mercoledì 30 agosto 2017

Minority Report

di Steven Spielberg.

con: Tom Cruise, Colin Farrell, Samantha Morton, Max Von Sydow, Neal McDonough, Jessica Capshaw, Patrick Kirkpartick, Frank Grillo, Tim Blake Nelson.

Fantascienza/Azione

Usa 2002

















---CONTIENE SPOILER---


La sinergia tra un attore ed un regista può portare davvero a decretare la riuscita di un film. Basti pensare, su tutti, al sodalizio tra John Carpenter e Kurt Russell: i personaggi del primo, anche i più ameni ed improbabili, nelle mani del secondo sono divenuti delle vere e proprie icone pop. E nei primi anni 2000, sembrava che un'altra accoppiata si sarebbe formata per dare lustro al cinema spettacolare americano, quella tra Steven Spielberg e Tom Cruise.
L' unione tra due superstar di Hollywood del genere era solo questione di tempo: il primo è l'imperatore indiscusso del box-office ed il secondo anche, oltre ad essere due nomi e due volti immediatamente riconoscibili ed amatissimi dal grande pubblico. A stupire, semmai, è la lunga tempistica che quest'incontro ha richiesto: incontratisi per la prima volta sul set di "Risky Businness" nel 1983, i due lavoreranno inseme solo una ventina di anni dopo, grazie alla produzione di "Minority Report", dove l'affinità elettiva tra i due trova pieno compimento.
Ed a stupire maggiormente è la scelta del progetto alla quale i due prendono parte: l'adattamento di uno racconto di Philip K.Dick, scrittore la cui carica acida e sovversiva cela una visione filosofica profonda, carica di dubbi esistenzialistici e religiosi; non propriamente la materia di cui sono fatti i blockbuster estivi post anni '90, insomma.
Eppure, con tutti i suoi limiti, "Minority Report" riesce ad essere un film se non proprio riuscito, almeno divertente.




Nel 2054, nello stato di Washington D.C., viene introdotta una nuova forma di polizia: la pre-crimine; mediante l'uso di tre pre-cog, mutanti dalle capacità precognitive, questa unità è in grado di prevedere l'imminente commissione di reati e sventarli prima che si consumino.
A capo dell'unità c'è John Anderton (Cruise), mentre a supervisionarla c'è l'anziano Lamarr Burgess (Max Von Sydow), vero e proprio inventore del sistema. Anderton è però reduce da una profonda crisi personale che ne ha indurito il carattere, rendendolo integerrimo. Ma persino Anderton può nulla quando, di punto in bianco, i pre-cog hanno la visione di un futuro omicidio commesso proprio da lui ai danni di uno sconosciuto.




Il racconto originale di Dick, pubblicato per la prima volta nel 1956, poneva un quesito scioccante: è davvero possibile prevenire un crimine? Se un uomo sta per commetterlo, ma viene fermato prima che lo possa davvero consumare, questi è davvero colpevole? Può, in sostanza, l'eliminazione del libero arbitrio portare ad una forma di pace sociale?
Domande alle quali Dick si accostava con umiltà, arrivando talvolta a prendere una posizione netta, affermando l'impossibilità del controllo totale da parte dell'essere umano sul flusso di eventi e, di conseguenza, sulla realtà.




Lo script orchestrato da Scott Frank per conto di Spielberg, d'altro canto, accantona ogni riferimento esistenzialista ed tutte le derivazioni politiche per concentrarsi maggiormente sul personaggio di John Anderton. Non più uno personaggio dickiano doc, un piccolo uomo quasi meschino coinvolto suo malgrado in situazioni più grandi di lui, Anderton è ora il perfetto eroe americano; incarnato nel corpo atletico di Cruise (che come sempre esegue da solo gli stunt), con il suo sorriso da fotomodello e lo sguardo vacuo, il poliziotto della pre-crimine è anche un buon padre di famiglia ferito dalla scomparsa del figlioletto. E come sempre nel cinema di Spielberg la famiglia è il nido primordiale, il valore cardine di ogni persona, tanto che all'ambiguità del finale originale, preferisce un'orrendo happy ending, con colori da spot pubblicitario ed un'ingenuità di fondo da far impallidire persino quella del finale de "I Predatori dell'Arca Perduta".
Pur tuttavia, va riconosciuto a Spielberg il merito di non aver eliminato né la tossicodipendenza del personaggio, né la tematica, tipicamente dickiana, dell'abuso di sostanza psicotrope come mezzo per aumentare la percezione del reale: anche su schermo, i pre-cog devono i loro poteri all'uso di droga da parte della defunta madre.
Meno riuscito è invece il tentativo di ripresa dello humor sarcastico che Dick spesso usava per tingere di grottesco gli eventi; Spielberg non riesce a fondere una storia seriosa con sequenze e battute sopra le righe, creando un ibrido talvolta troppo scostante.




Anderton è anche qui un uomo coinvolto in un gioco di potere più grande di lui. Il quesito alla base della (pur piatta) riflessione è se sia giusto supportare un sistema che consente l'eliminazione pressocché totale della devianza sociale pur essendo consapevoli della sua fallacia: il rapporto di minoranza del titolo altro non è che una visione minore data da uno dei tre precognitivi, che tiene conto di una linea temporale alternativa lunga la quale gli eventi possono sempre ripiegare.




Ma "Minority Report" non è tanto una pellicola hard sci-fi, né la giusta contaminazione tra generi alla "Blade Runner", quanto un film d'azione vero e proprio che ha la forma narrativa di un noir e l'estetica di un film di fantascienza. E' l'azione a farla da padrone, con i lunghi inseguimenti, i blitz della polizia, le sparatorie eseguite con armi non letali e le corse sui mag-lev. Spielberg crea così un giocattolo che intrattiene perfettamente per le sue due ore e passa di durata e che ha le vestigia di quella letteratura fantastica post-moderna che, anche quando usata come mero pretesto, riesce lo stesso a coinvolgere.




Il suo lavoro sull'estetica ha fatto, bene o male, scuola; la desaturazione dei colori porta ad usare cromatismi sempre freddi: bianchi, blu e scale di grigio divengono le uniche palette utilizzate, per creare un'atmosfera aliena, volutamente distante da tutto e tutti, che cede il passo al calore solo in quel finale stile Mulino Bianco, rendendolo ancora più tedioso; il resto del film si compone invece di immagini glaciale, spesso sgranate, per ottenere una ruvidità che le rende ancora più espressive.
La visione del futuro si rifa ai principi estetici ultramoderni, dove l'essenzialità delle forme nel design degli oggetti diviene un imperativo. Un tocco post-modernista viene poi dato dalla musica di Schubert e dalle innumerevoli citazioni che Spielberg si diverte a disseminare lungo tutto il film: i rimandi all'occhio da "Blade Runner", le dita luminose di Anderton come quelle di "E.T.", il divaricatore oculare tanto simile alla "cura ludovico" dell' "Arancia Meccanica" dell'amico Kubrick e via discorrendo.




Ma la citazione più famosa e più importante risiede in un colpo di scena essenziale: alla fine del secondo atto, quando la corsa di Anderton sembra essere finita, i personaggi di Burgess e Danny Witver (Colin Farell) si incontrano e la scena che prende vita è praticamente un rifacimento di una identica scena presente in "L.A. Confidential"; nel film di Curtis Hanson, il personaggio di Jack Vincenness, interpretato da Kevin Spacey, e quello di Dudley Smith , interpretato da James Cromwell, discutono sulla risoluzione del mistero alla base della storia, la quale è in realtà solo apparente, così come nel film di Spielberg; ed entrambe le scene si concludono con il poliziotto più anziano che uccide il collega più giovane, rivelandone la natura di "villain" e motore degli eventi.




Una mera citazione? E' possibile. Ma molti critici e spettatori si sono domandati se non ci sia qualcosa di più, se in realtà il terzo atto, il più lineare del film, afflitto anche da buchi e forzature (Anderton viene liberato dalla prigionia dalla ex moglie, che di punto in bianco diviene perfetta personaggio d'azione), non sia che un sogno fatto dal protagonista mentre si trova in stato di incoscienza. L'intero finale del film, compreso quell'odioso lieto fine, altro non sarebbe che il parto della mente di colui che è il punto di vista dello spettatore sugli eventi. Ambiguità propria di molti adattamenti di opere di Dick su schermo, basti pensare allo splendido "Atto di Forza" di Paul Verhoeven.




Eppure, non ci sono indizi espliciti, nel film, che lascino intendere una tale effettiva ambiguità; è possibile che in una prima stesura, l'ambivalenza del racconto fosse più marcata ed in un secondo momento Spielberg abbia deciso di appiattirla per rendere il prodotto finale più appetibile per il grande pubblico, al solito sottovalutando l'intelligenza degli spettatori. Il risultato finale è quindi spiazzante sotto molteplici punti di vista.




"Minority Report" resta così un blockbuster di puro intrattenimento. Più intelligente ed elegante di molti altri prodotti made in Hollywood, ma troppo esangue per essere una pellicola di fantascienza davvero interessante. E' un ottimo film d'azione, con un cast affiatato e belle sequenze, ma rimane l'amaro in bocca se si pensa a cosa sarebbe potuto essere nelle mani di un autore di radicale rispetto a Spielberg.




EXTRA

L'odioso trend moderno di trasformare qualsiasi film di genere in una serie televisiva, con risultati risibili, non ha risparmiato "Minority Report". Forti del nome e dell'ottimo riscontro di critica e pubblico, i creativi della Fox hanno così dato vita ad un serial di 10 episodio, trasmessi nell'autunno del 2015.



La serie si pone come continuazione degli eventi del film ed ha come protagonista uno dei tre pre-cog, Dashiell, ma non possiede né la carica visionaria, né il gusto per le coreografie proprio del lungometraggio dal quale riprende gli eventi.

lunedì 28 agosto 2017

One plus One

di Jean-Luc Godard.

con: Mick Jagger, Keith Richards, Brian Jones, Charlie Watts, Bill Wyman, Anne Wiazemsky, Iain Quarrier, Roy Stewart.

Inghilterra 1968



















La sua posizione riguardo quella contestazione, quella rivoluzione paramilitare, violenta ed ossessiva che cominciò nella seconda metà degli anni '60, Godard l'aveva già espressa con sdegno nel capolavoro "La Cinese"; tant'è che quando quel fatidico 1968 arriva, quando quegli umori rivoluzionari o finto-rivoluzionari di natura e stampo sopratutto ultraborghese cominciano a riversarsi per le strade e le piazze d'Europa e del Mondo, il grande artista decide non tanto di prendere nuovamente di petto il fenomeno, quanto di creare una riflessione acuta, sottile ma la contempo polemica e vibrante su quei movimenti politico-culturali pronti a sradicare lo status quo.
Non che Godard o persino Truffaut non abbiano comunque cercato di dar spazio e voce al caos imperante durante quell'anno; basti pensare alla chiusura anticipata del Festival di Cannes, da loro chiesta a gran voce, a causa della mancata rappresentazione di quella realtà scomoda e violenta che imperversava fuori dai salotti buoni.
Ma l'astio e, sopratutto, la disillusione regnano sovrani; durante l'estate '68, Godard decide così di visitare Londra, di filmare le prove di un gruppo rock di grido di quegli anni, impegnato nella registrazione del singolo per il loro nuovo album; ed al contempo di dare nuovamente corpo alla sua visione dei gruppi rivoluzionari e dei limiti delle loro visioni. I menestrelli del rock sono i Rolling Stones, il singolo "Sympathy for the Devil" per l'album "Beggars Banquet" ed il resto è Storia.



L'inconciliabilità diviene il fulcro della riflessione; non c'è possibilità di sintesi, né nella politica, né nell'arte. Ogni singolo gruppo di personaggi portato in scena è perso nelle proprie elucubrazioni, nella ripetizione ossessiva dei dettami dell'ideologia che persegue e cinto dentro un'unica inquadratura (poi spezzata in fase di montaggio), un piano sequenza che ne scruta le azioni; ognuno di essi ha intenzione di rivoltare la società per riplasmarla a propria immagine; comunione di fine che però non porta alla collaborazione: ciascuno è "uno", cosicché la loro azione congiunta dà vita ad un "uno più uno" ("one plus one" appunto); ma la somma degli elementi non è possibile: Godard presagisce la disfatta dei moti sessantottini e chiarifica come la mancanza di apertura mentale porti allo stallo; ne consegue come questo "uno più uno" possa essere uguale solo ad "uno più uno", al massimo ad un "11", mai ad un "2"; non c'è coesione, non c'è possibilità di coesistenza, non c'è sinergia; così come i comunistelli esaltati de "La Cinese" finivano per espungere dalla loro comune chiunque non si omologasse ai precisi dettami ideologici, allo stesso modo il corpo rivoltoso in sé non può assimilare un suo simile che abbia una visione delle cose anche solo parzialmente differente.




Prima cellula rivoltosa, rivoltata come un calzino, è quella delle Pantere Nere, il movimento di liberazione del popolo nero; asserragliato in uno scasso, ossia tra le macerie della società capitalistica che hanno contribuito a formare quando ancora schiavi, i personaggi recitano meccanicamente astruse statuizioni; ma le loro azioni contraddicono le loro parole: l'elogio della bellezza della donna bianca è giustapposto ad una sommaria esecuzione di tre belle ragazze. Allo stesso modo, una disanima sulle origini del blues e della musica "etnica" d'America vorrebbe esaltarne la natura di rottura rispetto alla tradizione bianca, ma finisce solo per appiattirne la portata. In un secondo momento, il leader del gruppo rilascia un'intervista a due giornaliste, anch'esse di colore, nel quale chiarifica le sue posizioni, ma finisce solo per evidenziare i limiti del suo pensiero; mentre i suoi uomini passano in giro dei fucili come se fossero orpelli.




Una donna, forse un'intellettuale, viene letteralmente inseguita in un bosco da una troupe di giornalisti per finire un'intervista; le domande ne rivelano la natura di femminista, ma ad ogni quesito riesce a rispondere solo in modo netto ed al contempo vago, alternano i si ed i no. Il distacco totale dalla realtà di una donna, prima ancora che una persona di cultura, si impernia così nell'alternanza positivo/negativo: la mancanza di sintesi porta ad una forma quasi oscurantista del pensiero, arroccato su posizioni astruse, del tutto lontane da ogni forma di realtà.




In una libreria, un intellettuale destrorso recita i dettami di un saggio sulla superiorità razziale, mentre gli avventori consumano riviste pulp; per pagare, sono costretti a schiaffeggiare due contestatori, che rispondono esclamando anch'essi meccanicamente slogan di sinistra. La destra è lo status quo, forse; quanto meno una parte di esso, che ha creato la società dei consumi, la quale propina alla gente intrattenimento di bassa lega: pornografia, fotoromanzi che esaltano la violenza sulle donne, fumetti che cercano di vendere ai ragazzini una visione idealizzata della società (la copertina di "Justice League of America" con i supereroi che portano la pace tra i popoli), ma anche romanzi amati dalla classe intellettuale che tuttavia non portano ad una forma di svecchiamento della coscienza, come il "Belle de Jour" di Kessel; il consumismo è arma di distrazione di massa, dietro al quale ci cela un'ideologia aberrante nel suo elitarismo. E mentre questo genocidio è in atto, i rivoltosi, i sessantottini, non possono che assistere impotenti e recitare i loro mantra.



Altro "uno" è dato dagli Stones, chiusi in uno studio, persi tra le prove di "Sympathy for the Devil" e la sua complessa realizzazione. La musica del gruppo è l'arte sempiterna, tale forse proprio perché disancorata da ogni velleità politica, tanto che sulla copertina di "Beggars Banquet" comparirà quel famoso sfotto verso Bob Dylan, con il suo sogno tirato giù in un gabinetto pubblico; proprio per questo, impossibile da mischiare con quanto accade fuori, per le strade. Al massimo è possibile una giustapposizione con le immagini create ad hoc, con la contestazione meccanica, con i graffiti tracciati da Anne Wiazemsky che rielaborano concetti e parole in chiave rivoluzionaria, coniando neologismi come "SoVietcong", "CineMarxism" e "FreuDemocracy", dalla fortissima carica ideale, ma privi di vero significato.




L'ultimo "uno" è lui, Godard, sotto il cui occhio distaccato si muovono personaggi veri e finti. Il suo stile è qui più rigoroso, benchè la ricerca della frantumazione della visione è sempre presente: il collage è qui più esteso, creato con pezzi più grandi; le inquadrature si fanno più lunghe, le scene più compatte, con una narrazione quasi divisa per capitoli e nuclei tematici. Ognuno rigorosamente scisso e poi giustapposto all'altro: non può esserci sintesi neanche nella (non) struttura narrativa.
L'unica eccezione è data dall'ultima scena, l'epilogo sulla spiaggia, dove tutti i personaggi si incontrano per combattere una guerra finta, per far finta di coalizzarsi e far finta di morire. E dove Godard decide di usare un simbolo finale eloquente: il cadavere della Wiazemsky viene issato su di un crane, posto subito sotto la macchina da presa, ai lati della quale sono attaccate due bandiere, una rossa ed una nera. L'unione tra i tre elementi è possibile sono nel mezzo filmico; ma è, appunto, pura finzione.




EXTRA

Anche "One plus One" è stato vittima di una forte diatriba tra Godard ed il produttore, Iain Quarrier, proprio come accaduto con Carlo Ponti per i precedenti "La Donna è Donna" ed "Il Disprezzo".
Quarrier, anche attore, ha rimontato la pellicola prima della sua anteprima al London Film Festival nel '68, causando l'ira di Godard, che ha apertamente esortato il pubblico a boicottarlo. Questa versione del film, ribattezzata "Sympathy for the Devil", è stata a lungo l'unica disponibile.





Solo a partire dagli anni '00 è stato possibile recuperare la versione originariamente concepita da Godard, ad oggi disponibile anche per il mercato Home-Video italiano grazie all'edizione Dvd della Rarovideo, che comprende anche la versione rimaneggiata da Quarrier.



domenica 27 agosto 2017

R.I.P. Tobe Hooper


1943-2017


Esistono grandi artisti la cui importanza per la Settima Arte è indiscutibile. E poi ci sono ottimi cineasti, che pur non potendo essere definiti come artisti veri e propri, hanno lo stesso contribuito alla grandezza di un genere. Tobe Hooper era uno di questi, la cui importanza per l'horror americano e non è stata a dir poco seminale. 
Ma Hooper era in realtà un artigiano del cinema fantastico tutto, in grado di dar vita a visioni amene ed efficaci anche quando si allontanava dal registro che ne decretò la fortuna. Ed è una vergogna il fatto che negli anni non abbia più avuto possibilità di dirigere pellicole all'altezza del suo nome.




Eggshells (1969)

Esordio totale di Hooper nel lungometraggio, dopo aver diretto un unico corto cinque prima. Un piccolissimo film sperimentale, che segue le vicende di un gruppo di hippie texani, liberissimo nella forma e nel contenuto, perfetto esempio di cinema indie all'epoca della New Wave.





Il film che ha segnato un'epoca. Hooper si rifà alle gesta di Ed Gein e ad alcune leggende urbane del natio Texas, riprende in parte il modello di "Reazione a Catena" di Bava per creare il primo vero esempio di slasher americano. Tutti i suoi topoi fanno la loro comparsa, dalla prima parte volta a creare l'atmosfera e a caratterizzare i personaggi contrapposta ad un'indiavolato secondo tempo, all'assassino mostruoso e mascherato sino alla final girl. Ma ciò che rende ancora oggi "The Texas Chainsaw Massacre" interessante è lo stile: sporco, sgranato, quasi lurido, ai limiti dell'estetica documentaristica. 




Eaten Alive (1976)

Seguito ideale del capolavoro del 1974. Tornano personaggi disfunzionali contrapposti ad un gruppo di teen-agers in vacanza, vittime predestinate. Ma lo stile si fa visionario sino al lisergico. Vero e proprio "culto non colto" da riscoprire.





Primo adattamento televisivo di un romanzo di Stephen King, la cui qualità è ancor'oggi in parte apprezzabilissima. Hooper dirige con mano ferma tutte le sequenze più squisitamente horror, creando immagini inquietanti e da antologia.




Il Tunnel dell'Orrore (1981)

Ovvero: il primo film anni '80. Hooper omaggia i mostri classici della Universal e li immerge in un contesto slasher. Dove però il killer non è un semplice mostro, ma un freak che spesso muove a commozione come il Frankenstein di James Whale, in un connubio incredibilmente riuscito.





L'improbabile sinergia tra due autori lontani anni luce per stile e contenuti, Hooper e Spielberg, è invece feconda: Hooper dirige per il produttore Spielberg, che spesso si ingerisce pesantemente nella direzione, un riuscito "horror per famiglie", dall'immaginario orrorifico disturbante e memorabile.




Space Vampires (1985)

Se il rapporto con Spielberg è stato burrascoso, quello con Menahelm Golan è invece perfetto. Golan concede ad Hooper 20 milioni di dollari per dirigere con gusto e brio un vero e proprio "blockbuster extravaganza": un thriller a tinte horror che mischia hard sci-fi ed erotismo. Un cocktail ameno eppure gustosissimo, tenuto perfettamente in piedi dalla direzione dell'autore, ad oggi divenuto, giustamente, un amatissimo cult.




The Texas Chainsaw Massacre- Part II (1986)

Laddove l'originale era il perfetto esempio di pellicola anni '70, il sequel è l'incarnazione definitiva dello spirito degli 80's: pregno di uno humor grottesco, talvolta di pessimo gusto, immerso in una fotografia patinata e con personaggi talmente sopra le righe al punto che è impossibile prenderli sul serio (persino Leatherface e lo sceriffo matto di Dennis Hopper), "The Texas Chainsaw Massacre- Part II" è una pellicola volutamente trash e squallida, che però riesce a dimostrare l'estrema versatilità del suo creatore.




Masters of Horror- Dance of the Dead (2005)

Dopo anni di oblio, passati a dirigere incolori pellicole televisive, Hooper viene chiamato a bordo del progetto "Masters of Horror" di Mick Garris. Il suo "Dance of the Dead" non sarà tra gli episodi più riusciti, ma riesce lo stesso ad essere interessante, grazie ad una metafora di grana grossa, ma al contempo espressiva.

sabato 26 agosto 2017

Death Note- Il Quaderno della Morte

Death Note

di Adam Wingard.

con: Nat Wolff, Willem Dafoe, Lakeith Stanfield, Margaret Qualley, Shea Wigham, Masi Oka, Paul Nakauchi, Micahel Shemus Wiles.

Thriller/Fantastico

Usa 2017















---CONTIENE SPOILER---


Che piaccia o meno, bisogna ammettere come "Death Note" sia stato un fenomeno mediatico globale, in grado di rinverdire i fasti del fumetto nipponico in Occidente, il quale non vedeva un tale livello di apprezzamento dai tempi del primo "Ghost in the Shell". Un manga, scritto da Tsugumi Oba e disegnato da Takeshi Obata , basato su di un'idea semplice: un quaderno in grado di uccidere il soggetto il cui nome viene scritto sulle sue pagine e che, finendo nelle mani sbagliate, diviene il mezzo per riplasmare il mondo.



Strutturato come un thriller dapprima, poi come uno scontro ideale tra i personaggi, combattuto a colpi di intelligenza, il manga originale poneva al centro della vicenda Light Yagami, studente modello delle superiori che trova per caso il "Death Note" del dio della morte Ryuk, il quale, annoiandosi nel suo mondo, ha deciso di gettarlo sulla Terra per vedere che effetti avrebbe provocato; carpitone il potere ed affiancato dallo stesso Ryuk, Light decide di adoperarlo per sradicare il male dal pianeta, per creare un mondo nel quale non esistano malvagi; la sua azione diviene presto di pubblico dominio ed il mondo comincia a venerare questa "forza oscura" che castiga i malvagi chiamandola "Kira" (traslitterazione della pronuncia giapponese di "Killer") e venerandola come un vero e proprio dio. Light, dall'intelligenza fuori dal comune e dotato di un ego che si ingrandirà sempre di più, sarà ben presto chiamato a confrontarsi con le forze dell'ordine, le quali, spiazzate, si rivolgeranno ad un altro genio adolescente che si fa chiamare semplicemente"L", per evitare di cadere vittima del misterioso potere.




Tralasciando l'aspetto morale della vicenda, ovvero se sia giusto uccidere per creare un'utopia dove il male non esiste e se un uomo possa davvero divenire supremo giudice della Razza Umana solo perché ne ha i mezzi ed una capacità intellettiva fuori dal comune, il fumetto riusciva ad avvincere per il ritmo serrato, per la narrazione densa e fluida dove lo scontro tra Light ed L era combattuto a colpi di sagacia ed intelligenza, una vera e propria partita a scacchi con un dio della morte in grado di tenere incollato il lettore al tankobon.
E questo nonostante il fatto che gli autori, ebbri del forte successo, abbiano deciso di allungare il brodo con una sottotrama inutile (la parte dove il Death Note finisce nelle mani di una grossa zaibatsu) e modificare il finale originale per creare una sorta di seconda parte alla storia; la trama, infatti, si sarebbe dovuta concludere nel momento in cui, invece, L viene sconfitto: in origine avrebbe solo fatto finta di morire, adoperando uno stratagemma in realtà scontato, ossia scrivere da solo il proprio nome sul quaderno per evitare di essere manipolato dal nemico, che gli avrebbe garantito di smascherare Light, divenuto nel frattempo suo collaboratore. Finale semplicemente perfetto, ma che purtroppo è stato modificato per esigenze prettamente commerciali.





Il successo del brand "Death Note" è però dovuto sopratutto alla bella serie anime prodotta da Shueisha, che ben traspone in animazione lo scontro tra Light e L, aggiungendo quella dose di spettacolarità che solo l'animazione può garantire.
Successo che ha portato da subito alla produzione di tre film, due per la televisione ed uno per il cinema, in patria.





"Death Note" e "Death Note 2: The Last Name" sono due deboli riassunti della prima parte della storia originale, che vale la pena guardare solo perché riprendono il finale originariamente concepito dagli autori; più interessante lo spin-off  "L- Change the World", diretto da Hideo Nakata, che si configura come una storia originale con protagonista L, ben interpretato da Ken'Ichi Matsuyama.




Anche a distanza di anni, la storia del quaderno assassino non sembra aver perso la sua presa sul grande pubblico, tanto che nel 2015 viene prodotta, sempre in Giappone, una serie live-action basata sul manga; e nel 2016 esce nei cinema giapponesi un lungometraggio che ne fa da sequel: "Death Note: Light up the new world".




Successo che ovviamente non passa inosservato ad Hollywood; i progetti per un adattamento occidentale del manga si susseguono forsennati nel corso degli anni, ma a differenza di quanto accade in Giappone, un film dal vivo non vede la luce se non dopo 14 anni dopo l'uscita del manga originale; a spuntarla è Netflix, che chiama a dirigere il progetto Adam Wingard, scelta tutto sommato spiazzante se si tiene conto della poca notorietà del suo nome presso il grande pubblico, ma che si spiega in ragione dei suoi lavori passati, dove la cattiveria anche grafica non mancava di certo.
Un adattamento, questo diretto da Wingard, dove molte dei punti di forza dell'opera originale vanno perduti, un pò a causa della differente cultura che l'ha generato, un pò a causa di alcune inescusabili sciatterie di scrittura.



Era normale attendersi una diversa caratterizzazione per Light: un adolescente da Q.I. stratosferico e dotato di un deviato senso di giustizia del tutto innato è un archetipo che mal si adatta alla cultura americana, essendo nato e rifinito in quella società nipponica ossessionata dalla perfezione sociale e lavorativa; non deve quindi meravigliare il fatto il fatto che, nel film, Light Turner (anche il cambiamento anagrafico è d'obbligo) sia un adolescente del tutto normale, intelligente ma non geniale, dotato anche di forti difetti e debolezze caratteriali e il cui senso di giustizia è dovuto ai traumi subiti. Così come non deve meravigliare il fatto che il personaggio di Misa Amane sia divenuto Mia Sutton, cheerleader e non più popstar, il cui ruolo nella narrazione non è più quello di mero strumento usa e getta. Diverso è anche il peso che ha lo shinigami Ryuk, magistralmente interpretato da Willem Dafoe, più attivo (almeno inizialmente) rispetto alla sua controparte cartacea, oltre che estremamente inquietante: il simpatico dio della morte con gli atteggiamenti da sbevazzone divertito è su schermo un mostro dal ghigno satanico perennemente avvolto nelle ombre.
Pur tuttavia, resta dubbia la scelta del cast; tolti Dafoe e la bella Margaret Qualley, perfetti nei loro ruoli, ci si chiede perché Wingard e Netflix abbiano deciso di affidare il ruolo di protagonista ad un attore come Nat Wolff, vistosamente incapace di reggere la scena, di donare una vera tridimensionalità al personaggio, privo del carisma necessario e finanche ridicolo quando fa gridare il suo Light come una donnicciola isterica.
I dubbi, invece, sulla scelta di Lakeith Stanflield come "L" si sciolgono come neve al sole una volta che questi appare su schermo: pur passando la maggior parte del film bardato dietro un cappuccio, la sua performance, anche quando strettamente vocale, è del tutto convincente; e perfino il suo fisico emaciato ricorda quello del personaggio del manga.




L'adattamento della storia cerca di essere il più fedele possibile alla prima parte del manga; dove per "possibile" si intende "cercare di comprimerlo in poco più di 100 minuti"; la restrizione degli eventi, la riscrittura dei personaggi ed il cambio dell'ambientazione bene o male funzionano, anche se a tratti la storia risulta sin troppo scontata e tirata via; ben più enfasi avrebbero meritato, su tutti, il concetto del culto di Kira ed il modo in cui l'opinione pubblica è manipolata dalla sua azione.
Ma il vero difetto di scrittura risiede nella mancanza di quell'intelligenza che invece accompagnava lo sviluppo della storia nel manga e nella serie televisiva: lo scontro tra Light ed "L" è molto più diretto e scontato, mancano i colpi di scena e le inversioni di marcia, gli ostacoli e le sottotrame; tutto è bene o male lineare, almeno sino all'ultimo atto (curioso come la divisioni in atti ne conti 4 e non 3, come solitamente avviene nel cinema orientale), ove vengono relegati tutti i colpi di scena possibili e la cattiveria vera e propria. Manca quel gusto per la strategia e la tattica di raziocinio che invece traspariva in ogni capitolo del manga ed in ogni episodio dell'anime, cosicché la storia diviene irrimediabilmente piatta.




A rendere interessante la visione resta così il solo stile di Wingard, qui ancora più affinato e spettacolare, forse a causa dell'ottimo budget; le monocromie blu e rosse, l'uso dei neon come e meglio che in "The Guest" e della musica synth curata da niente meno che Atticus Ross, contribuiscono alla creazione di un'atmosfera plumbea ed opprimente, che purtroppo non sempre trova riscontro nello script; così come l'uso di uno splatter esagerato, solitamente sopra le righe, qui si fa a tratti squisitamente disturbante, anche se fine a sé stesso.




Il "Death Note" yankee è così puro cinema escapista privo di vero mordente, che intrattiene per i 100 minuti di durata, ma che non riesce davvero a coinvolgere. Un filmino un pò freddo e lontano anni luce dai punti di forza del fumetto al quale si ispira, che ha dalla sua un cast in parte buono e le visioni del suo autore; alla fine dei conti, davvero troppo poco.

domenica 20 agosto 2017

R.I.P. Jerry Lewis



1926-2017

Una leggenda della commedia americana. Un uomo in grado di creare archetipi tutt'oggi imperanti (tra gli altri, il nerd di "The Nutty Professor", oggi alla base di show quali "The Big Bang Theory" e vero e proprio stereotipo comico americano), di creare contaminazioni azzardate (il mitologico "The Day the Clown cried", obliato per sua stessa iniziativa), di avviare un roseo sodalizio con uno showman a lui quasi del tutto antitetico (Dean Martin) e persino di rivoluzionare la tecnica filmica (l'invenzione del video assist si deve praticamente a lui). Jerry Lewis è stato e sempre sarà famoso come maschera comica; ma bisogna tenere a mente come la commedia slapstick e demenziale sia stata solo una facciata di un talento ben più profondo e variegato.

giovedì 17 agosto 2017

La Torre Nera

The Dark Tower

di Nicolaj Arcel.

con: Idris Elba, Matthew McConaughey, Tom Taylor, Jackie Earl Haley, Katheryn Winnick, Abby Lee, Alex McGregor, Dennis Haysbert, Claudia Kim.

Fantastico/Azione

Usa 2017















---CONTIENE SPOILER---

E' buffo pensare come l'opera più complessa ed affascinante di uno scrittore blasonato come Stephen King sia anche la meno nota, almeno presso il grande pubblico. Perché la serie de "La Torre Nera" è sicuramente riuscita a far breccia nel cuore dei fan dello scrittore del Maine, a divenire un fenomeno letterario di culto presso più di una generazione, eppure risulta del tutto sconosciuta a chiunque non abbia mai letto almeno uno dei suoi romanzi.
Questo molto probabilmente a causa della mancanza di un suo adattamento per il grande o piccolo schermo; o forse anche a causa della sua peculiarità: composta da ben 8 romanzi (sette canonici, più un ultimo che fa da gustosa "side-story" alla trama principale), non è una semplice saga fantasy post-modernista, come pure potrebbe sembrare, ma una vera e propria "magna opus", che finisce per abbracciare molte delle altre storie raccontate negli scritti di King. E lo fa in modo letterale: la storia di Roland Deschain di Gilead, ultimo esponente della casta dei Cavalieri, pistoleri dotati di mira e riflessi quasi sovrannaturali, della sua ricerca della misteriosa Torre Nera, si intreccia con molti altri romanzi di King grazie all'escamotage, visionario e geniale, del multiverso.



La Torre altro non è che il centro verso il quale convergono tutti gli universi creati da King, più un "universo primo" che è quello "reale", nel quale si muove lo stesso King, il "tessitore di storie" che diviene personaggio essenziale della sua stessa storia, chiamato ad avere un ruolo importante della ricerca e che, su di un piano extradiegetico, permette all'autore di rielaborare, a distanza di anni, il suo trauma più grande, ossia l'incidente che nell'estate del 1999 quasi lo paralizzò.
Ecco dunque Roland inseguire, da principio, uno stregone vestito di nero; la famosa frase che apre il primo romanzo, "L'Uomo in Nero fuggì nel deserto. Il Pistolero lo inseguì", prelude alla scoperta (nel finale) dell'identità di questo primo antagonista: Randall Flagg, il villain per antonomasia nel mondo di King, già perfetta incarnazione del Male Supremo nel capolavoro "L'Ombra dello Scorpione" e qui nemesi perfetta, nella sua onniscenza, di un personaggio laconico e carismatico, re-incarnazione (in tutti i sensi) di Clint Eastwood nella "Trilogia del Dollaro" leoniana.
Allo stesso modo, confluiscono tra le pagine della lunga trama personaggi come il Padre Callahan di "Le Notti di Salem",  il Ted di "Cuori in Atlantide", Patrick, il bambino pittore di "Insomnia" e persino una creatura della medesima razza del Pennywise di "It". E tenendo conto di come spesso molte di queste storie fossero già da principio intrecciate tra loro ("It" e "Insomnia" sono entrambi ambientati nella immaginaria cittadina di Derry ed in entrambi compare il personaggio di Mike Hanlon), si può vedere la serie de "La Torre Nera" come un vero e proprio "universo base" che finisce per collegare tra loro in modo ancora più marcato molti dei romanzi kinghiani.




Ma "La Torre Nera" è anche una serie dotata di un proprio universo immediatamente riconoscibile, nel quale King, con tocco squisitamente post-modernista, fa confluire tutte le sue passioni giovanili e non (bisogna tenere a mente come il primo romanzo della serie, "L'Ultimo Cavaliere", fu cominciato all'età di 19 anni e solo in seguito rimaneggiato per essere l'apripista della lunga storia). Prima fra tutti, quella per "Il Signore degli Anelli" di Tolkien: da qui torna l'idea di un mondo fantasy con maghi e mostri, oltre che della quest dell'eroe come cammino letterale verso un luogo oscuro. L'amore per gli spaghetti western porta invece a caratterizzare il mondo di Roland come una terra fantastica dove una lunga guerra ha fatto ripiombare tutto all'epoca dei cowboy. L'Antica Civiltà, che aveva raggiunto un progresso tecnologico sbalorditivo, è stata cancellata, di essa restano solo arcani ruderi; le Baronie nelle quali il mondo era diviso (prima di "andare avanti"), tra le quali Gilead era la più importante, sono scomparse dopo la guerra con John Farson, detto "Il Buono", ribelle che voleva liberare i popoli dal giogo dei potenti, ma che ha finito solo con portare il caos. L' "ultimo cavaliere" è così un pistolero taciturno e solitario che si muove sullo sfondo di un mondo post-apocalittico, dove il western incontra il fantasy, dove le sue pistole sono state forgiate nell'acciaio che fu di Excalibur, dove la sua stirpe è quella dell'equivalente transdimensionale di Re Artù (Arthur Eld), dove un villain che si rivela solo verso la fine della serie incarna il male supremo (il "Re Rosso"), mentre vampiri e uomini-bestia ne compiono i misfatti, "lenti mutanti" appestano le zone più disastrate, fanatici religiosi tentano di massacrare chiunque capiti a tiro e robot impazziti venuti da altri mondi falciano interi villaggi o sorvegliano i "vettori", sentieri seminasconsti che conducono alla Torre ( e tra i tanti, quello percorso da Roland viene custodito da Maturin, la tartaruga divina che appariva in "It"). E dove, in un gioco di specchi sempre post-modernista, oggetti di fantasia del nostro mondo divengono armi incredibili (le "sfere-vampiro" di "Phantasm" vengono usate come granate, ribattezzate "sfere modello Harry Potter"), personaggi della cultura popolare divengono reali (i Lupi de "I Lupi del Calla", robots dalle fattezze del Dr.Destino mischiate a quelle di Darth Vader) e le leggende sono Storia (il ciclo arturiano, essenziale nella mitologia alla base della serie).




Ma a discapito della magmatica mole di elementi eterogenei che ne costituiscono l'ossatura dell'universo, quella de "La Torre Nera" è in fondo una storia lineare, benchè resa complessa a causa del gran numero di personaggi e sottotrame, sia interne che collegate verso gli altri lavori dell'autore.
Al centro, ovviamente, l'eroe impegnato nella quest, Roland, pistolero infallibile, ultimo cavaliere e (si scoprirà in seguito) erede di Artù, benedetto dalla Divinità Creatrice Gan. La ricerca della Torre Nera è viaggio verso quel nesso spazio-temporale che può permettergli di rigenerare il suo mondo ormai morente, annichilito dalla guerra del folle Re Rosso; il quale, a sua volta e per il tramite di Flagg ed altri sottoposti, vuole raggiungere la Torre proprio per disintegrare l'intera realtà.
Nel suo viaggio, Roland incontrerà tre alleati, che formeranno il "ka-tet", una versione fantasy della classica "posse", accomunata nel e dal Destino ("ka", la forza aggregatrice dei mondi, simile al fato e alla "mano di Dio").
Prima fra tutti, è il giovane Jake Chambers, che dopo essere morto a New York si risveglierà nel mondo di Roland; dopo aver condiviso con lui un turbolento viaggio nel primo romanzo, Jake morirà, solo per tornare nel suo mondo, ove sarà perseguitato dai sogni e visioni di quello strano Pistolero, per poi tornare da lui, grazie ad uno dei nessi dimensionali, nel terzo romanzo, "Terre Desolate".
Il secondo romanzo della serie, "La Chiamata dei Tre", illustra come Roland recluti i suoi compagni in versioni differenti dell'America del XX secolo. Primo tra questi (dopo Jake, che però tornerà solo in seguito) è Eddie Dean, del 1988 ed afflitto inizialmente da una tossicodipendenza distruttiva che ne forgia il carattere, duro ed ironico. Poi Odetta Holmes, afro-americana paraplegica del 1964, che soffre di uno sdoppiamento di personalità che la porta ad essere posseduta da un lato oscuro, il quale si identifica come Detta Walker e che alla fine forgerà una terza personalità, sintesi delle due, chiamata "Susannah".
Ai quattro si unirà più avanti anche il Padre Callahan de "Le Notti di Salem", la cui terribile esperienza con i vampiri ha fatto ritrovare la fede in Dio e che, a seguito di alcuni vagabondaggi, ha varcato le dimensioni risvegliandosi nell'Entro-Mondo della terra di Roland. Senza contare il "bimbolo" Oy, creatura fantastica mix tra cane e furetto e dotato di parola.




L'estrema durata del viaggio di Roland (come si diceva, sette romanzi più una side-story), la complessità del suo mondo, la sua lunga e complessa storia personale (narrata nel quarto romanzo, "La Sfera del Buio", vero e proprio prequel, oltre che nei flashback de "L'Ultimo Cavaliere" ed in ultimo nell'ultimissimo romanzo, "La Leggenda del Vento"), che controbilancia una trama di base tutto sommato lineare (un viaggio verso una meta distante, la Torre appunto, con solo una svolta nella New York prima dell'ultimo atto), hanno per anni impedito una forma di adattamento audiovisivo de "La Torre Nera". L'unica altra incarnazione che ha avuto, è data dalla bella serie di fumetti targata Marvel, scritta da Peter David e Robin Furth ed illustrata da Jae Lee, il cui stile o si ama o si odia.




Adattamento che espande la materia narrata, dando forma anche ai miti che ne sono alla base (la storia di Arthur Eld), riempiendo i "buchi" lasciati tra un romanzo e l'altro (la miniserie "La Lunga via del Ritorno", per esempio, narra un episodio inedito, ossia come il giovane Roland, distrutto a seguito della morte dell'amata Susan Delgado, sia riuscito a tornare alla natia Gilead assieme ai suoi compagni pistoleri Cuthbert Allgodd e Alain Johns), finendo per arricchire in modo gustoso un mondo già di per sé ameno e stratificato.




Ma l'adattamento per il grande schermo delle avventure di Roland e compagni non poteva mancare. Per quasi 10 anni ad Hollywood hanno cercato di dare forma alle pagine di King, senza però riuscire nell'impresa.
Il progetto di adattamento nasce però sotto una cattiva stella, quella di Akiva Goldsman, ossia il peggiore sceneggiatore che si sia mai visto, responsabile di atrocità quali "Batman & Robin", "Lost in Space", il recente "Rings", gli sciagurati adattamenti di "Io, Robot", "Io sono Leggenda" e dei romanzi di Dan Brown, senza contare il suo scalcinato esordio come regista, quel "Storia d'Inverno" talmente ridicolo da divenire puro cinema trash multimilionario.
Goldsman, inizialmente coadiuvato da Ron Howard e J.J. Abrams, che purtroppo (o per fortuna) poi si sono allontanati dal progetto a causa delle lunghe tempistiche, ha però una buona intuizione: adattare per il grande schermo solo alcuni dei romanzi, per poi narrare gli altri come miniserie televisive, in un progetto cross-mediale che ben avrebbe potuto rendere la complessità del mondo di Roland e del multiverso kinghiano.




Ma il primo film della serie, intitolato semplicemente "La Torre Nera", arriva solo ora al cinema, al seguito di ritardi, false partenze ed infinite riscritture. Vittima, tra l'altro, della moda dei tempi: prendere Idris Elba come protagonista solo per cercare di far colpo sul pubblico afroamericano e dare una parvenza di multietnicità al tutto. Vien da chiedersi, nel caso in cui la serie continui, come caratterizzeranno il personaggio di Susannah, i cui tratti caratteriali sono formati proprio dall'essere un'afroamericana degli anni '60.
Ed al timone del film troviamo Nicolaj Arcel, regista danese che ha preso parte come sceneggiatore all'adattamento della serie "Millennium" di Stieg Larsson e che per la prima volta si cimenta con un blockbuster di stampo fantasy. Con tutte le intuibili conseguenze del caso: "La Torre Nera" finisce così per essere non tanto un adattamento dei romanzi di King, quanto un film ispirato ad essi, dove l'intera materia di base viene rielaborata come un semplice film fantastico, piuttosto che come una complessa fusione di storie ed influenze.




Meglio essere subito chiari: Idris Elba come Roland si rivela scelta felice, quasi del tutto azzeccata; il grande attore di origine britannica ha il fisico e lo sguardo per essere un pistolero laconico quanto basta e duro; certo, resta il ridicolo involontario dovuto alla scoperta della sua discendenza, che nel film viene citata esplicitamente nei dialoghi, ma per il resto il suo Roland è davvero un personaggio carismatico e riuscito.
Il Randall Flagg di MacConaugehy, d'altro canto, non brilla certo per originalità, né per carisma, nonostante l'indubbia presenza scenica del suo interprete: troppo gigionesco nelle movenze, quella di McCouneghey è una performance fin troppo divertita, che finisce per trasformare uno stregone misterioso in una sorta di dandy dall'indole violenta.
Per il resto, l'opera di riscrittura dell'universo (e macroverso) kinghiano è alquanto singolare.




E' buffo pensare all'entusiasmo proferito da King verso questo progetto, quando è invece solito attaccare a viso aperto (ed in modo involontariamente ridicolo) chiunque adatti i suoi romanzi cambiandone storia e personaggi; perché lo script alla base de "La Torre Nera" è un mix di alcuni degli elementi portanti dei romanzi, praticamente nessuno dei quali ripreso dal primo della serie, dove tutto viene più o meno appiattito.
A partire dall'antefatto: la mitologica battaglia di Jericho Hill, dove il mondo di Roland idealmente muore a causa della follia di John Farson e delle macchinazioni di Flagg e del Re Rosso, è ora una semplice "battaglia per proteggere la Torre", nel quale perde la vita anche il padre di Roland; la casta dei pistoleri è divenuta un semplice ordine che protegge la Torre e Roland non un nobile disperato che vuole raggiungerla per risanare la sua casa, quanto un mero "guardiano"; il piano di Flagg e del Re Rosso di abbatterla non è frutto di pura follia maligna, ma subordinato alla creazione di un nuovo multiverso, nel quale creature demoniache extradimensionali dominano sul cosmo (altro riferimento ad "It", tanto che ad un certo punto Roland combatte persino contro una di queste creature, che come Pennywise ha la capacità di mutare forma).
Diverso è anche il rapporto con Jake Chambers; la prima escursione del ragazzo nel Medio-Mondo, susseguente alla sua morte, non viene citata: si parte direttamente con i sogni del ragazzo, come narrati nel terzo romanzo, ed il suo attraversamento del portale a New York; il suo "tocco" è su schermo ancora più simile alla "luccicanza" di "Shining" ed il suo ruolo negli eventi è quello di un potente esper usato come "frangitore", ossia come arma per tentare di abbattere direttamente la Torre, non più i Vettori su cui poggia.
Dulcis in fundo: anche la caratterizzazione estetica delle "porte" è totalmente diversa; non più stipiti che fluttuano a mezz'aria nello spazio (immagine ben più potente, tanto che trova la sua fonte di ispirazione proprio al cinema, in una scena di "Nightmare 3- The Dream Warriors"), ma semplici "stargate", tutti uguali al passaggio che Roland ed il suo ka-tet adoperano per giungere a Fine-Mondo verso la fine della serie.




Estremamente diversa è poi la caratterizzazione del mondo di Roland e compagni; non più un ameno multiverso nel quale convergono tutte le forme di ispirazione che hanno affascinato King nel corso degli anni, ma un semplice mondo post-apocalittico interlacciato direttamente con l'Universo-Cardine (che nei romanzi era invece il "mondo originario", nel quale si muoveva King); non ci sono riferimenti agli spaghetti-western, né più di tanto al fantasy classico (se si escludono gli uomini-belva addobbati come orchi); un mondo che, in sostanza, su schermo perde la sua affascinante amenità per farsi in parte più compatto, anche troppo, in una trasposizione che schiaccia tutto il materiale di base e lo comprime in appena 90 minuti di durata, restringendo la vastità di eventi e luoghi fino a creare una semplicissima storia fantastica.




Storia che è quanto di più convenzionale si possa immaginare; a partire dall'uso del punto di vista di Jake, che fa somigliare "La Torre Nera" a tanto fantsy a stelle strisce anni '80 e 2000; convenzionale nelle scene d'azione, dirette con sicuro gusto per la coreografia, ma senza guizzi; convenzionale nell'umorismo, con Roland che si innamora del gusto della Coca-Cola e redarguisce un paio di ragazzette dai facili costumi affascinate dalla sua mascolinità.
Eppure, pur nella sua basicità e ricercata piattezza, come piccola pellicola fantastica questa prima trasposizione è innegabilmente riuscita.




La rielaborazione della storia originaria funziona, si presenta come un canonico ma riuscito "cammino dell'eroe", anche grazie alla caratterizzazione di Jake e Roland; entrambi sono orfani, segnati dalla perdita della figura paterna, alla ricerca di un padre e (inconsciamente) di un figlio; il loro ritrovarsi, la chimica tra i due (e sopratutto tra gli interpreti) funziona (nonostante le doti recitative non eccelse di Tom Taylor). Così come riuscita è tutto sommato la storiella creata cucendo i vari pezzi dei romanzi; nonostante i palesi buchi nella mitologia che solo chi ha letto i romanzi può colmare: cosa sia un "vettoremoto", chi sia il Re Rosso o perché Roland riesca a resistere alla magia di Flagg sono quesiti che non trovano risposta (e quest'ultimo resterà oscuro anche a chi ha letto ed amato la saga, essendo un mero strumento narrativo per evitare che lo Stregone lo uccida già nell'antefatto).




Pur con i suoi difetti e le facilonerie, "La Torre Nera" si configura come una pellicola divertente e miracolosamente mai ridicola, nemmeno nei suoi risvolti più a rischio (primo fra tutti lo humor, comunque poco); l'opera magna di King ben avrebbe meritato un adattamento più diretto e grande, un vero kolossal fantasy-horror piuttosto che un filmino fantastico volutamente d'antan; tanto che forse il film sarà più apprezzato da chi non conosce affatto i libri. La speranza è che i seguiti e la serie televisiva riescano a restituire la giusta dimensione al mondo di Roland ed al suo lungo ed affascinante viaggio.