venerdì 31 marzo 2017

Ghost in the Shell

di Rupert Sanders.

con: Scarlett Johansonn, Michael Pitt, Takeshi Kitano, Pilou Asbaek, Juliette Binoche, Rila Fukushima.

Fantascienza/Cyberpunk/Azione

Usa 2017
















Fino a qualche anno fa, il progetto di un remake americano di "Ghost in the Shell" era uno di quegli "incubi" che ogni tanto si affacciavano nelle bacheche dei siti di informazione cinematografica o tra le fila delle preview nelle riviste specializzate, spaventando chiunque amasse il capolavoro di Oshii e fosse preoccupato che la sua eredità, intellettiva e cinematografica, venisse sporcata da un film che ne riprendesse giusto gli aspetti più superficiali per creare uno spettacolino da circo da offrire al solito pubblico affamato di esplosioni e trame cretine; una paura tutto sommato giustificata: basti vedere quanti danni abbia causato l'influenza della trilogia di "Matrix", primo epigono di "Ghost in the Shell" made in Hollywood.
Incubo che sembrava non dovesse mai realizzarsi: gli adattamenti di opere nipponiche si sono sempre rivelati dei cocenti flop al botteghino e non solo; basti pensare, per fare un esempio "supremo", allo scempio di "Dragon Ball Evolution" (2009), una tra i film più brutti e odiati di sempre. E di fatto, giusto qualche anno fa si è volatilizzata definitivamente la possibilità di adattamento dell'altro grande cult dell'animazione nipponica amato in America, quell' "Akira" (1988) che più volte si è cercato di rifare, sempre invano.
Eppure, "Ghost in the Shell" vede adesso il buio della sala nella forma di una produzione occidentale, dopo innumerevoli rinvii e false partenze, con al timone un regista famoso solo per l'exploit di "Biancaneve e il Cacciatore" (2012) ed una star come Scarlett Johansson a capitanare un cast internazionale, tra cui spicca ovviamente Takeshi Kitano, che torna a recitare in un film cyberpunk occidentale 22 anni dopo "Johnny Mnemonic"(1995).
Un film che è un remake addolcito, edulcorato e "depotenziato" del capolavoro di Oshii, dal quale finisce per riprendere persino intere inquadrature per creare un quadro puramente decorativo, dove le tematiche di fondo vengono declinate in modo superficiale e prevedibile.




Il tema della transumanizzazione viene introdotto nella prima scena: i corpi totalmente cibernetici che ospitano cervelli umani sono una nuova realtà e il maggiore Mira Killian (la Johansson) è il primo esemplare di una nuova umanità pronta ad affiancarsi a quella "classica", dove i cyborg sono semplici esseri umani potenziati. Ma ogni riflessione sul concetto di umanità e sul confine che separa un essere definibile come umano da una macchina viene immediatamente evitato, gettato via, ignorato per concentrarsi su di un altro tema, più vicino alla tradizione, ossia quello identitario, che avvicina così questo remake al "Blade Runner" di Scott più che all'originale di Oshii, almeno nelle tematiche.





Poiché, laddove Motoko Kusanagi si interrogava sulla propria identità riflettendo sulla propria natura, Mira Killian è una semplice persona orfana dei propri ricordi, che riaffiorano sotto forma di glitch visivi; la tematica diviene pretesto per la narrazione, che poggia al solito sulla caccia all'uomo, in questo caso il personaggio di Kuze (Michael Pitt), proveniente da "Ghost in the Shell Stand Alone Complex 2nd Gig", il cui ruolo è quello di McGuffin vero e proprio.
Lo smarrimento della protagonista viene ben sottolineato dalla performance minimale della Johansson e Sanders cerca di dargli spazio nella bella sequenza della prostituta, ma lo script non concede tregua: tutto è tracciato sui binari del già visto.
Ogni riflessione viene relegata a semplici linee di dialogo per poi sfociare nelle conclusioni più ovvie e scontante; la mente non viene mai stimolata, né si ricercano soluzioni ardite, tantomeno si pongono quesiti davvero interessanti (tutta la questione dei potenziamenti per gli organi umani viene gettata lì, tanto per dare un contorno al tutto). La trama di base si sviluppa anch'essa nel modo più prevedibile e scontato, tanto che nel terzo atto si ha la sensazione di stare rivedendo quello di "RoboCop", sia l'originale che il remake, a causa dei cliché tirati in ballo. L'unico colpo di genio riguarda la scoperta del passato del Maggiore, ma si tratta solo di un elemento isolato, che non aggiunge più di tanta profondità al tutto.




Derivatività narrativa che si affianca a quella visiva: tutte le immagini più celebri dell'originale ritornano, ricreate ad hoc per cercare una propria identità: tornano i titoli di testa sovraimposti alla nascita del cyborg, torna l'inseguimento nel canale di scolo, così come il volo dal grattacielo; torna l'aereo che si intravede nello spicchio di cielo tra i palazzi, così come il bassotto di Batou; tornano i costumi e le armi e persino lo scontro finale con il tank aracnoide. Innumerevoli anche i richiami ad "Innocence", primo fra tutti il personaggio della dott.ssa Haraway, con le sue sigarette ed il visore esterno. Ma i rimandi e le citazioni non fanno che appiattire la visione, ricordando allo spettatore di come in passato quelle stesse immagini fossero usate in modo più intelligente.
Sanders, dal canto suo, espande a dovere l'immaginario di Oshii: la metropoli nippo-hongkonghese è qui una versione aggiornata della New Port City del '95, con effetti olografici da realtà aumentata che aggiornano, riuscendoci, quell'immaginario seminale oramai in parte datato proprio a causa della sua essenziale influenza. E grazie all'uso di locations ed attori reali al posto della solita CGI, crea immagini plastiche di sicuro fascino. Il suo è il polso di un mestierante onesto, che chiamato a confrontarsi con un'opera più grande delle sue possibilità, cerca di non finirne schiacciato. Ma l'abuso di rimandi, sia visivi che narrativi, finisce per trasformare questo remake live-action in una sorta di mostro di Frankenstein composto da più parti (talvolta eterogenee) e dotato di una personalità blanda, priva di spessore, piatta.




Se "Innocence" era il duplicato dell'originale che aveva una propria anima, questo remake è l'esatto opposto: un clone che ha solo l'aspetto del capolavoro che fu, ma privo di una propria personalità. Un filmino banale, condotto certamente con mestiere, ma che è l'ombra sbiadita di una delle opere più importanti ed influenti degli ultimi 20 anni, dal quale riprende molto solo per appiattirlo.




EXTRA


Eppure, il remake americano non è la peggiore incarnazione dei personaggi creati da Shiro Masamune. Questo "onore" spetta a "Ghost in the Shell: Arise", serie di quattro OAV ed un lungometraggio, "The Rising", distribuiti nel 2013, che presenta una trama antecedente a quella di "Stand Alone Complex" che snatura completamente sia il mondo che i personaggi di riferimento.

mercoledì 29 marzo 2017

Baci Rubati

Baisers volés

di François Truffaut.

con: Jean-Pierre Léud, Delphine Seyrig, Claude Jade, Michael Lonsdale, Harry-Max, Danel Ceccaldi.

Commedia

Francia 1968















Il 1968, l'anno delle rivolte e delle contestazioni, in cui lo status quo viene messo a soqquadro, distrutto, frammentato e bruciato. Ed un autore riservato come Truffaut, che pur preferisce un cinema intimista ad uno smaccatamente politico, non si tira indietro dinanzi all'onda della provocazione. Che, nella sua esperienza, prende due forme distinte.
Dapprima , nel febbraio, la strenue battaglia per il "caso Langlois": Henri Langlois, fondatore della Cinémathèque Française, storico archivio cinematografico d'oltralpe, viene deposto dalla direzione della stessa senza alcun apparente motivo da parte del ministro della cultura; come reazione, i figli della Nouvelle Vague iniziano una serie di forti contestazioni, bloccando le strade ed invadendo le piazze di Parigi; al gruppo autoctono giunge presto la solidarietà di altri grandi artisti europei ed americani: Bernardo Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, Michelangelo Antonioni, persino quel Nicholas Ray da loro venerato, che si unisce fisicamente alle proteste. E come segno di solidarietà alla lotta degli artisti, molti cinema restano chiusi in segno di protesta.



In seguito, a maggio, Truffaut e Godard capeggiano una seconda rivolta, diretta a contestare l'edizione del Festival di Cannes per un motivo cruciale: nessuno dei film proiettati, nemmeno quelli da loro presentati, porta il tema delle proteste dei lavoratori o degli studenti; mentre nel mondo infiamma la rivoluzione, il cinema si barrica in sé stesso con opere inutili, in palese controtendenza a quello che fu lo spirito dei "Giovani Turchi" appena un decennio prima. E la loro rabbia fu ascoltata: il festival venne interrotto dopo 9 giorni.




Come si riflette questo clima teso sull'opera di Truffaut?
Per paradosso puro, in modo estremamente blando. Perché se nella realtà il grande artista era cosciente della necessità di un'azione politica forte, capitanata in primis dalla classe intellettuale, nelle sue opere preferisce portare avanti la sua poetica leggera, quasi spensierata, sino ai limiti del frivolo. Decisione che di per sé stessa è tutt'altro che politica, squisitamente artistica, ma che verrà spesso interpretata in senso opposto, tanto da costargli l'amicizia del collega Godard, il quale lo insulterà pesantemente per le sue scelte filmiche.
E di fatto, a vedere il buio della sala in quel movimentato '68, oltre a "La Sposa in Nero", fu "Baci Rubati", quasi un manifesto di questo suo cinema leggero e squisitamente frivolo, che fa della grazia nel tono la sua forza dirompente. Nel quale l'unico segno del caos esterno alla sala è una piccola, quasi timida inquadratura, di un cinema chiuso, con in sovraimpressione una scritta in solidarietà a Langlois.




Secondo capitolo del ciclo su Antoine Doinel, "Baci Rubati" riprende le fila della narrazione dall'episodio "Antoine e Colette" del film corale "L'Amore a Vent'anni" (1962); Truffaut si sentiva ancora attratto da quel personaggio a lui così simile da farne proseguire le gesta, mischiando come sempre ricordi e passioni personali.
Antoine ha sempre il volto di Jean-Pierre Léud, ora ventiquattrenne; fuggito dall'esercito, nel quale si era arruolato per fuggire a sua volta dalla delusione amorosa, vive una relazione molto aperta con Christine (Claude Jade), mentre si barcamena per sbarcare il lunario tra un lavoro ed un altro e tra un amore ed un altro.




L'attrazione è ossessione; Antoine è innamorato di Christine, ma lei, pur attratta, non riesce a ricambiarne in toto la furiosa passione, fuggendo talvolta dalla sua presenza. Così Antoine si trova a passare il tempo in compagnia di prostitute o ragazze conosciute per caso, mentre per strada incrocia vecchie conoscenze ormai coniugatesi.
Il suo carattere, da frizzante e fiero, è ora trasognato, quasi svampito; non ha talenti particolari, né ambizioni. Antoine attraversa la vita cercando di aggrapparsi ad ogni forma di amore possibile: quello a pagamento, quello focoso per la sua coetanea, quello timido per una donna più matura. Ma ogni forma di relazione è instabile, non porta che ad una fugace forma di passione, che brucia in un attimo per poi svanire e lasciare l'amante ancora affamato di affetto.
Non c'è stabilità nella relazione: così come Christine fugge dal retro della sua casa per evitare la compagnia di Antoine, allo stesso modo le donne nella vita di Antoine vanno e vengono e a lui non resta che guardarsi allo specchio, recitando un mantra di nomi per buona sorte.
Persino quando la stabilità sembra arrivare, Truffaut decide di deridere i suoi personaggi: sistematisi assieme, Antoine e Crhistine fanno la conoscenza di una strana figura, un uomo in impermeabile che per tutto il film ha seguito la ragazza, il quale si rivela uno spasimante che confessa la sua attrazione e spiega come per lui ella sarà il solo impegno nella vita, sorta di personificazione della stabilità. Momento che viene immerso in uno stupore ironico e che viene chiuso con la scomparsa del personaggio stesso: una contraddizione, l'affermazione di come, in amore come nella vita in genere, forse non ci sono forme stabili e ferme, tutto sia in perenne movimento.




Ma Truffaut non fa di quest'incertezza un dramma, anzi colora con una luce briosa tutto il film; la leggerezza è ancora più lieve di quella di "Jules & Jim" (1962) e de "I 400 Colpi" (1959): i piccoli drammi e le piccole gioie entrano ed escono dalla sua vita, ma Antoine affronta tutto con nonchalanche, con tutta la normalità di questo mondo; Truffaut lo tratteggia quasi come la Cabiria di Fellini, pur in un contesto diverso. Ed è in tale spensieratezza che trova un registro perfetto per dar vita ai suoi "sketch", veri e propri episodi di vita mai così deliziosi.
Perché, sembra volerci dire, nella vita non contano solo le conquiste e le grandi vittorie, ma anche le piccole esperienze, quelle che ci lasciano poco solo in apparenza, scalfendo in parte il carattere.
Il Doinel perennemente distratto e svogliato è l'essere umano che si lascia trasportare dagli eventi, divenendone talvolta protagonista suo malgrado, riuscendo solo per poco a tenere le redini della sua esistenza; una filosofia lieve, nel contenuto come nella forma, che qui si fa meno ricercata; non per nulla, l'unico virtuosismo, omaggio all'amato Hitchcock, lo si ritrova quando Antoine conquista finalmente la sua Christine, quando quella stabilità, pur temporanea, arriva.




La leggerezza si fa così stile perfetto, anche dove la messa in scena arranca (ironicamente, il polso di Truffaut trema, gli errori di continuità sono talvolta ridicoli); l'equilibrio è magnifico: "Baci Rubati" è una delle commedie migliori del decennio ed uno degli esiti forse più rappresentativi di tutto il cinema dell'autore.

giovedì 23 marzo 2017

R.I.P. Tomas Milian


1933-2017


Ricordarlo come "Er Monnezza" è facile; dopotutto è stato quello il ruolo che lo ha reso davvero celebre presso il grande pubblico. Eppure quella era una forma di notorietà che detestava: l'essere associato ad una cultura popolare di bassissima lega, ai limiti del becero, lo infastidiva.
E ne aveva ben ragione, perché Tomas Milian era uomo di profonda cultura, che con oltre 120 ruoli all'attivo, presenta una carriera che spazia da Antonioni a Soderbergh, passando per Ferrara e Pasolini. E persino i ruoli nel cinema popolare sono spesso di alta caratura: basti rivedere gli splendidi "Faccia a Faccia" e "Tepepa", ben altro modo di intendere il cinema di genere rispetto al filone del "trucido". 

mercoledì 22 marzo 2017

Hook- Capitan Uncino

Hook

di Steven Spielberg.

con: Robin Williams, Dustin Hoffman, Julia Roberts, Bob Hoskins, Charlie Korsmo, Amber Scott, Maggie Smith, Caroline Goodall, Dante Basco, Arthur Malet.

Fantastico

Usa 1991













L'epiteto di "eterno Peter Pan" attribuitogli nel corso degli anni deve essere stato preso alla lettera da Spielberg; non si spiega altrimenti il perché dell'esistenza di questo "Hook", rilettura della celebre opera di Sir James Matthew Barrie che approda nelle sale nel 1991.
Rilettura che si fa ideale seguito delle avventure del fauno di pelli vestito: Peter ha abbandonato l'isola che non c'è ed ha messo su famiglia in quel di New York, oltre ad aver messo su qualche chilo di troppo sino a divenire Robin Williams; e la crescita gli ha portato tutto ciò che poteva capitare ad uno yuppie rampante: responsabilità, riunioni infinite, duelli al cellulare che prendono il posto di quelli all'arma bianca; con le conseguenze intuibili in un film per famiglie: ha trascurato i due figli Jack e Wendy, che ora, sopratutto il primo, lo detestano.




Ma il richiamo all'avventura si sa è difficile da resistere: durante una visita a Londra da nonna Wendy (Maggie Smith), ossia l'ex infatuata del perenne ragazzino oramai divenuta una nonnina, il capitano Giacomo Uncino (Dustin Hoffman) torna all'arrembaggio e rapisce i due pargoli. Catapultatosi sull'Isola che Non C'è grazie all'aiuto di Trilli (Julia Roberts), Peter ha 3 giorni di tempo per rimettersi in forma e dare ad Uncino ciò che vuole: uno scontro finale tra la ciurma dei pirati ed i Bimbi Sperduti.




La "morale" di Spielberg è chiara e semplice: crescere è brutto, bisogna cercare di restare bambini in eterno. Non rimanere giovani nell'anima, ma proprio infantili, non spegnere quel fanciullino interiore che anima la nostra fantasia e la nostra innata felicità. Più o meno come la storia originale insegnava; se non fosse che da questa, Spielberg purga ogni riferimento cupo alle implicazioni di un'infanzia eterna e tutta la fascinazione per la crescita: il suo è un manicheismo puro, il parto della mente di un immaturo più che di quella di un adulto che comprende l'importanza dell'infanzia. Di fatto, l'esaltazione cieca di quei valori bambineschi porta spesso a tragedie incredibili e persone adulte che si comportano in modo irresponsabile per appagare i propri umori sono veri e propri mostri nella realtà (ed in Italia ne dovremmo sapere qualcosa), ma Spielberg decide lo stesso di ignorare bellamente ogni eventuale conseguenza negativa per perdersi amorevolmente in un gioco cinematografico volto unicamente a divertire, senza dover infastidire lo spettatore con pensieri di sorta. Al punto che persino la "dimenticanza" causata dall'Isola che Non C'è viene ai personaggi, conseguenza negativa della permanenza nel mondo fatato, appunto, dimenticata per strada sul piano narrativo, per trasformarsi nella mera esaltazione dell'importanza del nucleo familiare, luogo che qui torna a dipingere come puro ed essenziale.
E' facile comunque intuire come lo script originale di Nick Castle (che con il suo "Il Ragazzo che Sapeva Volare" aveva creato, appena cinque anni prima, una favola sull'infanzia di ben altra caratura e spessore) avrebbe dovuto sviluppare storia e personaggi in modo differente; le riscritture ordinate hanno appiattito tutti gli spunti vagamente adulti per dare a Spielberg ciò che voleva.




Il suo controllo sulla messa in scena è però impeccabile, come al solito: le gag sono gustose ed eseguite a regola d'arte, con un ritmo ed una tempistica comica da manuale; il cast è perfettamente in parte ed affiatatissimo: Robin Williams è scatenato, Julia Roberts è una Campanellino che da ninfetta si fa donna sexy ed incredibilmente attraente; ma il ruolo dei leoni lo fanno al solito i cattivi: Dustin Hoffman e Bob Hoskins sono straordinari nei panni dei lunatici Uncino e Spugna, creando due performance dall'alchimia insuperabile (e un plauso andrebbe fatto anche all'ottimo doppiaggio italiano). Da antologia è anche il curioso cameo "fantasma" di Glenn Close, che appare nei panni dello sfortunato pirata messo "alla bomboniera", tocco di cinema squisitamente autoriale all'interno di un luna park impazzito.




Perché di luna park pur sempre si tratta; non per nulla, le magnificenti scenografie sembrano proprio quelle di un parco a tema nel quale ci si perde per la durata dell'avventura, dove ci si diverte e si scherza se si sta al gioco; nonostante qualche caduta di stile, come l'inutile introduzione del personaggio di Rufio, rivale inesistente per un eroe il cui trionfo è scritto sin dall'inizio. E purché non si pretenda una vera morale paterna che si affianchi a quella sull'esaltazione della gioventù: il tema della paternità è ridotto a puro zimbello da ridurre a brandelli dinanzi alle esigenze dei piccoli, che hanno sempre e comunque ragione.




Tant'è che "Hook" è, in sé, un film perfettamente riuscito: un'attrazione per bambini, per farli emozionare con toni e temi ai loro occhi edificanti. Ma che risulta essere raccapricciante per un adulto conscio di come la spensieratezza di un "Paese dei Balocchi" privo di freni possa essere deleteria. E forse Spielberg avrebbe dovuto leggere meno Barrie e più Collodi per avere una formazione da vero adulto aperto alle esigenze degli infanti.

lunedì 20 marzo 2017

Il Fantasma dell'Opera

di Dario Argento.

con: Asia Argento, Julian Sands, Andrea Di Stefano, Nadia Rinaldi, Carolina Cataldi-Tassoni, Istvan Bubik, Lucia Guzzardi.

Italia 1998

















Il fascino innegabile di quel piccolo capolavoro letterario, non ascrivibile alla sola letteratura di genere per quanto ad essa vicina, che fu "Il Fantasma dell'Opera" di Gaston Leroux è sempre stato presente nella filmografia argentina; basti pensare alla scuola di danza di "Suspiria" (1977), i cui sotterranei celano un "mostro" che perseguita la giovane protagonista; così come il quasi omonimo "Opera" (1987), nel quale i riferimenti al romanzo, a partire dall'ambientazione, sono più marcati, al punto che basterebbe sostituire il killer di turno con un musicista mascherato per trasformarlo in una trasposizione vera e propria.
L'adattamento di Leroux era quindi una tappa obbligata per il (fu) maestro del brivido italiano; ed è un peccato che sia arrivato solo nel 1998, ossia quando la sua creatività fosse già esaurita. Tant'è che distanziandosi in parte dalle pagine del romanzo, Argento crea una trasposizione piatta, noiosa, priva di mordente e che cerca di catturare l'attenzione per il solo tramite degli effettacci gore di Stivaletti (comunque di ottima fattura) e dello sfarzo di scenografie e costumi.



Di fatto, il budget di 10 milioni di dollari, assicurati dalla produzione Medusa dell'amico Berlusconi oltre che per il tramite dei finanziamenti statali, gli permette di avere costumi e sfondi che non fanno fanno rimpiangere i classici. Così come la fotografia di Ronnie Taylor, che già aveva illuminato le location di "Opera" oltre ad aver eseguito le splendide immagini del "Barry Lyndon" (1975) di Kubrick, cerca di creare un'atmosfera onirica ed ipnotica. Eppure nulla riesce, sopratutto a causa della mano stanca del regista.
Il confronto con i precedenti adattamenti è d'obbligo, visto la loro influenza sulla Settima Arte tutta. La versione del 1925 di Rupert Julian è in tal caso ineguagliata: Lon Chaney riusciva davvero a creare un personaggio violento e dolente, perfetto mix di vittima degli eventi e spietato macchinatore di carneficine. Così come "Il Fantasma del Palcoscenico" (1974) di De Palma (anch'esso fotografato da Taylor) riusciva nell'impresa di rileggere in chiave post-moderna e rock il classico, riplasmando la figura del Fantasma come quella tragica di una vittima di un vero mostro.
Argento dal canto suo tenta un'operazione simile: il suo Fantasma è violento, ma anche estremamente romantico, non ha una vena di vera cattiveria, quanto modi bruschi. Il vero mostro, anche qui, è un altro, l'Ammazzatopi, promosso a villain vero e proprio nel terzo atto, in una inversione di ruoli netta, quasi burtoniana. Il che sulla carta è interessante e originale, ma nell'esecuzione si rivela a dir poco ridicolo.



Il Fantasma di Argento non è deforme, né sfregiato; è anzi un sex symbol da copertina i cui unici difetti fisici pare siano dovuti ad una sua inimicizia con il barbiere; non si capisce cos'abbia di diverso, di oscuro, del perché viva nelle caverne sotto l'Opera o perché non esca allo scoperto tra le strade di Parigi; perché, in sostanza, debba rappresentare una sorta di fascinoso lato oscuro dell'essere. Fatto sta che per cercare di dare al tutto un taglio più gotico, Argento, visto che già aveva adocchiato la filosofia di Burton, copia l'incipit dello splendido "Batman Il Ritorno" (1992) e lo trasforma in una specie di uomo-topo, per il solo fatto di essere stato cresciuto dai topi, che qui sono improbabili "creature delle tenebre". E sempre visto che ormai c'era, lo fa anche muovere come il Batman di Burton, con tanto di mantello usato per planare verso la bella, alla disperata ricerca di una forma di stile non sua. L'ultima stoccata viene data dal casting: Julian Sands ha sicuramente fascino, ma è espressivo quanto un merluzzo sotto sale, non riuscendo mai a dare il carisma necessario al personaggio.




Di meglio non va certo con gli altri due elementi del triangolo amoroso. Christine è Asia Argento e le sue doti recitative sono al solito scarse; a questo bisogna poi aggiungere il fatto che non sembra abbastanza giovane per la parte. Mentre nel ruolo di Raoul troviamo Andrea Di Stefano, ancora acerbo nella recitazione (aveva esordito appena l'anno primo ne "Il Principe di Homburg" di Bellocchio) ed è qui che torna ad affacciarsi il ridicolo involontario: con trucco e parrucco alla Lord Byron, è un gentiluomo ben più tenebroso lui del fantasma del titolo.




La love-story tra i tre e quanto di più forzato e blando si possa immaginare; il primo incontro tra il Fantasma e Christine viene ambientato in un corridoio qualsiasi ed enfatizzato come se lui fosse un comune gentiluomo di passaggio; senza alcun motivo apparente, tra i due sembra esserci una sorta di connessione psichica, che da metà film in poi scompare, forse perché anche Argento si era reso conto che vedere Christine confabulare da sola come se avesse un anacronistico cellulare era inguardabile.
Il ruolo di Rauol è inconsistente e la bella si rende conto di amarlo di punto in bianco, dopo appena una chiaccherata alla buona. L'attrazione verso il Fantasma comincia a svanire di punto di bianco, giusto perché lui ad un certo punto decide di non portarla con sé mentre architetta il piano per togliere di mezzo la Carlotta (interpretata da Nadia Rinaldi, l'unica attrice in parte, il che è tutto dire), come se anzicché pensare come una donna del tempo, fosse in realtà una ragazzetta cresciuta guardando i programmi di Maria De Filippi; se a ciò si aggiunge la caratterizzazione sbagliata del Fantasma, ci si rende conto di come il tutto sia privo di senso, rendendo la visione oltremodo fiacca.




Ma per fortuna a salvare dalla noia ci pensa l'onnipresente ridicolo involontario. Le risate sono assicurate quando Argento decide di far muovere l'Ammazatopi ed il suo aiutante nano su di un trabiccolo da Ghostbusters dell'era steampunk del tutto fuori luogo in una pellicola che vorrebbe essere un horror romantico e che risulta ridicolo anche quanto volontariamente ironico, prova della totale mancanza di polso del regista. Ridicola è pure la comparsa di Edgar Degàs, che si aggira in qualche inquadratura per dare alla storia una blanda forma di verosomiglianza. Ancora più ridicole, le sequenze oniriche, con le visioni di un Asia Argento che vorrebbe essere angelica ma che sembra uscita dalla reclame di una rivista osè; così come ridicole sono le inquadrature in compositing, con un green screen talmente falso da far sembrare il tutto l'opera di un gruppo di cineamatori del sabato sera.



Mentre persino la tensione latita; inutile cercare di appassionarsi ai personaggi secondari, del tutto inesistenti, o alla loro dipartita; le sequenze di morte sono solo uno showcase di effetti speciali, nulla più. Tanto che persino defiinire questo pastiche di ambizioni malriposte come "horror" appare fuorviante.
E alla fine della visione non resta nulla, se non la noia e la certezza di come Argento riesca a scendere sempre più in basso man mano che gli anni aumentano. Tanto sarebbe valso ritirarsi a vita privata già all'indomani di questa cocente delusione.

mercoledì 15 marzo 2017

Elle

di Paul Verhoeven.

con: Isabelle Huppert, Laurent Lafitte, Anne Cosigny, Charles Berling, Virginie Efira, Judith Magre.

Francia, Germania, Belgio 2016


















Corpi che si dimenano come fossero oggetti dotati di una vita ulteriore rispetto a quella di coloro che li abitano, membra che si fanno metallo o scompaiono solo per rinascere più forti, pulsioni sessuali talmente vive da farsi violenza, arti smembrati nel giro di pochissimi fotogrammi. Paul Verhoeven è sempre stato un regista estremo. Estremo nella messa in scena, nella quale non ha mai lesinato dettagli e sequenze raccapriccianti sino al parossistico (il mutante di "RoboCop" o la violenza oltre le righe di "Atto di Forza"); estremo nelle storie e nei personaggi, dove i corpi dei protagonisti sono sempre il centro nevralgico della narrazione, pronti a trasformarsi, distruggere o distruggersi o stimolare evoluzioni forzate, sino a farsi vero e proprio strumento manipolativo. Si pensi al metallo di "RoboCop" (1987), dove la carne resuscita come arma in grado di spappolare il prossimo, al corpo sensuale ed irresistibile di Sharon Stone in "Basic Istinct" (1992), a quello virginale ma non meno caldo di Jennifer-Jason Leigh in "L'Amore e il Sangue" (1985) o a quello maturo di Carice Van Hauten in "Black Book" (2006), corpi che si fanno armi per la sopravvivenza, votati alla sopraffazione di un avversario o una vittima.
"Elle" arriva invece nel 2016, in un periodo in cui Verhoeven è ormai stato nuovamente assimilato alla cultura europea. Il sistema hollywoodiano che lo aveva fagocitato con gioia e poi risputato via in appena dieci anni, è ormai lontano. Ma la sua voglia di scandalizzare e sradicare piccole grandi ipocrisie, a 79 anni è più viva che mai.



Scandalo che poggia tutto sul volto e sul corpo di Michéle, la quale non può essere altri se non Isabelle Huppert; lei, che già ne "La Pianista" (2001) aveva usato quel volto e quel corpo, più giovani ed altrettanto attraenti, per dar vita al masochismo innato in un personaggio schiacciato dalla repressione sessuale. Michéle, d'altro canto, vive le proprie pulsioni schiacciate dal quella mediocrità borghese che molta società europea conosce.
Una mediocrità che si aggira per i quartieri residenziali di lusso, cena in ristoranti raffinati, guadagna bene in software house dove la violenza e la sessualità vengono processate mediante i pixel, diventando puro divertissement.
Violenza sessuale pronta ad esplodere sempre. Verhoeven decide di aprire il film proprio con questa violenza, ma senza insisterci: come un Haneke meno rigoroso, apre le danze quando questa si è già consumata fuori scena, permettendo allo spettatore di assistervi solo per il tramite dei rapidi flashback successivi.
Lo "scandalo" non esplode: la violenza viene somatizzata, rielaborata solo in sogno. La confessione di quanto subito è solo sussurrata e subito rimossa dalla coscienza collettiva.



Questo perché tra le piaghe dei finti sorrisi e dei rapporti amicali, nessuno dei personaggi chiamati in causa è davvero innocente, tutti sono coinvolti nel gioco del tradimento. Michéle continua a frequentare l'ex marito, il quale ha un'amante ventenne; il loro figlio convive con una giovane ragazza dalla quale ha un figlio di fatto non suo, ma che si ostina a considerare tale perché alla disperata ricerca di una forma di stabilità. La sua migliore amica è la moglie del suo attuale amante e a sua volta oggetto di desiderio saffico. Non c'è, in questo girotondo di amori e tradimenti, nessuna innocenza. Ognuno perora le proprie pulsioni in modo quasi animalesco, lasciando che sia solo la patina della serietà a differenziarli da quel "pervertito" che sembra terrorizzare il quartiere. Ed è proprio nel rapporto con l'assalitore che Verhoeven lancia il suo affondo più feroce, in un colpo a dir poco magistrale.



Perché dal confronto con il resto del cast, è proprio lui ad essere la figura più genuina, che nella violenza esplicita dà a Michéle ciò che lei desidera. Il desiderio, erotico e violento, non viene più confinato nello spazio virtuale del videogame, né in quello ipocrita del tradimento, trovando pura e piena realizzazione. Lo spirito masochista della middle class viene perfettamente soddisfatto, sopratutto quando l'identità del fautore viene allo scoperto.
E Verhoeven, ancora più magistralmente, non calca la mano, non esaspera i toni in cerca di uno scandalo esasperante, ma lascia che siano le sole immagini, secche e crude, a parlare, a scardinare quel velo di apatia che ammanta le vite dei suoi protagonisti.
Sino a cadere del tutto: le vestigia della normalità, abbellite con il ricorso ad una fede religiosa di sola facciata, si sgretolano pian piano, laddove possibile. Messi dinanzi a loro stessi, i personaggi si accettano per quello che sono e possono tornare a compiacersi in un lussureggiante girotondo che pare non avere fine. Con la differenza fondamentale di aver capito la loro mediocre, fragile ed egoistica natura.

lunedì 13 marzo 2017

Un giorno alle corse, ovvero Death Race dal 2000 al 2050, passando per quella inutile versione b/n


Da qualche tempo a questa parte non faccio che pensare a quando ero ragazzo.

Sarà colpa della moda vintage, che mò tocca agli anni '90 e tutte le ragazze hanno ripreso ad indossare quei pantaloni a vita alta che fanno un culo che hai voglia di affondarci la faccia tutti i ragazzi sono tornati ad usare camicie a quadri e t-shirt ma se gli chiami hipster si incazzano.

Ma quando non era ancora fico portare quella roba da mercato rionale da due soldi, perlappunto IO C'ERO:


"Back in the 90's I was the star of a very famous tv show generic grunge band"


E gli anni '90 erano tempi semplici. Ci piacevano cose semplici. Tipo i suicidi di massa, l'isteria da fine millennio, i complotti, X files e Twin Peaks, la pornografia risicata in edicola o tramite modem che i 56k erano fantascienza che manco William Gibson e sopratutto ci piaceva la violenza.

Ma quanto ci piaceva la violenza.

Che oggi voialtri deboscia siete cresciuti a pane e finocchi in costume al massimo sopportate un rivoletto di sangue sul labbro inferiore del supereroe o della sua bella.

Ma negli anni '90 erano ancora gli anni '80, quindi quando uno studio di Hollywood in cerca di soldi facili spendeva 100 milioni di paperdollari, il film DOVEVA essere vietato ai minori, sennò non era divertente.

Vi faccio un esempio: il primo film degli anni '90 era Atto di Forza (più o meno) dove la scena più famosa (più o meno anche qui) era quella dove Schwarzocoso piglia un passante e lo usa come scudo umano, così, tanto per.

Tempi migliori

Voglio dire: ma ve lo immaginate oggi un eroe di Hollywood che per fuggire dai colpi dei cattivi piglia il primo stronzo che passa e lo trasforma in un groviera?

Ve lo immaginate, per esempio, Will Smith in Suicide Squad che usa sua figlia come scudo umano per ammazzare Batman e poi da pure due colpi ad Harley Quinn?

No?

No.

Che lo so che ora Deadpool e Wolverine hanno cominciato a far capire che si, anche un supertizio può sventrare la gente, però non è la stessa cosa.

All'epoca si poteva fare perché ai produttori fregava un cazzo ed i registi si eccitavano così.

Tipo, andate a cercare cosa pensa Veroheven (o come cavolo si scrive) della violenza nei suoi film e poi andatevi a confessare.

Ma io, personalmente e nel mio piccolo, mi eccitavo pure con altro.

Chè lo so che non sembra, ma sono un patito di motori.

cioè è il luogo comune che tutti i terroni smanettano i motori, che si scannano all'ITS per chi ha la marmitta più rumorosa e che poi ci piazzano pure i chiodi per fare più casino.

E il bello è che vero.

Come terrone amo i motori e tutto quello che li circonda.

Cioè la figa.


Le passioni di una vita


Ché a sedici anni ti frega un cazzo della scuola, del futuro e di tutto il resto.

Quello che conta sono il motorino prima, il pandino truccato dopo. E poi via a sgommare davanti alle compagne di scuola che la mattina ti guardano come se fossi una cacca di cane appena sfornata ma appena scoprono che c'hai il mezzo motorizzato si sciolgono e te la tirano in faccia.

Ma questa è un altra storia...

Perché negli anni '90 la fame di motori e sangue cercavamo di soddisfarla anche in altri modi.

Metti per esempio che c'hai paura che la pula ti becca in città senza patente, ma tu vuoi lo stesso fare slalom tra i pedoni, come fai?

In questo, cari amici, le nostre due generazioni hanno qualcosa in comune.

Perché anche all'epoca bastava affossarsi davanti ai videogames.

E anche all'epoca di videogames ultraviolenti, diseducativi e fuoriusciti dalla mente malata di un programmatore nordeuropeo represso c'è ne stavano già parecchi.

Ma il mio preferito era


#nostalgiacanaglia

Che quella scritta "Solo sul tuo PC MAI sulla strada" ha lavato più coscienze delle foto con gli immigrati appena sbarcati a Lampedusa.

Anyway.

E' inutile che me lo dite, lo so che Carmageddon così come Mortal Kombat è un gioco che ancora oggi ci giocate.

Solo che non come Mortal Kombat non è un gioco che ancora oggi ci giocate.

Perché tutte le robe con la scritta Carmageddon uscite dopo il secondo (che si chiama Carpocalypse Now e ora voglio un premio per chi ha inventato sto nome) fanno quasi tutte mediamente cagare.

Ma la prima volta non si scorda mai. E la prima volta con Max Damage è una roba incredibile.


Perdere la verginità


Chè oggi della viulenza nei videogiochi non frega un cazzo a nessuno.

Voglio dire: nessun telegiornale ha indetto una crociata perché in The Witcher ti puoi ingroppare le vampire. Nessuno psicologo ha lanciato l'allarme gioventù perché in Fallout puoi fare a pezzi qualsiasi cosa si muova. Nessuna mamma scassacazzo ha reclamato la testa dei Rockstar per GTA.

In pratica: oggi il sesso e la violenza fanno scandalo al cinema, ma sono pane e burro nei videogiochi.

All'epoca era il contrario: Schwarzy poteva massacrare chiunque e restava l'idolo dei buoni padri di famiglia, Max Damage metteva sotto un passante e diventava lo dimonio fatto codice binario.

Si bambini, l'ipocrisia è sempre esistita.

Ma da ragazzo mi importava una sega di sté cazzate e Carmageddon mi divertiva.


Nostalgia dei tiepidi pomeriggi autunnali


E perché divertiva?

Per lo stesso motivo che oggi vi divertite a fare le rapine in GTA o a scannarvi a Call of Duty bestemmiando le zone erogene di madri e sorelle, cioè potevate fare tutto quello che nella realtà vi avrebbe ammazzato o fatto ammazzare.

Ed era un orgasmo continuo e un pò colpevole, un pò come quando sgamavano i giornaletti osè e avevamo paura di essere pigliati con le mani in pasta.

E ora che lo guardo bene, il tizio che mette la faccia a Max Damage somiglia pure un pò al pelato di Brazzers, saranno stati i suoi early days.

Ma il divertimento non era solo fare a brandelli i poveri "zombi" che vi capitavano a tiro (si, volevano farci credere che fosse comparse di The Walking Dead, ma anche da ragazzini avevamo molto più sale in zucca di quanto sembrasse), ma anche fare a pezzi le auto nemiche.

Che si, vincere la corsa era bello, anche perché il sistema fisico era fatto da Dio.

Ma vuoi mettere a schiantarti contro un'altra auto corazzata a 180 km/h?


Low-Res Orgasm


Che poi ogni volta che mettevi sotto qualcuno o sfasciavi un avversario, c'era il sorriso sadico di Max Damage.

O quello arrapato della sua versione femminile DieAnna.

Che DieAnna per un periodo fu il mio tipo ideale di ragazza: bella, pazza, sadica e viulenta. Poi siccome il suo nome ricordava quello di Lady D la censurarono. Bastardi.

Anyway2

Carmageddon era una figata astrale e per un patito di film violenti, figa e motori lo era ancora di più. E ai tempi pensavo: ma sai che figata se facessero un film su Carmageddon?

Magari low budget.

Un B movie pieno di violenza, esplosioni, bolidi e tette.

E per Natale il mio desiderio fu esaudito: scoprì che il film era stato fatto... oltre 20 anni prima.


Grazie Babbo Natale!

Chè i gonzi della Stainless Games non avevano avuto un'idea loro quando hanno deciso di fare un gioco di corse con la gente pazza che fa stragi. Avevano semplicemente visto un film del '75 e lo avevano trasformato in un gioco.

E quel film si chiamava Anno 2000: la corsa della morte, in originale Death Race 2000 che fa più fico, lo so ed è per questo che lo chiameremo così.

Ora so cosa state pensando: negli anni '90 erano tutti un pò pazzi, quindi era facile trovare qualcuno che producesse un gioco di corse ultraviolente, ma chi era quel pazzo che 20 anni prima ci aveva fatto un film?

Semplice, un altro mio mito di infanzia:


Roger Corman



Chè se Lloyd Kaufman è il nonno che tutti vorremmo, Corman lo è ancora di più.

Ma a differenza di Kaufman, Corman non sembra un vecchio pervertito pronto a mettere la mano sotto la gonna della nipote quattordicenne.

Corman ha l'aria di un professore di diritto privato, i modi di un gentleman british. Ha anche gusti cinematografici raffinati, perché adora il cinema d'autore europeo.

E' un produttore che oggi ha tipo 60 anni di carriera alle spalle e con la sua casa di produzione, la New World Pictures, ha prodotto oltre 400 film, una roba da far spavento.

E il bello è che sono tutti, rigorosamente exploitation.

Perché sotto la patina da buon intellettuale, ha un cuore rock.

Non vi basta?

Nel 2010 ha vinto l'Oscar alla carriera, cioè persino quei cazzoni drogati di politicamente corretto dell'accademy lo amano.


"Datemi sto cazzo di Oscar!"



Non vi basta ancora?

Ha portato alla ribalta gente come Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Joe Dante, Jonathan Demme e Sylvester Stallone.

Non vi basta ancora ancora?

Tra gli anni '60 e '70 reinvestiva i guadagni dei suoi film di serie B distribuendo in America i filmazzi di Truffaut, Fellini, Godard e Bergman.

Cioè, voi vi immaginate la gente che va al drive-in per toccare le tette alla morosa e scopre che fanno un double-bill con Death Race 2000 e Amarcord?

E vi immaginate l'emozione di leggere su schermo na roba tipo Roger Corman presents Federico Fellini's Amarcord? E l'orgasmo che segue???

Anche perché, cari bambini, il pubblico dei drive-in andava pure a vedere i film di Fellini e Bergman, non come quei bacati dei vostri genitori e vicini di casa, che alzano il culo per andare al cinema solo per guardare Checco Zalone che raglia battutacce contro i precari.

Ed il merito è di Corman.

E ora correte a fargli una statua.

Ché Corman è uno che il cinema lo ama, in tutte le sue forme, in tutte le sue declinazioni, in tutte le salse, i contorni ed i vini.

Sopratutto se ci sono tette ed esplosioni.

Perché si Fellini e Godard e Scorsese, ma il suo nome sarà sempre legato ai film con le poppe al vento e i morti ammazzati.

Corman ha praticamente creato la serie B americana, ha investito tutto sé stesso per quell'immaginario fatto di belle gnocche, mostri, macchine veloci, bulli, giganti alieni, guerrieri mitologici e cosce lunghe.

Insomma roba come








Che ne dite, ho ragione a dire che è un mito?

Ma Corman non è semplicemente un imprenditore, uno di quelli che vede quello che il pubblico vuole e che glielo dà.

Sa percepire cosa può andare di moda, anticiparlo e sfruttarlo a pieno.

Il suo fiuto era tale che è riuscito a scovare dal nulla e a lanciare attori del calibro di Robert De Niro e Jack Nicholson.

Era in grado di girare un intero film in due giorni (!!!!!), altro che Inarritu che se ne va nel buco del culo della Terra del Fuoco e a stento ne esce.

Ha dato talmente tanta dignità alla serie B che a partire dagli anni '70 girare film indipendenti con due soldi, una cacciotta e attrici ignude non era più una vergogna ma un modo serio per esordire.

In pratica: Corman ha cambiato il volto del cinema, ha prodotto un sacco di filmazzi e si è pure arricchito un casino, usando la filosofia del low-budget.

Dove però quei quattro soldi venivano spremuti sino all'ultima goccia per creare qualcosa di divertente.

E a differenza di molti altri grandi, è rimasto sempre modesto, gentile, a portata di mano. E' rimasto sempre il buon vecchio gasato arrapone, che ancora oggi continua a fare film di serie B con tette e motori.

E non per nulla proprio qualche mese fa è uscito il seguito ufficiale di Death Race 2000, Death Race 2050, che Corman sapeva che stavano facendo Blade Runner 2049 e ha voluto fare un seguito di un altro cultone che esce prima ed è avanti di un anno.

Ma andiamo con ordine.

Che cos'ha di tanto stratosferico Carmageddon- Il Film Death Race 2000?



Le Auto?

Ok andiamo con ordine di nuovo. Partiamo prima dalla storia.

E' il futuro, cioè il 2000, che lo hanno dovuto pure scrivere nel titolo che all'epoca sembrava che non dovesse arrivare mai, ma poi si sa che 25 anni passano in 2 minuti.

Cmq. E' il futuro. Richard Nixon si è digievoluto nel Grande Fratello, quello di Orwell non quello con le troione di borgata che le escono. Gli Usa sono diventati gli oscuri supersovrani dell'Universo... aspè ma siamo sicuri che sia un film di Corman e non un documentario?



Il futuro visto con un budget di 2 dollari


Vabbeh... Siccome ci stà la dittatura del Presidentissimo Merregano, per istupidire le masse e tenerne a bada il basso ventre, viene creato questo simpatico ed innocuo sport nazionale, la Transcontinentale Assassina, dove 5 piloti a bordo di auto truccate ed armate si sfidano guidando da New York a Nuova Los Angeles cercando di ammazzarsi, vincere la gara e totalizzare più punti possibile investendo i poveri stronzi che trovano sul tragitto.

E già qui mi posso fermare perché l'indice di ganzismo è over 9000.

Ma è anche bene notare qualcosa di meno erettivo. Cioè la storia di base è simile a quella di un altro bel cultazzo della fantascienza distopica:




Esatto. Che è uscito lo stesso anno. Solo che non è un B-Movie, ma una produzione seria,

Ma siccome il nostro padrone di casa squamoso è più adatto di me per fare un'analisi seria (DEHEHEHEH HIHIHI HOHOHO!) della "morale" del film, cedo a lui la parola per un poquito.


"Roger Corman aveva le idee chiare: creare una commedia d'azione con una morale. Il risultato è perfettamente riuscito. La metafora su di una nazione anestetizzata da uno spettacolo televisivo che fa leva sugli aspetti più animaleschi dell'essere umano, quelli legati alla violenza, risalta potente all'interno di un registro comunque leggero. Anzi, forse risalta maggiormente grazie ai toni leggeri, che creano un'iperbole grottesca incredibilmente espressiva. 
"Death Race 2000" è exploitation, è il classico spettacolo che vuole solo divertire, ma al contempo riesce a far salire sottopelle una forma di disgusto verso la scopofilia spicciola della televisione. 
Di fatto, il sesso è quasi del tutto assente, celato tra una sequenza e l'altra e, in scena, relegato a qualche nudo neanche troppo insistito, caso raro nei film di Corman. Perché in questo mondo, la violenza è il nuovo sesso: una nuova via per incanalare le energie delle masse sottomesse da un dittatore che è la quint'essenza degli incubi del secondo novecento. E proprio come nel film di Jewson, anche qui è il campione nazionale, il simbolo di questo sport, colui che meglio ne capisce la portata distruttiva e che di conseguenza può davvero ribellarsi all'establishment, riuscendo a fare la differenza."


Esatto.

Mi permetto solo di aggiungere che se non avete ancora visto Rollerball, correte a farlo. L'originale, mi raccomando, che il remake con Jean Reno, il tizio di American Pie e Mystica è una merda, tanto per cambiare.

Anyway3

C'è la fantascienza anni '70 che ci piace assai. 

E l'exploitation?

Eheheh è qui che entro in giuoco io.

E' una produzione di Corman, quindi è normale che ci siano donne bellissime. E infatti questi piloti stile Nuvolari dello splatter c'hanno tutti un navigatore gnocca che gli aiuta a tenere dritta la leva del cambio a trovare il percorso migliore e ad arrotare meglio i pedoni.


"Non ridere. Non è una leva grande, ma una grande leva!"


Ed ora lo so cosa voi femminaziste state pensando "Corman bastardo, oggettivizzi le donne per fare i quattrini, uomo maschilista attento che le streghe sono tornate!".

Al che Corman vi stupisce, ché da buon progressista che è ci ha pure messo 2 piloti su 5 donne ed uno diversamente etero (quello ritratto lassù, che in italiano si chiama Cesare ma in inglese Nero the Hero). 

E le donne sono corredate di navigatore manzo, perché è giusto che si divertino tutti.


FemmiNazi Corman Style

Una è Grimilda la Valchiria (in originale Matilda the Hun, poi non mi venite a non dire che una volta in Italia facevamo adattamenti migliori dei copioni originali), figlia della Cermania Terzo Reich che Fenera santo Hitler e vuole Timostrare superiorità ti razza tetesken.

L'altra è il mio amore, Calamity Jane:

Provate a resisterle

che cavalca una macchina toro ed è interpretata dalla bellissima Mary Woronov, che viene della factory di Andy Warhol, una tizia talmente gnocca che riesce a conquistare con lo sguardo.

E siccome siamo in un film di Corman, le due pilote gnocche si tengono sull'utero e cercano di scannarsi in pista, mentre fuori pista


Cat Fight <3 <3 <3

Yeah questa è la sostanza di cui sono fatti i sogni.

Mentre tra gli altri piloti abbiamo il cattivo, niente meno che Sylvester Stallone, che all'epoca era talmente giovane che ancora non parlava con la voce di Ferruccio Amendola e non aveva fatto Rocky ma aveva già fatto quello che si dice è un porno ma che invece porno non è, chiamato Lo Stallone Italiano in Italia, 

Che qui in pratica sta al suo primo ruolo decente dopo aver fatto la comparsa per Woody Allen.

E Corman che gli fa fare? Il perfetto esempio di eroe di origine italiana, ossia il gangster di Chicago, che c'ha pure un nome superbello, ossia Mitraglia Joe Viterbo


"Aoooooooooooò! avete rotto li cojoni!"

Che Mitraglia Joe è un tipo tranquillo, vuole vincere la corsa spiaccicando più gente possibile e si diverte a picchiare la sua navigatrice, in pratica il perfetto italiano, vai Sly!!!!


Anche lui con una sobria auto a tema

Ma sotto sotto è un bonaccione.

Cioè no, manco per sbaglio, ma fa il gradasso perché tiene sugli zebedei il campione dei campioni, l'unico tizio che è sopravvissuto ad un godzillione di corse, il nostro protagonista, Frankenstein, che c'ha la fazza della buon'anima di David Carradine sotto strati e strati di pelle e zip.

Ora, Carradine all'epoca non era ancora la superstar dei film che vanno dalla serie B alla Z. Infatti di lì a qualche anno avrebbe addirittura recitato per Ingmar Bergman. E Corman infatti gli ha dato tipo 1/5 del budget e il 10% degli introiti per averlo. E lui tira fuori una performance ottima.

In pratica Frankestein è il guerriero della strada prima de Il Guerriero della Strada. E' un campione che parla come un vecchio pistolero, laconico e fascinoso. Ed anche incazzato e ribelle.

American Mad Max

Che in pratica siccome in ogni gara ha perso un pezzo lo hanno dovuto ricostruire ogni volta e per questo si chiama come il mostro. 

E guida questa macchina qui



Che oltre ad essere super bad ass e talmente kitsch che fa il giro e diventa bella, è anche tipo la prima macchina del primo Carmageddon, solo che verde, per fare la gioia del nostro rettiliano leghista preferito. 

E lui è talmente un figo che le ragazzine si fanno arrotare da lui come se la macchina fosse il pene del 2000 e loro le vergini sacrificali, come ai tempi di Twilight... ah Roger, ma quanto sei avanti!

Solo che poi si scopre che non è vero, che in realtà Frankestein è una maschera creata dal sistema per avere un campione da dare alle folle, che ogni volta muore e viene sostituito da uno nuovo.

Solo che a sto giro hanno beccato Carradine Incazzato che vuole sovvertire il sistema.

Cum summo gaudio per la navigatrice

Perché questo Mad Max che veste di pelle ancora più sadomaso, lo ripeto, è un ribelle, laconico, dannato, un Pistolero Solitario che tiene sul cazzo UberNixon e lo vuole stempiare. E i ribelli vogliono stempiare lui, perché è il simbolo del sistema, figa!

Solo che i ribelli, da buoni comunisti del sabato, non servono a un cazzo, nonostante siano guidati dalla nonna che vorremmo, ossia Abrahmina Lincoln (fottuti geni) che porta avanti la rivoluzione in nome di Cassius Clay.

Solo che siccome i giornalisti stronzi non li vogliono neanche dare spazio neanchefossero il Moviemento 5 Stelle, dicono che i loro attentati sono opera dei Francesi. Che si sa che alla fine è sempre colpa di quei puzzoni mangia-baguette.

E che tanto alla fine è Frankestain che arrota il presidente e che diventa il nuovo presidente, sopprime la Transcontinentale, arrota pure il giornalista scassapalle stile Barbara D'Urso col pene e vissero per sempre felici e contenti.... ma perché cazzo non ce lo abbiamo in Italia?!?!?!?!?!?



Altro che il presidente operaio di sta fava


Che poi vabbeh, Paul Bartel come regista non è George Miller e le sue scene di inseguimento non sono nulla di memorabile, ma alla fine della corsa si esce divertiti.

Ora abbiamo capito che in Death Race 2000 ci sono le tette e le macchine, ma la viuleeenza? Come è resa?!?!?!?

E qui ci sono da puntualizzare due cose.

Primo. La violenza è splatter. 

Parecchio splatter. 

ché negli anni '70 lo splatter piaceva, ma fuori dai film dell'orrore non era tanto usato. Death Race 2000 ha invece un tasso splatter simile ai film della Troma, ma 10 anni prima e con effetti fatti un pò meglio.

Bartel non ci insiste più di tanto, ma se cercate teste spappolate e tizi impalati dai fregi assassini sui cofani, qui ci stanno per la vostra contentezza.



For Your Consideration

Ma la violenza non è cattiva. Cioè, si la cattiveria c'è. Ma tutto è talmente sopra le righe che sembra un cartone animato.

Per farvi capire: c'è la scena dove ---SPOILER--- i ribelli che non sono francesi fanno precipitare Grimilda la FemmiNazi in un burrone e per farlo usano un cartonato a forma di tunnel come nei cartoni animati.

Oppure quando Mitraglia Joe incrocia un pescatore che lo scambia per Frankestein e decide che c'ha le palle girate pure troppo, lo mette sotto e partono effetti sonori stile Tom & Jerry.

La violenza è cartoonesca, usata per divertire e colorata in modo da non essere di cattivo gusto. 

Ancora come la Troma, ma prima e meglio.

Per questo, nonostante sia un film dove lo spettatore è chiamato a divertirsi guardando un gruppo di maniaci che si eccitano investendo poveri stronzi, non ci si sente sporchi. 

Non c'è mai vero cattivo gusto, è come vedere le Wacky Races con attori dal vivo. Al che io grido "Miracolo!" e dovreste pure voi.

Raro storyboard di una scena del film


La morale della favola è che Death Race 2000 è un bel filmazzo e che fareste bene a recuperarlo, guardarlo, amarlo, poi magari riprendere in mano il joystick e giocarvi un qualsiasi Carmageddon, anche uno dei più brutti, così, per celebrare forme di divertimento un pò decerebrate, ma innocue.

E sopratutto fatte con tanto amore.



INTERMEZZO

Che dopo che è uscito, Death Race 2000 è diventato tipo il film preferito di un sacco di gente.

E cosa succede quando un film degli anni '70 viene adorato da tanta gente, ci fanno pure i videogames che lo omaggiano e tutti quelli che ci hanno perso parte, compreso Stallone che inizialmente se ne vergognava, ne parlano bene?

Esatto bambini, i superstudios di Hollywood, quelli che c'hanno i ca$h ci fanno un remake senz'anima




Che uno nel 2007, quando questa "cosa" è stata annunciata magari pensava "vabbeh dai, sicuramente non ci metteranno i pedoni schiantati, però un pò di satira politica alla buona e scene d'azione decenti si, dai. E c'è pure il nostro british stempiato preferito, vai Jason, vai!"

E invece no, perché alla regia ci hanno messo un tizio che da quando ha annusato la fica non capisce più un cazzo, ossia Paul W.S. Anderson.

Che di Anderson di talento ci stavano già Wes e Paul Thomas, in tre erano troppi e lui che pure qualcosa di carino nei nostri mitici anni '90 lo aveva fatto, decide di mandare all'aria tutto con quelle cagate tratte da Resident Evil che l'unica cosa buona è la vagina della Jovovich. E infatti se l'è sposata.

"Signor Anderson, per questa foto vorrei che facesse un'espressione intelligente"

E da quando se l'è sposata, non ne ha azzeccata una.

Perché Anderson deve fare il remake di Death Race, un film che poi è diventato un videogioco di culto delle masse di noi deboscia di 20 anni fa.

E che fa? Fa praticamente un film che è un videogioco.

Solo che siccome è un ignorante anche del joystick oltre che della macchina da presa, fa un film che è praticamente l'adattamento di Mario Kart.

Perché in questo Death Race ci sono i piloti che per poter usare le armi devono passare sui bottoni giganti che le attivano.

No, sul serio, di che cazzo stiamo parlando?!?!?!


Mario Kart- The Movie

E Frankestein?

Nulla, nella prima scena c'è tipo uno stuntman che parla con la voce di David Carradine, che metterci David Carradine per davvero pareva brutto, no? Cmq questa controfigura muore male e la maschera viene passata a Jason Statham, che diventa il nuovo ipercampione.

Che è un ribelle, giusto?

Sort of.



Lo sguardo intenso di chi non crede più nel sistema

Che all'inizio Statham è tipo un working class man che lo licenziano, arriva la madama e vuole picchiare tutti gli operai, ma lui è un eroe proletario e apre il culo a quei fasci di merda. Poi torna a casa e siccome è pure un bravo padre di famiglia, bacia la moglie e la figlioletta. Solo che poi, boh, arriva un tizio che gliele ammazza e fa ricadere la colpa su di lui perché si e il nostro finisce in galera.

Perché ora la death race è fra detenuti ed è parte di una specie di programma sperimentale fatto da un direttore donna senza scrupoli al fine di.... boh, chi cazzo ci capisce qualcosa, che qui i metaforoni sulla pay per view sono usati solo per darsi un tono. 

Ché Corman era un vero anticonformista, come abbiamo visto. Paul W.S. Anderson è solo un ragazzo agitato nel corpo di un adulto privo di talento.

Che per farci gradire spreca pure il talento di due attori come Ian McShane e Joan Allen, in ruoli ridicoli, che forse loro si vergognano pure di averci preso parte solo per motivi alimentari.


"Continua a ripeterti: lo stai facendo per il mutuo"

Che uno pensa, ma perché sono finiti a fare le Wacky Races della morte in galera? Per avere una scusa per non arrotare i pedoni?

Anche. Ma il vero motivo è pure più vergognoso.

Che dice che inizialmente doveva essere un remake vero e proprio, con la transcontinentale da New York a L.A.

Solo che poi si sono accorti che sarebbe costato troppo (???) e quindi per risparmiare hanno deciso di girare il tutto tra le scenografie raccattate allo scasso comunale.

Cioè, hai un budget di 45 milioni di dollari e non riesce a fare una cosa che Corman la faceva con 300 mila oltre 30 anni prima?

Ma che razza di inetti hanno prodotto sto film? E sopratutto perché non si sono ancora suicidati?


E niente auto-rettile o tutina sadomaso, che c'è crisi


Il reparto gnocca?

Tolta la Allen, che magari qualcuno col complesso della imprenditrice dominatrix può apprezzare, ci sarebbe lei

Natalie Martinez <3

Solo che questo non è un film di Corman, ma di un gruppo di bigotti incapaci, quindi non le esce e per quanto sbatta in faccia il decoltè in ogni inquadratura, no, non si possono vedere, che sarebbe di cattivo gusto.

E siccome non è la Jovovich, ad Anderson non frega un cazzo e l'unica volta che decide di darle spazio e farla risultare davvero sensuale, dirige la scena come lo spot di un'auto. Stay classy, mi raccomando.

A proposito di auto: che fine hanno fatto i bolidi kitsch?

Rottamati, che qua le auto sembrano uscite da un clone di Mad Max da due soldi

Ma i colori? Uscite almeno quelli!

Eh già, niente forme stravaganti e niente colori, che qui si fa il cinema serio, mica l'exploitation cartoonesco di Corman, quindi deve essere tutto dark e gritty e se ti diverti sei un coglione.

Siccome Anderson non ha personalità, gira tutto con il pilota automatico e senza navigatrice. Quindi le scene d'azione (che ricordiamolo, c'hanno 45 milioni di budget) sono robetta, a parte quella del tir corazzato, quella si che è ganza.

E sopratutto, siccome Anderson non ha davvero personalità, ci mette tutti gli zoom e il montaggio a cazzo di cane alla Michael Bay che può, giusto per romperci meglio l'anima e farci venire il giramento di testa oltre che di palle.

Ora so cosa state pensando, bimbi miei: "Ma no, dai Zio! Ma se lo prendi a sè, sto Death Race non è male!".

E avete pure ragione, che Paul W.(hat a) S.(hit) Anderson ha fatto moooooolto di peggio (mi senti, Resident Evil Afterlife? Un giorno verrò a prenderti!).

Ma non posso far finta che non sia il remake di un cultone, di un film che con due soldi sciorina tanta di quella roba, tante di quelle idee e tanta di quella classe che levati.

E il bello è che sta roba ha avuto pure successo e ci hanno fatto due sequel per il mercato dvd altrettanto indegni.

E ora vi prego ammazzatemi.


FINE INTERMEZZO


Ora, il mondo di Roger Corman era bello, divertente, colorato e sopratutto pieno di piccoli, grandi e grandissimi talenti.

Era normale che sarebbe finito con la fine degli anni '70.

[DEPRESSION MODE ON]

Perché se già quei talenti che Corman aveva incubato e cresciuto, quei Coppola, Scorsese e simili se la presero nel didietro, immaginatevi cosa accadde quando gli studios si resero conto che dando pochi soldi a registi incapaci potevano fare tanti soldi.

Ossia quando capirono che il cinema di genere tirava davvero.

E i pochi soldi dei grandi studios erano soldi che Corman si sognava. 

Perché la sua filosofia era chiara: budget ultramilionari erano inutili, oltre che eticamente sbagliati.

A suo dire, con 30 milioni di dollari si può rimettere a nuovo un quartiere disagiato di una grande città, è immorale spenderli per il divertimento delle masse. Sono parole sue. Ed è per questo che lo rispetto.

Ma alla Hollywood che conta fregava un cazzo se non fare money.

E la colpa di chi era?

Di Lucas e Spielberg, tanto per cambiare. Che avevano fatto Lo Squalo e Star Wars che, sopratutto il primo, erano praticamente la stessa cosa che faceva Corman con meno soldi e da molto più tempo.


I nonni che invece vorremmo abbandonare in autostrada


E BOOM! Magicamente i B-Movies venivano scalzati via dalle mega-produzioni.

E al nostro beniamino non resta che ripiegare sull'horror: negli anni '80 la New World Pictures diventa una delle principali case di produzione e distribuzione di B-Movies dell'orrore.

Quindi addio avventure spericolate stile Death Race 2000, The Trip, film sugli Hell's Angels, la Piccola Bottega degli orrori, Blaxploitation, mostri marini e così via.

In compenso, poi va pure peggio e Corman tutt'oggi fa film solo per Syfy con i mostri di cartapesta.

Senza perderci un soldo e mettendoci tutta la grinta, ma inutile prendersi per il culo: il periodo d'oro è finito.

Da decenni.

E ora scusatemi un attimo




Se non fosse che...

Ora, il 2016 è stato un anno a dir poco weirdo.

Grandi celebrità morte di punto in bianco, Trump che diventa presidente realizzando la profezia di Homer Simpson, gli europei di pallone con un Zazza che ha tirato tipo il rigore più ridicolo della storia dell'umanità intera e so on.

E quindi ci stava un altro colpo di scena, un qualcosa che è arrivato dalla sera alla mattina ed ha spiazzato un pò tutti.

Ossia Roger Corman si è rotto il cazzo con quel remake di merda e quei suoi seguiti ancora più di merda e ti sgancia a sorpresa la bomba: il sequel ufficiale di Death Race 2000





Che quando quei nerd senzapalle drogati di supereoi hanno visto l'anteprima al Comic-Con, hanno storto il naso, forse perché con ci stavano coglionazzi in costume.

Io invece quando ho visto il trailer ho avuto molti dubbi, ma anche erezioni multiple.

E quindi vai con la domanda da un milione di dollari: com'è questo ritorno alla serie B pura a base di tette, motori, squartamenti, scorribande e viuuulenza?

Eh... così così.

Anzi, pure bruttino.

Che il suo problema è che è un B Movie del 2017. Che oggi i B Movie non sono roba come negli anni '70 e '80, si vede che sono fatti DAVVERO con quattro soldi. E c'hanno tutti la CGI brutta. E qui ce n'è.


Il futuro visto con un budget sempre di 2 dollari, ma più merdoso


E c'ha pure il problema di essere un revival fatto quando revival vuol dire remake travestito da seguito.

Come Star Wars, guarda caso.

E finisce per essere una fotocopia bruttarella del primo Death Race.

Che è comunque meglio di quella cagata di Anderson, ma mica poi tantissimo.

Fatto sta che quando ho letto su schermo "Roger Corman's Death Race 2050" ho avuto un momento di emotività che Maria De Filippi levati dalle palle.


Death Race: The Next Generation


Cmq. Cosa c'è in Death Race 2050 che vale la pena vedere?

Beh inutile dire che ci sono le tette random (ma non quelle delle protagoniste, vai a sapere perché).

E il sangue. Tanto sangue. Con gli sbudellamenti al ralenty, nel caso perdi qualche particolare con i normali 24 fps.


Dichiarazione di intenti


Ci sono i colori, grazie a Dio!

Ci sono dei personaggi simpatici. Alcuni.

C'è pure una sorta di sottotesto di satira politica un tanto al kilo. Solo che questa volta non graffia come nel '75.

Ché nel 2050, gli Americani hanno dimenticato la lezione del presidente Frankestein il Giusto un pò come gli Italiani hanno fatto con Pertini, quindi la nazione è stata conquistata dalle multinazionali.

Cioè, conquistata ancora di più.

E gli americani sono dei ciccioni buoni a nulla che passano le giornate chiusi in casa a guardare Internet con i visori e a tracannare schifezze.

Cioè ancora di più.

E c'è un nuovo presidentissimo, che ha la fazza di Malcolm McDowell (che tanto basta che lo paghi) e il ciuffo di Donald Trump, che già l'anno scorso Corman se l'era capita che sarebbe successo a novembre.


Make America ridiculous again!


Poi c'è la corsa, che in italiano si chiama "corsa della morte" anche se il film purtroppamente non l'hanno chiamato "Anno 2050- La Corsa della Morte 2", mannaggia!

E ci sono i ribelli, che questa volta non sono i comunistelli del liceo, ma un gruppo di scappati dal set di Mad Max Gay Furiosa.

E che poi si scopre che in realtà sono in combutta con il Grande Ciuffo, che Corman e soci Orwell lo hanno letto davvero, non come quei coglioni che hanno fatto Hunger Games.

Che a proposito, certi costumi parono usciti da lì e da un trip di Philip K.Dick, ma vabbè su, non sottilizziamo.

Solo che nulla, proprio non si riesce a credere allo spirito ribelle del tutto.

Forse perché G.J. Echternkamp di ribelle c'ha solo il nome e non sa far altro che fotocopiare quanto fatto da Bartel 42 anni prima e tutto pare brodo allungato.

Che alla fine Frankenstein fa pure partire una rivolta che a confronto V per Vendetta sembra un episodio dei Puffi al posto di diventare il nuovo uberpresident, ma nulla, non siamo convinti, torna a settembre.


Not so impressed

E dai che almeno i personaggi ci sono.

Cioè pure quelli non sono all'altezza del primo, che Mitraglia Joe è vero che non lo eguagli mai, ma almeno nel loro piccolo sono simpatici, a differenza di quelli del remake (si, non dimentico. Chi dimentica è complice!)

A partire dalle donne, che a stò giro sono 3 su 5. Con Tammy, una tizia che in pratica è quello che succede quando Harley Quinn decide di diventare una predicatrice zozzona



 E che siccome è coerente con le sue convinzioni, si accoppia con il suo manzo così




Che una cosa del genere nel cinema mainstream te la continui a sognare.

Poi c'è Minerva, la tizia niggaz from da hood popstar black power trinciapalle di turno



solo che poi si scopre che legge Pascal e che lo stile truzzo road road kill kill è solo facciata.

Si bambini: è un personaggio che ha una profondità, a modo suo. Che nel cinema americano commerciale è una cosa ancora più rara delle tette e della violenza.

Al posto di Mitraglia Joe abbiamo sto tizio qua




culturista geneticamente modificato e sessualmente ambiguo, quindi pure un pò Cesare.

Solo che no, mi spiace, come cattivo non vali una fava. Prossimo!

Ci sta pure la macchina con l'intelligenza artificiale, A.B.E., progettata dalla navigatrice porca che mentre stira i passanti usa il sedile come vibratore per farmi innamorare


Altro che il GPS con DVD incorporato

E poi c'è Frankestein, che a sto giro è un duro disilluso sotto sotto tenerone e c'ha la fazza da scaricatore di porto di Manu Bennett, uno che è diventato famoso per fare il gladiatore in Spartacus 300 style e Kratos ne Lo Hobbit, che io apprezzerò sempre per aver fatto Deathstroke, quello che piglia a calci in culo il fighetto Oliver Queen ristabilendo la gerarchia della badassitudine su schermo


"Stupido Arrow, mò ti faccio vedere io chi è più duro!"


Quindi vale la pena sorbirsi un ora e mezza di brutta CGI, sceneggiatura riciclata, sequenze action tirate su alla bene e meglio e tanta delusione?

Eh no, non vale.

Però Death Race 2050 ha qualcosa che molte cagate hollywoodiane non hanno.

Ossia le palle.

Le palle di essere una roba da due soldi, dove quei due soldi fanno rima con libertà.

Le palle di scadere nella parodia per poi rialzarsi e tirare fuori qualche passaggio ispirato.

Le palle di sparare in faccia tette, culi, cosce, gnocche che si masturbano e sventramenti vari per il divertimento di chi guarda senza chiamarsi Game of Thrones o Boardwalk Empire.

Le palle di essere un film trash nel senso primitivo del termine, fatto con gli scarti di quel cinema che nessuno ha più il coraggio di fare, senza rinnegare nulla.

Le palle di essere sè stesso.


A testa alta, sempre!

Ed anche per questo Corman e soci meritano rispetto: non si sono persi, non sono scesi a compromessi con e per nessuno.

Corman continua a fare il cinema che gli piace, come gli piace.

Perché gli piace.

E per questo a noi piace.

E per questo merita il massimo rispetto.


Keep on Rockin'!