimo personaggio che la Wiig ha interpretato infinite volte su schermo, compreso  in "Bridesmaid": una donna matura incapace di raggiungere il successo nella vita, un pò goffa ed impedita, che trova conforto nelle sue amiche. La Abby della McCarthy è invece una semplice versione in gonnella del Ray Stanz di Dan Aykroyd, ma senza i lampi di genio del suo interprete originale. Più imbarazzanti le caratterizzazioni dei personaggi della McKinnon e della Jones. Holtzmann è, in sostanza, una parodia del Doc Brown della serie di "Ritorno al Futuro" con qualche accenno sparuto dello Spengler di Harold Ramis, che la McKinnon si diverte a caricare sin oltre i limiti del parodico e che, nell'economia del film, serve sopratutto ad includere un personaggio sottilmente (ma neanche più di tanto) omosessuale. Mentre la Patty Tolan della Jones è semplicemente lo stereotipo del donnone nero elevato all'ennesima potenza, né più, né meno, al punto che persino chi criticava la blanda inclusione del personaggio di Zeddmore nei vecchi film qui non potrà che gridare allo scandalo.




Vien da ridere se si pensa che queste quattro figurine dovrebbero essere donne forti ed indipendenti. E di fatto, per salvarsi, da questo punto di vista Feig decide di giocarsela facile e sporca, immergendole in un mondo dove ogni singola figura maschile è un perfetto idiota. Tralasciando il personaggio di Kevin, talmente tonto da poter essere definito ritardato, o il rettore di ferro interpretato da Charles Dance, che licenzia Erin solo perché aveva scritto un libro sul paranormale in gioventù, a stupire maggiormente sono i personaggi del sindaco e del villain. Il primo è un idiota impedito, che non capisce nulla di ciò che avviene e lascia il ruolo di guastafeste alla sua segretaria, che essendo donna è invece dotata di raziocinio. Mentre il cattivo di turno, già di per sé scemo, viene contrapposto alle protagoniste anche su di un piano umano: laddove loro quattro fanno dell'amicizia una forza, lui è un alienato irrecuperabile e per questo destinato alla sconfitta, che viene schernito in lungo e in largo per tutto il film solo a causa del suo aspetto goffo e poco attraente. Totalmente opposto è invece l'atteggiamento verso il fustacchione di Hemsworth, del quale Erin si innamora perdutamente nonostante la sua palese demenza; comportamento che porta alla mente quello di un uomo alle prese con una donna bella ma scema, ribaltamento del famoso luogo comune che riporta alla mente, in modo invero blando, la comicità tipica di Feig, ma che su schermo risulta talmente fuori luogo che si finisce per domandarsi se l'autore abbia mai davvero conosciuto una donna in carne ed ossa.
In un contesto del genere, Feig e la sceneggiatrice Katie Dippold vorrebbero esaltare le virtù intellettive ed umane del loro quartetto, ma non si accorgono di come immergere i loro personaggi in un mondo dove avere un pisello vuol dire essere idioti non è sinonimo di progressismo, ma di semplice stupidità. Al punto che se gli autori si sono divertiti a dare del misogino a chiunque non abbia apprezzato il film, bisognerebbe ricordar loro come anche l'insulto gratuito verso il gender maschile è altrettanto deprecabile. Ma vista la caparbietà con cui si sono divertiti a caratterizzare in modo stupido e volgare i loro personaggi, è anche possibile che non abbiano la maturità per comprendere un concetto che ai loro occhi potrebbe risultare infinitamente astruso e complesso.




Dal canto suo, Amy Pascal è davvero riuscita nell'impresa di creare un film con delle supereoine e con tutti i luoghi comuni del genere: la origin-story che occupa tutte e tre gli atti, le sequenze in cui viene provata l'attrezzatura, il confronto con un villain puramente pretestuoso, persino la scena post-crediti che apre ad un sequel più ambizioso; e. sopratutto, un terzo atto dove le ghostbusters attaccano i fantasmi come se fossero comunissimi scagnozzi fatti di carne e sangue, passandoli al tritacarne e mettendoli al tappeto a suon di frusta, alla faccia della minaccia ectoplasmatica.
Tutto il resto è pura routine: gag poco riuscite, umorismo del tutto distaccato dal contesto, storia inesistente. Tutti difetti propri del cinema di intrattenimento contemporaneo, nulla che non poteva essere previsto data la natura prettamente commerciale dell'operazione. Il vero "crimine", semmai, è stato l'aver costretto il cast originale a comparire in una serie di camei inutili e talvolta fuori luogo, come quello di Bill Murray, che riprende in sostanza il ruolo che fu di William Artherton nell'originale. Visione che riesce davvero a deprimere.
Per il resto questa operazione da due soldi lascia il tempo che trova: 120 minuti che volano via, non esaltano ma neanche irritano. Una mediocrità pura e semplice, una forma di cinema di intrattenimento che gioca al ribasso su tutto. E che per forza di cose finisce per perdere con il suo predecessore, che di certo non mancava di ambizione. Ma, si sa, erano altri tempi quelli che lo hanno visto nascere, anche per quel cinema di puro disimpegno.






EXTRA


Impossibile parlare del film senza fare cenno al polverone di polemiche che ha suscitato nei mesi antecedenti alla sua uscita. O per meglio dire: non tanto il film in sé, quanto le reazioni al suo lancio. Pubblicato il trailer, gli utenti di YouTube hanno manifestato in modo diretto lo scontento per quelle immagini poco divertenti e a tratti semplicemente stupide, tanto che in breve tempo è divenuto il trailer con il maggior numero di dislike sulla piattaforma.




Disperati, i dirigenti della Sony, impauriti da un possibile flop, hanno reagito in modo squallido e codardo, tacciando di misoginia chiunque postasse commenti negativi e pubblicando il successivo materiale video unicamente sulla pagina Facebook del film, dove era impossibile commentare. La strategia era semplice: isolare gli scontenti, insultarli ad oltranza per far credere al pubblico occasionale che si trattasse di pochi facinorosi ignoranti, quando in realtà gli utenti che hanno effettivamente pubblicato commenti di disapprovazione sul gender del cast si contavano sulle dita di una mano monca.
Con una manovra furba e squallida, gli addetti al web della Sony hanno poi deciso di cancellare solo quei commenti negativi che articolavano in modo complesso e completo il loro punto di vista, sopratutto quelli postati da utenti donne, lasciando invece in bella mostra i commenti realmente misogini, per creare prove a tavolino sulla "persecuzione maschilista" in atto.

Ancora più squallido è stato il comportamento di Paul Feig, che tramite il suo account Twitter ha insultato praticamente chiunque non apprezzasse il film.


La Pascal, dal canto suo, si è unita al coro, insultando a destra e a manca chiunque non apprezzasse le immagini o osasse anche solo timidamente dire qualcosa di negativo sul film, sull'operazione commerciale che lo ha generato, sull'accoglienza delle immagini e video promozionali o persino sulle polemiche stesse.
Comportamento che definire infantile sarebbe superfluo.


La politica poco lungimirante della Sony ha portato a puntare tutto su di un unico film per risollevare le proprie sorti produttive. Facile intuire perché temesse un flop del film dovuto all'accoglienza negativa. Insulti a parte, la major ha attuato una delle sue solite strategie per pubblicizzare meglio il blockbuster: corrompere giornalisti che creassero recensioni ad hoc. In questo caso, si è deciso di utilizzare il canale YouTube Island Arcade, il cui autore non è neanche solito recensire film.


La breve vita del canale (appena 5 mesi), la poca frequenza con cui viene aggiornato e le strane circostanze che hanno portato l'autore ad ottenere un invito ad una proiezione di anteprima, hanno fatto pensare a molti altri youtuber (compreso Midnight'Edge, canale specializzato nelle controversie dietro famosi blockbuster) ad affermare come addirittura l'intero canale sia stato creato appositamente per pubblicizzare il film.


Tuttavia, è un altro atteggiamento mediatico a suscitare vera curiosità: durante i mesi di polemica, nessun membro del cast si è espresso a favore del film via social media, con l'eccezione della McCarthy, che ha timidamente twittato dei post sugli argomenti. Tolte le canoniche ospitate televisive al fianco dei volti storici del film originale, né la Wiig, nè la Jones, né la McKinnon si sono prodigate per cercare di vendere in alcun modo il prodotto. Probabilmente si erano rese conto in partenza della sua pochezza e della disperazione della Sony.
Ecco perchè la Pascal ha dovuto letteralmente comprare l'approvazione della vecchia guardia: Dan Aykroyd, probabilmente dietro un lauto compenso, si è speso in elogi sperticati verso il film.




Visto il prodotto finito, è palese la sua cattiva fede.

Sempre Aykroyd si è reso tristemente protagonista di un'altra campagna d'odio verso i detrattori: durante un'intervista presso ETCanada, l'attore ha affermato come chiunque non apprezzi questo remake sia "un sessantenne panzuto iscritto al KKK o ad altre organizzazioni razziste".
Anche in merito a quest'altra inutile cascata di insulti gratuiti, ogni commento risulterebbe semplicemente superfluo.

Un vero e proprio dossier completo sul "caso Ghostbusters" può essere trovato sul canale YouTube di Midngiht's Edge. Visione raccomandata per capire la gravità degli insulti propinati dagli autori del film al pubblico e per la vastità dell'idiozia dietro all'intera operazione.


martedì 26 luglio 2016

Phenomena

di Dario Argento.

con: Jennifer Connelly, Donald Pleasance, Daria Nicolodi, Fiore Argento, Federica Mastroianni, Fiorenza Tessari, Dalila Di Lazzaro, Patrick Bauchau, Mario Donatone, Davide Marotta.

Horror/Thriller

Italia 1985















Nel 1985 il cinema di genere italiano aveva già cominciato a ripiegare su sè stesso, pronto a scomparire per sempre, inglobato dapprima nel circuito televisivo per poi essere semplicemente dimenticato.
Dario Argento, dal canto suo, era ancora all'apice della fama e i suoi film rappresentavano sempre un appuntamento importante sia per gli estimatori dell'horror che per gli spettatori dal palato più fine, attratti più dal nome dell'autore che dalle sue opere, come tradizione italiota vuole.
Ma con "Phenomena", il genio argentiano comincia a vacillare. Con una trovata singolare, l'autore decide di fondere il classico schema del giallo con le incursioni nel fantastico, dal quale si era fatto attrarre per il capolavoro "Suspiria" (1977) e lo sperimentale "Inferno" (1980). Fusione che però non riesce ed il risultato è un film sicuramente godibile, ma afflitto da una serie di difetti di struttura e messa in scena inaspettati.





La giovane Jennifer Corvino (Jennifer Connelly) si trasferisce in un collegio di lusso in Svizzera, dove un misterioso assassino miete vittime tra le studentesse. Jennifer ha però un asso nella manica: un bizzarro potere psionico che le permette di cominicare con gli insetti. Con l'aiuto del dottor McGregor (Donald Pleasence), entomologo ed assistente della polizia, la giovane tenterà di scoprire la vera identità del killer.





La struttura di basa è quella iper-collaudata del giallo argentiano: killer sanguinario in un contesto di apparente tranquillità, detective per caso, sequenza di omicidi, rivelazione dell'identità nel terzo atto e contro-finale che scombina le poche certezze del post-climax. Torna da "Suspiria" la trovata della studentessa straniera in una scuola di lusso, mentre l'ordinario dettaglio dei guanti neri del killer viene sostituito da quello dell'arma del delitto, una lancia smontabile che ricorda il cavalletto del seminale "L'Occhio che Uccide" (1980). La novità effettiva sta tutta in due elementi: l'ibridazione con l'elemento sovrannaturale e la costruzione anticlimatica degli omicidi.
Quest'ultimo aspetto è il più riuscito dei due (anche se preso a sé risulta ben poco affascinante alla prova dei fatti). La violenza grafica è quasi assente: ogni morte avviene praticamente fuori scena, ogni dettaglio cruento non appare su schermo. Il sangue viene risparmiato quasi tutto per il finale, in particolare per la morte dell'assassino. Se sulla carta la scelta sembrerebbe interessante, una volta portata su schermo ci si accorge di come in questo modo la tensione finisce immancabilmente per allentarsi: non si ha più quella sensazione di ineluttabilità nella morte che accompagnava gli omicidi di "Profondo Rosso" (1975) o "Tenebre" (1982) e la sequela di uccisioni, restando confinate fuori dalla visione dello spettatore, finisce per non spaventare. La tensione finisce così per tornare unicamente nell'ultimo atto, dove oltre alla violenza ad inquietare è anche il setting, quella fantasmatica "piscina di cadaveri" vera e propria visione d'incubo, forse ispirata ad una sequenza simile di "Poltergeist- Demoniache Presenze", uscito appena tre anni prima; così come la rivelazione finale sull'omicida non può non portare alla mente "Venerdì 13" (1980), facendo facilmente intuire i debiti di ispirazione.




L'elemento sovrannaturale, bizzarro ed interessante, non si amalgama a dovere con la storia. I poteri di Jennifer vengono usati solo raramente e quando fanno la loro comparsa per aiutarla nelle indagini, lo script si dimostra poco fantasioso. La progressione è sempre lineare e prettamente logica, arginando ogni possibile deriva bizzarra o davvero inusuale, finendo per affossarne in parte il fascino.
Nonostante il budget sostanzioso (quasi 4 milioni dell'epoca), i limiti tecnici sono talvolta imbarazzanti. Non tanto quelli relativi agli effetti ottici usati per dar vita agli insetti (si tratta pur sempre di una produzione europea degli anni '80), quanto quelli della fotografia e della messa in scena. Se le immagini telescopiche dei dettagli sugli invertebrati sono davvero notevoli, davvero piatto è l'uso della fotografia dinamica o della palette di colori. Dopo gli sfolgoranti esperimenti cromatici di "Suspiria" e "Tenebre", la visione appare qui piatta, poco ispirata e talvolta persino poco dinamica, come se Argento avesse dimenticato il suo stesso stile.
Malriuscito è anche l'uso delle musiche. Laddove lo score dei Goblin è al solito ispiratissimo e spaventoso, davvero ridicola è la trovata di alternare alle incursioni liriche del gruppo il metal dei Motorhead e degli Iron Maiden, sopratutto nelle sequenze in cui queste accompagnano le scene di tensione, visibilmente non costruite sulle loro note.




A salvare la visione resta solo il puro mestiere di Argento, che comunque regge la narrazione, l'interesse, canonico, per la risoluzione, nonché la simpatia degli interpreti. La giovanissima Connelly, all'epoca quattordicenne e al suo secondo film dopo la partecipazione a "C'Era una volta in America" (1984), riesce ad incantare nonostante le acerbe doti recitative. Mentre Donald Pleasance le ruba la scena in uno dei ruoli più curiosi della sua carriera: un genio dell'entomologia paraplegico e accompagnato da una fidata scimpanzè.




EXTRA


"Phenomena" può vantare un primato: è stato il primo film italiano ad ispirare un videogame, "Clock Tower", survival horror in stile punta e clicca sviluppato dalla Human Interactive e pubblicato nel 1996 per SNES, purtroppo per il solo mercato giapponese.





Protagonista del gioco è l'adolescente Jennifer, modellata direttamente sull'omonimo personaggio del film, anch'essa alle prese con un assassino armato di cesoie che perseguita lei e le sue compagne di scuola. Lo stesso look dell'assassino è ripreso direttamente dal film.




venerdì 22 luglio 2016

Star Trek Beyond

di Justin Lin.

con: Chris Pine, Zachary Quinto, Idris Elba, Sofia Boutella, Zoe Saldana, Karl Urban, John Cho, Simon Pegg, Anton Yelchin, Deep Roy.

Avventura/Fantascienza

Usa 2016














Il brand di "Star Trek" è sempre riuscito ad aggiornarsi, a tenersi, nel bene e nel male, sempre al passo con i tempi, rappresentando motivo di interesse sia per i fans di vecchia e vecchissima data che, spesso, per gli spettatori occasionali. Persino l'ultimo rilancio, datato 2009, ha saputo ridare freschezza ad una saga che oramai sentiva il peso degli anni, aggiornandola con dosi elefantiache di humor e avventura.
Finché nel 2013, "Into Darkness" ne ha affossato nuovamente le sorti. Un secondo capitolo che trionfò ai botteghini, ma che riusciva ad essere, per paradosso puro, estremamente ambizioso ed intensamente vuoto, persino sul piano strettamente spettacolare.
Per il terzo capitolo del "reboot", la Paramount ha quindi deciso di giocare al rilancio. Licenziato J.J. Abrams, che torna nelle vesti di solo produttore anche a causa degli impegni sul set di "Star Wars- Il Risveglio della Forza", la direzione viene affidata al mestierante Justin Lin, vero e proprio uomo di miracoli che già riuscì nella non facile impresa di dare dignità alla serie di "Fast & Furious". Con uno script co-sceneggiato da Simon Pegg e tutto il cast al completo, Lin crea un'avventura dalla linearità claustrofobica, che non rischia nulla adagiandosi su tutti i canoni del genere, ma che riesce anche ad intrattenere a dovere.





Della fantascienza classica resta solo il setting. L'intera storia è invece concepita in modo non dissimile da una qualsiasi picaresca escursione alla Indiana Jones et similia: l'equipaggio è alle prese con il villain di turno, il misterioso Krall interpretato da Idris Elba. alla ricerca di un McGuffin qualsiasi. Se la narrazione non cade sotto il peso della sua stessa vacuità è solo grazie al lavoro di sottrazione: nulla viene svelato sull'oggetto sino a metà film, pur se lo stesso compare già nel prologo. Mentre la vera identità del cattivo, rivelata solo verso il finale, ne affossa ogni forma di originalità possibile. Non c'è, in fin dei conti, nessuna differenza caratteriale o di background tra Krall, il Khan di "Into Darkness" e il Nero del primo film. Piatta e poco originale è anche la caratterizzazione della nuova comprimaria, l'aliena Jaylah interpretata dalla bellissima Sofia Boutella, alla quale il rigore caratteriale quasi ridicolo della serie nega persino una love-story con lo Scotty di Simon Pegg.






A rendere piacevole la visione resta quindi la sola regia di Lin. Mantenendo saldamente il controllo per tutta la durata, riesce a creare sequenze adrenaliniche e spettacolari, anche se mai davvero memorabili. Il vertice viene raggiunto ovviamente nel finale, dove tra un combattimento a gravità zero e uno scontro a suon di rock, regista e sceneggiatori riescono nell'intento non facile di scacciare via la noia.






I fans più esigenti apprezzeranno anche il lavoro svolto sui personaggi. I battibecchi tra Spock e McCoy divengono parte integrante della narrazione, il capitano Kirk e lo stesso vulcaniano, tra una sparatoria ed un inseguimento, riescono a fermarsi per riflettere sui loro ruoli e la necessità di continuare a perseguirli. Mentre su tutto aleggia il peso per la scomparsa di Leonard Nimoy, resa parte integrante della storia, in un mix di narrazione e omaggio che riesce a muovere ad empatia.





Il resto è pura routine: una trama pretestuosa che fa somigliare questo terzo (o tredicesimo) film della serie come il classico episodio del serial gonfiato per apparire sul grande schermo. Manca l'ambizione del film precedente e per fortuna anche le sue trovate genuinamente trash; ma manca anche la varietà di situazioni del primo capitolo, così come una rielaborazione delle tematiche fantascientifiche che non sia puramente di contorno. Ma si sa che, al cinema, l'unico vero exploit di hard sci-fi con il marchio di "Star Trek" è l'odiatissimo primo film, che molti fans farebbero bene a rivalutare, quindi è forse normale l'uso di registro prettamente avventuroso e ad altezza di personaggio.
Del resto, se preso per quello che è, "Star Trek Beyond" risulta anche migliore di molti suoi simili: un blockbuster estivo che vuole solo intrattenere, riuscendo nell'impresa senza irritare. Il che, per certi versi, è già molto.

sabato 16 luglio 2016

E.T.- L'Extra-Terrestre

E.T. the Extra-Terrestrial

di Steven Spielberg.

con: Henry Thomas, Drew Barrymore, Robert Mac Naughton, Dee Wallace, Peter Coyote, C.Thomas Howell.

Fantastico

Usa (1982)














Pietra miliare del cinema fantastico e fiaba a sfondo fantascientifico che ha incantato almeno due generazioni di spettatori, "E.T." è per molti il punto più controverso della carriera di Spielberg; da chi lo osanna come un capolavoro assoluto della Settima Arte a chi lo stronca senza mezzi termini come una cavolata per bambini, non sembra esserci ad oggi, 34 anni dopo la sua uscita nelle sale, una posizione univoca o condivisa su uno dei lavori più importanti del Re Mida di Hollywood. Il che è un vero e proprio scandalo se si tiene conto di come pregi e difetti della pellicola siano facilmente enunciabili e quantificabili in modo pressoché oggettivo; basta andare al di là delle semplici impressioni o passioni personali, o, più semplicemente, porsi nel mezzo dei due poli ossessivi.




Quando Spielberg comincia la pre-produzione del suo settimo lungometraggio, è già un regista osannato pressocchè da tutto il mondo, che ha diretto due dei più grandi campioni di incasso di sempre ("Lo Squalo" e "I Predatori dell'Arca Perduta") ed è pronto a frantumare nuovamente ogni record. D'altro canto, appena sette giorni prima dell'uscita nelle sale di "E.T.", trionfava di nuovo con "Poltergeist", istant cult che si impose immediatamente nell'immaginario collettivo americano e non. Lo stesso "E.T.", per la cronaca, diverrà uno dei massimi successi commerciali della storia, superando il record stabilito cinque anni prima da "Guerre Stellari", imponendosi come il film più visto di sempre e divenendo il trionfatore inarrivabile nella competizione di quella lunga e afosa estate americana dell'82, durante la quale le sale furono invase da una decina di pellicole poi diventate di culto, andando persino ad incidere negativamente sulle performance di due veri capolavori, "Blade Runner" e "La Cosa", divenuti dei flop a causa della monopolizzazione del pubblico da parte del simpatico alieno luminoso.
L'idea alla base del film è quella di un incontro con creature extraterrestri che si diversificasse da quanto visto in "Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo" (1977) per raggiungere più da vicino lo stato emozionale dello spettatore. Spielberg comincia a svilupparla assieme allo sceneggiatore John Sayles, autore di "Return of the Secacus Seven", che già nel 1979 portava su schermo l'incontro tra dei giovani uomini ed una creatura extraterrestre. La prima stesura del soggetto era lontana anni luce dal prodotto finito: ambientato nel Mid-West, raccontava la storia di un feroce assedio a danno di una famiglia americana tipo da parte di un gruppo di animaleschi alieni, tra i quali figurava anche un piccolo essere più "umano" che stringeva amicizia con il figlio più piccolo. Versione ritenuta da Spielberg troppo inutilmente cupa e per questo più volte rimaneggiata sino alla sua forma definitiva.
L'intenzione dell'autore è chiara: creare una vera e propria favola moderna che narri l'incontro pacifico tra un essere alieno ed un bambino terrestre, una sorta di espansione del finale di "Incontri Ravvicinati", narrato totalmente dal punto di vista dei piccoli. In fondo, "E.T:" altro non è che questo: una perfetta storia per ragazzi, che ha il suo punto forte nel sapere stare alla loro altezza senza trattarli come immaturi o stupidi, anzi riuscendo a colpire perfettamente le corde emozionali più difficili da raggiungere senza mai scadere nel ridicolo o nel ricattatorio. Pregio che però è anche un forte limite.




Come Gilliam fece ne "I Banditi del Tempo" (1981), anche Spielberg riprende totalmente il punto di vista dei piccoli. Il mondo ruota intorno ad Eliott (Henry Thomas), la sua sorellina Gertie (Drew Barrymore) e il fratello maggiore Michael (Robert MacNaughton). L'unica figura genitoriale, la madre interpretata da Dee Wallace, è totalmente ancillare alla storia, mentre l'assenza della figura paterna viene resa dall'autore con una trovata geniale: tutte le figure maschili, come il preside (che la leggenda vuole essere interpretato da Harrison Ford) o il poliziotto appaiono sempre e solo di spalle in inquadrature fisse. Lo stesso villain, lo scienziato interpretato da Peter Coyote, viene inquadrato per oltre metà film solo tramite il dettaglio rivelatore del mazzo di chiavi attaccato alla cintola. In "E.T." il mondo viene sempre filtrato dalla prospettiva dell'infante, visto dal basso verso l'alto e immerso nella luce della fantasia.
Ecco perchè l'incontro con il mite alieno riesce ad incantare e coinvolgere: lo sguardo è quello curioso e semplice di un bambino con il quale lo spettatore è chiamato ad identificarsi. Ed è facile immergersi nei panni di Eliott e compagni: personaggi che incarnano ogni singolo aspetto della gioventù dei primi anni '80, dalle abitudini ai costumi, ma che hanno caratteri universali.




Spielberg riesce a creare la magia definitiva, a far commuovere il pubblico per le sorti di un extraterrestre che riesce davvero ad incantare. Una creatura quasi angelica nella sua semplicità, E.T. è l'amico immaginario che ogni bambino ha avuto, un lampo di fantastico che irrompe nella quotidianità della suburbia americana più comune. Un essere fuori dal tempo e dallo spazio, emblema universale della mite curiosità. Facile, poi, vedere nella sua morte e rinascita un elemento cristologico, ma si tratta di pura speculazione: Spielberg è ebreo, non vuole creare nessuna metafora o simbologia, solo narrare la storia di un singolare incontro.






Per farlo crea sequenze visionare ed incantevoli, come la fuga finale nei cieli, omaggio sentito a "Miracolo a Milano"(1951) di De Sica, o la divertente sequenza dell'ubriacatura "a distanza". Mentre sul piano narrativo gioca con i ruoli e le maschere. E.T. ed Eliott sono l'infanzia, che vuole essere libera e felice, priva di costrizioni, mentre i soldati, ossia gli adulti, incarnano più volte figure di riferimento quasi fasciste nella loro ossessione per il controllo, bardati nelle vesti militari, irrompendo in casa come veri alieni in tute spaziali.






Ma la vera empatia verso il piccolo alieno riesce sopratutto grazie agli stupefacenti effetti speciali di Carlo Rambaldi, che crea un animatronic dall'espressività sbalorditiva. La gamma di espressioni, i movimenti della testa e degli occhi rendono E.T. tanto vero quanto gli attori che lo circondano, in un passaggio essenziale e definitivo dell'effetto speciale ad elemento narrativo.





Laddove il film inciampa è nel finale. Non tanto nella scelta di un happy ending, praticamente dovuta e comunque emozionante. Quanto nella mancanza di una vera catarsi verso la tematica genitoriale. Non c'è una presa di coscienza di Eliott o di qualsiasi altro personaggio verso quella mancanza della figura paterna intessuta durante tutto il film. Così come non c'è il superamento della stessa. Allo stesso modo, il padre putativo dei ragazzi, ossia il capo degli scienziati, non ha una vera e propria catarsi, nonostante si faccia riferimento ad una sua fascinazione verso la figura dell'extraterrestre. Ogni possibile approfondimento psicologico e narrativo viene sacrificato alla pura emozione, alla meraviglia e alla commozione; in ossequio ai dettami della favola, si potrebbe affermare, ma andando lo stesso a gettare nel nulla parte della storia precedentemente mostrata.
Questo è il grande limite di "E.T.": una pellicola che rinuncia a parte della sua stessa sostanza pur di dare al pubblico ciò che vuole. Nella migliore e al contempo peggiore tradizione del cinema di Spielberg, ripresa da "Incontri Ravvicinati" e che da qui in poi diverrà sempre più pregnante all'interno della stessa.



EXTRA


Sulla scorta dell'ossessione compulsiva dell'amico Lucas per le riedizioni celebrative dei suoi vecchi film, nel 2001 Spielberg rimise mano ad "E.T." per creare una versione speciale per il 20° anniversario. Uscita in sala un anno dopo, questa nuova versione presenta delle modifiche a dir poco oscene al montato originale:


Gli splendidi SFX di Rambaldi sono stati sostituiti con un'imbarazzante CGI in diverse inquadrature. Il confronto è impietoso: la computer graphic è plasticosa e si amalgama malissimo con la fotografia originale, creando un effetto imbarazzante nel passaggio tra effetti in camera e post-prodotti.


Per la gioia dei fans della censura inutile, nella scena dell'inseguimento finale i fucili imbracciati dagli agenti della CIA sono stati sostituiti con delle radiotrasmittenti. Il ridicolo lo si raggiunge in pieno quando ci si accorge di come, nelle inquadrature precedenti, gli stessi agenti sfoderano armi a tutto spiano.



Lo sconsolante esito di questa sciagurata riedizione ha portato lo stesso autore a disconoscerla: nelle successive edizioni in DVD è stata distribuita in un combo-pack con l'originale, mentre in Blu-Ray è arrivata solo quest'ultima versione.


A Natale 1982, i negozi americani furono invasi dall'adattamento videoludico del film.



Titolo a dir poco leggendario, "E.T." per Atari 2600 è tutt'oggi ricordato come uno dei peggiori videogames mai concepiti. Il suo flop fu talmente cocente da portare la Atari, all'epoca colosso dell'intrattenimento elettronico, alla bancarotta e a causare la famosa implosione del mercato videoludico dell'82, durato oltre un anno.
Nel 2014 lo sceneggiatore Zak Penn ha diretto il documentario "Atari: Game Over", rievocazione dell'ascesa e caduta della famosa software house che sfata la leggenda metropolitana sul presunto seppellimento cerimoniale delle copie superstiti del gioco nel deserto del New Mexico.





Anche "E.T." è stato l'apripista di un filone, quello del "fantastico a misura di ragazzo", dove un gruppo di pre-adolescenti si ritrova alle prese con avventure rutilanti e fantasiose. Tra gli esponenti più influenti, almeno due hanno raggiunto lo status definitivo di cult e sono ad oggi oggetto di riverenza nostalgica:



"I Goonies", prodotto da Spielberg e diretto dallo specialista Richard Donner nel 1985, sostituisce lo sfondo fantascientifico con quello avventuroso, immergendo il gruppo di giovani protagonisti (tra i quali figurano anche Josh Brolin, Sean Astin e Corey Feldman) in una caccia al tesoro degna di Indiana Jones.



"The Monster Squad" (giunto in Italia con il fuorviante titolo "Scuola di Mostri") del 1987, scritto da Shane Black e diretto dall'amico Fred Dekker, fonde il filone con l'omaggio sentito ai classici dell'horror della Universal, condendo il tutto con gli straordinari effetti di Stan Winston.

mercoledì 13 luglio 2016

It Follows

di David Robert Mitchell.

con: Maika Monroe, Bailey Spry, Keri Gilchrist, Lili Sepe, Olivia Luccardi, Jake Weary.

Horror

Usa 2014

















Quando l'horror di matrice indie ha poco da dire, i risultati non possono che essere ridicoli. Tanto che "It Follows" può essere considerato come il perfetto esempio di pellicola che si rifà a uno stilema codificato, cercando disperatamente di attrarre l'attenzione del pubblico (riuscendoci, tra l'altro, visto l'ottimo riscontro ottenuto), ma senza riuscire a dire nulla di originale o stimolante, anzi afflosciandosi sui peggiori clichè possibili. Perchè di sbagliato, nel secondo film di David Robert Mitchell, c'è davvero molto, a cominciare dalla premessa.




L'idea di un essere arcano che perseguita chiunque faccia sesso arriva dritto dall'horror anni '70, ma l'idea di orrore alla sua base è totalmente diversa. Laddove le maschere di Michael Myers e Jason Voorhes incarnavano (o tentavano di incarnare) la punizione verso la libertà sessuale ottenuta ad inizio decennio, la vendetta di modo di pensare arcaico che ingenerava la paura del castigo immotivato, la presenza di "It Follows" sembra uscita direttamente da uno spottone repubblicano sull'astinenza da sesso da imporre ai giovani. Non un castigo, nè la metafora di una malattia venerea, tantomeno la scoperta di orrore fisico come in "Alien" (1979) o "Shivers" (1975), questa sorta di catena di Sant'Antonio assassina serve a Mitchell (stando alle interviste rilasciate a margine della presentazione del film al Fangoria Film Festival) unicamente per innescare la storia e far proseguire gli eventi. Un pretesto che finisce per divenire maldestramente pistolotto reazionario, esplicitazione di una paura del contatto fisico priva di ogni base razionale, per questo altamente irritante.
La caratterizzazione estetica della presenza in sé è poi alquanto ridicola: un essere che si manifesta solo a chi ha "osato" congiungersi che prende le forme di personaggi random, talvolta inquietanti, talaltra francamente ridicoli, come nel caso della vecchia in camicia da notte o del temibile tizio in calzamaglia bianca.




Mitchell si rifà allo stile di molti cineasti europei per la sua messa in scena (Refn per costruzione maniacale dell'inquadratura, Haneke per il distacco chirurgico verso gli eventi) e ad alcuni colleghi americani per l'estetica (la frontalità di Wes Anderson, l'uso di musiche in synth come Adam Wingard), ma non riesce mai a creare una tensione davvero avvertibile. Troppo semplice chiudere ogni sequenza con un anticlimax salvifico, con l'intervento di un deus ex machina a risolvere la situazione o affidarsi ai sempre cari jump-scare. La tensione non raggiunge mai un vero culmine, lasciando freddi, quasi infastiditi dall'ossessione per il regista per una forma priva di qualsiasi sostanza.





Quel che è peggio, ogni singola scena gronda di riferimenti al cinema indie e alla cultura hipster: dall'uso di oggetti di scena vetusti e fuori tempo alle citazioni colte di Eliot e Dostoevskij, Mitchell urla il suo status di autore in modo ridicolo. Sopratutto quando ci si rende conto della sua incapacità di creare personaggi complessi e che si allontanino dagli stereotipi. O quando non riesce nemmeno a creare un finale che dia una chiusura effettiva alla vicenda.

martedì 5 luglio 2016

Apocalypse 2024

 A Boy and his Dog

di L.Q. Jones.

con: Don Johnson, Tim McIntire, Jason Robards, Susanne Benton, Alvy Moore, Charles McGraw, Ron Feinberg, Michael Rupert.

Fantascienza/Grottesco

Usa 1975













Quando si parla di pellicole seminali, un film come "Apocalypse 2024" passa solitamente inosservato. E' stato facile sia per il grande pubblico che per la critica dimenticare questo piccolissimo film, divenuto tra l'altro un cult solo per pochi. Il perchè è anche facile da spiegare: non è di certo una pellicola memorabile o perfettamente riuscita, quanto un B-Movie in piena regola che fa dell'originalità della storia e dell'acidità del tono i suoi punti di forza.
Pur tuttavia, l'importanza che l'exploit di L.Q. Jones e Harlan Ellison è innegabile. Prima ancora del mitico "Mad Max 2" (1981), fu proprio questo bizzarro ed affascinante film a portare su schermo immagini di una società del dopo-bomba, dove la razza umana è regredita allo stato primitivo.




Alla base del film c'è il racconto omonimo "A Boy and his Dog" che Ellison scrisse nel 1969, ricompreso nella celebre antologia "The Beast that Shouted Love at the Heart of the World", i cui diritti furono presto acquisiti da Jones, noto e apprezzato caratterista che all'epoca tentava di avviare una propria carriera da regista. Ottenuto il beneplacito dell'autore, la produzione riesce a portare a bordo Jason Robards nei panni del capo della comunità di Topeka e, sopratutto, trova un perfetto protagonista in un giovane e sconosciuto Don Johnson.
Distribuito inizialmente nel solo circuito dei drive-in, il film riscuote un ottimo successo, ma arriva in sala solo nel decennio successivo, ricevendo nuovamente un'ottima accoglienza anche presso la comunità femminista, che ne loda il tono misantropico (in Italia in film arriva con il titolo "Un Ragazzo, un Cane, due inseparabili Amici" riscuotendo un discreto successo, per poi essere distribuito anni dopo in home-video con il titolo internazionale "Apocalypse 2024"). Successo tutto sommato meritato: nonostante qualche incertezza, quello di Jones è un buon esempio di cinema di serie B.




"La IV Guerra Mondiale durò cinque giorni". Dopo c'è solo il caos. L'umanità è tornata allo stato brado, organizzata al massimo in piccolissime comunità dedite al baratto. Tra le "wasteland", il giovane Vic (Johnson) vaga assieme al suo cane  mutante Blood (doppiato dal cantautore Tim McIntire), dotato della capacità di comunicare con alcuni umani. La forza di Vic permette al duo di fare provviste, mentre il fiuto di Blood permette al partner di trovare tutte le donne di cui ha bisogno per appagare la sua insaziabile libido. Finchè i due non si imbattono nella misteriosa e bellissima Quilla (Sussanne Benton).




La civiltà non esiste più. Gli uomini, sia i superstiti alla guerra che i figli del dopobomba, sono dei barbari le cui priorità coincidono con l'appagamento degli istinti; la sopravvivenza è divenuta l'imperativo e l'essere umano è così ridotto ad un animale. Tanto che Vic non è dissimile da una bestia: un ragazzo irriverente, sboccato, privo di qualsiasi ideale o anche idea, viaggia per il deserto a caccia di cibo e donne. Non un semplice sopravvissuto, ma l'uomo nuovo di un mondo privo di ogni forma di istituzione.
Blood è il suo opposto; personaggio razionale, dotato di uno spiccato e sagace senso dell'umorismo, è lui tra i due ad avere la testa sulle spalle, a non lasciarsi trasportare dallo stomaco neanche quando è vuoto. Ed è sempre lui a rappresentare la "memoria storica collettiva", impartendo all'umano lezioni di storia da tramandare ai posteri.





Al di sotto delle wasteland si è formata invece una società del tutto antitetica, comandata con il pugno di ferro dal patriarca Lou (Robards) ed i membri del "consiglio". Una civiltà che ricalca quella dell'America degli anni '50, dove l'innocenza e il duro lavoro vengono imposti sino al punto che gli abitanti devono dipingersi il volto per simulare costantemente l'allegria. Un mondo, in fin dei conti, non meno barbaro di quello di sopra, dove un governo tirannico spadroneggia sui sopravvissuti progammandone in modo preciso e puntuale usi e gusti, punendo con la morte chiunque non segua i precetti, letti costantemente da una voce registrata.






Jones e Ellison ritraggono così due mondi opposti e complementari. Sopra, una sorta di protociviltà che vive delle macerie di quella vecchia, dove i solitari sono vestiti di stracci, combattono e viaggiano con i rottami del passato e sono pronti a qualsiasi bassezza per appagare il ventre. Di sotto, un totalitarismo che impone il perbenismo conformista per cercare di riprodurre in modo meccanico usi e costumi di quel mondo ormai distrutto, dove gli anni '50 rappresentano al contempo innocenza e orrore.
Il lavoro svolto sui costumi e le locations è esemplare e connota in modo definitivo quello che sarà il look della post-apocalisse. Lo stesso George Miller ammetterà più volte e senza giri di parole di esservisi ispirato per il suo film, limitandosi ad introdurre alla formula elementi dello spaghetti western di stampo leoniano.






Se nell'estetica "Apocalypse 2024" è avvenieristico e, per questo, perfettamente godibile, è nello stile che purtroppo perde parte della sua riuscita; Jones crea un film a tratti goffo, superficiale e troppo attaccato alla sua matrice letteraria.
Al suo primo lungometraggio, il regista non padroneggia bene la grammatica filmica, finendo per affossare la spettacolarità di alcune scene, come la sparatoria nel seminterrato, troppo confusa nell'uso del montaggio e priva di vera tensione. Allo stesso modo, alcune scelte stilistico-estetiche sono indigeste, come l'uso dell'effetto sonoro di un sonar per mimare l'olfatto del cane.
Al pari di Ellison, anche il regista-sceneggiatore si limita a descrivere la post-apocalisse, senza tentare di ampliarne la portata narrativa o simbolica. La sceneggiatura non aggiunge nulla di nuovo al racconto e la narrazione finisce così per essere troppo lineare, perdendo di vista possibili approfondimenti dei temi trattati.






L'esito è così imperfetto, ma lo stesso interessante. Un piccolo film, sconosciuto ai più nonostante la sua aurea di cult, che può davvero vantare un primato assoluto: l'aver anticipato mode e tendenze che di lì a poco sarebbero esplose. Ed è per questo che è ancora oggi merita di essere visto e ricordato.





EXTRA


Oltre ad aver ispirato la saga del "folle" dell'Outback, "Apocalypse 2024" ha anche imposto il suo stile in ambito videoludico. La fortunata serie di RPG "Fallout" riprende dal film non solo lo stile per la creazione della società post-apocalittica (unendolo a quello dei film di Miller), ma anche la fascinazione retrò per gli anni '50.