martedì 27 giugno 2017

Salvate il Soldato Ryan

Saving Private Ryan

di Steven Spielberg.

con: Tom Hanks, Matt Damon, Edward Burns, Tom Sizemore Jeremy Davies, Barry Pepper, Adam Goldberg, Vin Diesel, Giovanni Ribisi, Paul Giamatti, Ted Danson, Dennis Farina, Nathan Fillion, Bryan Cranston.

Guerra

Usa 1998












Nel libro omonimo, Tom Brokaw descrive quella che è "La Più Grande Generazione" riferendosi a quella fascia di cittadini americani che, nati tra il 1900 e il 1920, hanno combattuto la II Guerra Mondiale sconfiggendo le forze dell'Asse e poi dato vita al "Baby Boom" successivo, ossia posto le basi per rendere effettivamente gli Stati Uniti d'America tra le prime potenze mondiali.
Descrizione che definire idealizzante sarebbe eufemistico. Ma Brokaw non è semplicemente un americano orgoglioso dei propri natali e della generazione che lo ha generato, quanto un perfetto esponente di quella generazione di americani figlia della "Più Grande Generazione" cresciuta nel mito della guerra e delle gesta degli "eroi" che vi hanno preso parte. E la sua eufemistica "versione dei fatti" nel cinema è stata sconfessata sin da subito. Basti pensare alle opere di un cineasta che quella guerra e la successiva, obliata, Guerra in Corea, combattuta e persa dalla medesima generazione, le ha viste davvero, in prima persona, ossia Samuel Fuller, che con capolavori del calibro di "Corea in Fiamme" (1951) e sopratutto "Il Grande Uno Rosso" (1980) ha dato una testimonianza molto meno fantasiosa ed idealizzata, quindi molto più veritiera della generazione di soldati americani durante i conflitti bellici.
Sopratutto il paragone con "Il Grande Uno Rosso", opera nata proprio dalla sua partecipazione alle campagna dell'omonimo primo battaglione statunitense durante la II Guerra Mondiale come reporter, è illuminante per comprende meglio i pregi ed i difetti di quella che, da un ventennio a questa parte, si è imposta come la visione "definitiva" della seconda guerra mondiale: quella data da Spielberg in "Salvate il Soldato Ryan", prodotto, neanche a farla apposta, nello stesso anno in cui veniva pubblicata l'opera di Brokew.




La differenza anagrafica tra i due autori è in tal senso ovviamente essenziale. Fuller (è sempre bene sottolinearlo) era presente durante lo sbarco di Anzio e quello in Normandia. Ha conosciuto veri soldati, veri uomini e sopratutto ragazzi chiamati a combattere e morire a migliaia di chilometri da casa. Persone che venivano da un'America rurale e da famiglie conservatrici, che letteralmente non avevano mai visto il mondo esterno al loro stato natio e che per prima volta si affacciavano a culture e paesaggi con secoli di storia alle spalle (esemplare è il tal caso la scena, presente però in "Corea in Fiamme", dove il drappello di protagonisti "scopre" la statua del Buddha nel tempio ove trova riparo per la notte).
Spielberg, essendo un esponente della generazione successiva, non ha mai visto la II Guerra Mondiale se non con gli occhi dei cinegiornali, delle immagini girate, tra gli altri, da William Wyler ed Alfred Hitchcock. E di quella generazione precedente ha solo assimilato i resoconti più confacenti all'immagine di "liberatori" ed "eroi" che la propaganda bellica vendeva (la stessa che un altro "grande vecchio" avrebbe smascherato: Clint Eastwood con il capolavoro "Flags of out Fathers"). La sua è una visione viziata, idealizzata e distorta, che finisce per riverberarsi in toto sulla sua opera.




"Salvate il Soldato Ryan" è, di fatto, un a pellicola contraddittoria, sia nella forma che nella sostanza, votata da un lato a descrivere in modo vivido e viscerale l'orrore della guerra, dall'altra a creare un vero e proprio santino a quegli americani che vi hanno preso parte.
Le critiche più polemiche, per una volta, sono anche le più veritiere: davvero poco credibile è la sua descrizione di un esercito formato solo da bianchi, per lo più wasp, dove la sola minoranza etnica è rappresentata dal soldato ebreo. Non ci sono neri né ispanici nella II Guerra Mondiale secondo Spielberg, solo perfetti esponenti di quella classe piccolo borghese bianca che, chiamata per la leva, quasi non ha rimorsi. Ed infatti, anche nella descrizione psicologica dei personaggi, le contraddizioni, anche estetiche, non mancano.




A ricoprire il ruolo di protagonista troviamo Tom Hanks, il cui volto umano, benché granitico, non ha niente a che vedere con la caratterizzazione che ha il suo Capitano Miller; un ufficiale "creato con i pezzi di soldati morti", laconico, imperscrutabile, diretto ed irreprensibile. Ossia la riproposizione di quello che fu proprio il Sergente di Lee Marvin ne "Il Grande Uno Rosso"; e laddove Marvin era semplicemente perfetto per il ruolo, con la sua faccia da duro e lo sguardo fosco ma umano, Hanks non ha la fisicità né la presenza adatta per un personaggio che dovrebbe incutere timore e rispetto, finendo per tratteggiarlo come un borghesuccio, un uomo comune, quasi un impiegato comunale che guida una truppa di giovani in una missione disperata.




Ogni commento sul contenuto della missione è superfluo; tanto si è detto sul pretesto della trama del film; bene è tenere a mente come questo sia tale e basta: un mero pretesto che permette a Spielberg e soci di ritrarre in modo più vivido la guerra e dare corso alle azioni dei propri personaggi; ogni accusa di poca verosomiglianza, di eccessivo patriottismo e finanche di vera stupidità nell'assunto viene così meno. Ma non si può certo soprassedere sulla caratterizzazione dei personaggi, appunto troppo scontata e lineare.




Nessuno dei  giovani soldati ha un vero arco caratteriale; tutti tendono ad iscriversi in stereotipi che, guardacaso, richiamano ancora il capolavoro di Fuller. Fatta eccezione per il caporale Upham di Jeremy Davies, il codardo, che come il cecchino di Mark Hamill non riesce a premere il grilletto a causa della sua eccessiva umanità. Ma Upham viene descritto per tutta la durata del film come un perfetto idiota, un pesce fuor d'acqua, quasi una linea comica, ai limiti della caricatura; e la sua catarsi, il suo scoprire la voglia di uccidere il nemico, è gesto eroico, grandioso, rivalsa contro quel soldato tedesco che, graziato, si era fatto beffe di lui. Pura retorica militarista portata avanti da chi in guerra non c'è mai stata. Ben altra cosa era, di fatto, la presa di coscienza del cecchino Griff, dove l'accendersi dell'istinto omicida coincideva con una catarsi psicologicamente distruttiva, in un percorso anti-eroico totale, testimonianza di chi il grilletto lo aveva tirato per davvero e aveva visto la vita di un uomo spegnersi dinanzi ai suoi occhi.
Del tutto inverosimili sono invece le situazioni di cameratismo ed i dialoghi usati per dar vita ai rapporti tra soldati; Fuller si scagliava sovente, quando intervistato, sulle fantasiose conversazioni che spesso gli sceneggiatori imbastivano nei film di guerra; in particolare, era solito sottolineare come fosse una vera e propria "cazzata" (parole sue) il fatto che i giovani marines si lasciassero trasportare dalla nostalgia per la casa ed i genitori; nel contesto bellico esistevano solo lo scenario di guerra ed i compagni di squadra, nulla più. Portare in scena la guerra in modo vivido e livido per poi adoperare dialoghi inverosimili è una delle tante contraddizioni in cui Spielberg e lo sceneggiatore Robert Rodat cadono, forse nella vana speranza di dare più spessore ai loro personaggi.




Contraddizioni di scrittura e tra scrittura e regia che finiscono per affossare il film. Almeno per 3/4 della sua durata; perché è inutile sottolineare come il primo atto, la famosa ricostruzione del D-Day che apre la pellicola, da sola valga la visione e sia un piccolo capolavoro d'arte cinematografica.
In essa, Spielberg dimostra di aver assimilato la lezione di Elem Klimov e del suo inarrivabile capolavoro "Và e Vedi" (1985), forse la pellicola definitiva, sotto tutti i punti di vista, con a tema gli orrori della II Guerra Mondiale. La forza delle immagini è ancora più sferzante che in "Schindler's List", la ricostruzione della logistica e degli eventi è certosina (il che rende ancora più grave e ridicolo l'errore sulle "razze" che presero parte allo sbarco), la violenza cruda, mai compiaciuta, persino nelle esagerazioni più ovvie (la visione del soldato mutilato che imbraccia l'arto perduto e va via o anche la scena del "servizio logistico").



Spielberg ha un'intuizione geniale e la sfrutta a piene mani: come nelle scene di guerra de "Il Dr. Stranamore" (1964), costruisce tutte le scene della sequenza con camera a mano, salvo qualche raro inserto di camera fissa nelle establishing shot; con pellicola 16mm gonfiata in post-produzione a 35 ed otturatore veloce per aumentare il senso del ritmo, dà vita alla guerra con piglio documentaristico, permettendo un'immersione totale da parte dello spettatore durante la visione, avvalorata dal fatto che nessuno dei personaggi sia stato introdotto (eccezion fatta ovviamente per il riconoscibilissimo Tom Hanks); le soggettive con camera a mano finiscono per far sembrare lo spettatore effettivamente partecipe agli eventi, annullando quasi del tutto la separazione con la materia narrata data dallo schermo (la visione al cinema in tal senso è impareggiabile, rimanendo ineguagliata anche a fronte dei più moderni sistemi di Home-Theater).




Purtroppo, la restante pellicola è pregna dei difetti di vista di un autore che ha idealizzato la materia di cui narra, che non riesce ad essere obiettivo pur ricercando l'oggettività nella messa in scena; che finisce per essere ridicolo quando dà fondo al patriottismo (la bandiera americana che svolazza in apertura e chiusura) e che si trincera in una retorica sul cameratismo dal fiato cortissimo.
Quel che è peggio, da qui in poi Spielberg, a causa del successo ottenuto e del forte consenso della critica, si autoproclamerà come suprema autorità sul Nazismo e la II Guerra Mondiale, apparirà in pubblico perennemente addobbato con giubbotto e berretto da aviatore e continuerà a declinare il suo scialbo punto di vista sia al cinema che in televisione. Pur essendo l'indiscusso Re Mida ed Imperatore di Hollywood, un pò di modestia gli farebbe comodo; sopratutto in ricordo di quella generazione che ha davvero combattuto quelle guerre e spesso non ne ha fatto un vanto con nessuno. O, anche meglio, per rispetto dei suoi coetanei, che hanno pur combattuto una "Sporca Guerra" ma non hanno trovato forma di idealizzazione alcuna da parte di nessuno.


EXTRA

A dir poco enorme è stata l'influenza che "Salvate il Soldato Ryan" ha esercitato sul cinema di guerra; in particolare, è da questo momento che ogni sequenza bellica su schermo comincia ad essere ripresa con camera a mano ed otturare semichiuso, per cercare di ricreare il look del film di Spielberg e dare un tocco di realismo alla visione. Tra gli epigoni meglio riusciti, va citato almeno "Brothers of War- Sotto due Bandiere" (2004) di Je-Kyu Kang, che riprende il piglio documentarista spielberghiano per portare in scena il sanguinoso conflitto che ha spaccato in due la penisola coreana.




Ma al di là del cinema, è in televisione che il seme piantato da Spielberg e soci trova un primo frutto: "Band of Brothers", miniserie della HBO prodotta da Spielberg e Tom Hanks nel 2001, è a tutti gli effetti una sorta di prequel al film. Dove tutti i difetti vengono gonfiati ed i pregi spazzati via: la retorica militarista, il cameratismo da quattro soldi ed un patriottismo a tratti insostenibilmente ridicolo appesantiscono una visione già di per sé idealizzata degli eventi che preludono al D-Day ricostruiti nel libro "Band of Brothers: E Company, 506th Regiment, 101st Airborne from Normandy to Hitler's Eagle's Nest" di Stephen Ambrose, da cui la serie trae spunto.




Decisamente più riuscita è "The Pacific", miniserie del 2010 e sua ideale continuazione, anch'essa prodotta da Spielberg e Tom Hanks (che appare anche nelle vesti del narratore degli episodi); lo scenario questa volta è il fronte del Pacifico e la fonte di ispirazione è data dalle vere memorie di un gruppo di marine reduci dalla II Guerra Mondiale.




Vincitore di ben 5 premi Oscar, tra cui miglior regia e fotografia, "Salvate il Soldato Ryan" non riuscì però a conquistare la statuetta come miglior film, andata, a sorpresa e non senza polemiche, allo scialbo "Shakespeare in Love".
Ma a quella stessa edizione degli Accademy Award concorreva in molte delle stesse categorie dell'opera di Spielberg un altro film di guerra diretto da un altro grande autore americano. Un film che per stile e contenuti è del tutto antitetico a quello del Re Mida di Hollywood ed è tranquillamente etichettabile come un vero capolavoro: "La Sottile Linea Rossa" di Malick.




Pellicola che, nonostante le pur numerose nomination, uscì "a bocca asciutta" dalla cerimonia. Forse perché tra i suoi fotogrammi non ci sono bandieroni a stelle e strisce che sventolano nel cielo....

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