martedì 7 novembre 2017

Prénom Carmen

di Jean-Luc Godard.

con: Maruschka Detmers, Jacques Bonnaffé, Jean-Luc Godard, Myriem Roussell, Christophe Odent, Hippolyte Girardot.

Francia 1983


















Ossessione linguistica, distruzione grammaticale, destrutturazione del mezzo filmico, successiva ricomposizione; oppure caos, sequenze senza inizio nè fine, interruzioni brusche, salti spaziotemporali che distruggono ogni tipo di unità, concetto presente unicamente nell'inquadratura, sempre fissa, uguale a sè stessa.
"Prènom Carmen" è in un certo senso l'ennesimo punto di arrivo nel cinema di Godard; ed al contempo un punto di rottura, che trova degli antesignani solo nel precedente "Passion", eppure decisamente più radicale, convinto, spinto su tutti i livelli.




Storia e personaggi altro non sono che le ombre del cinema del passato; all'inizio era la "Carmen" di Georges Bizet, opera e personaggio che nelle mani di Godard vengono trasfigurati sino a divenire forma e significato altro; per tutto il film, la partitura originaria di Bizet è assente, evocata solo in modo timido da un personaggio che la fischietta all'inizio; al suo posto subentrano gli archi di Beethoven, che interrompono le immagini o vengono interrotti proprio dalle immagini o da altri suoni; oppure la splendida "Ruby's Arms" di Tom Waits.
Carmen non è la donna manipolatrice ed intelligente che era sul palco, ma un ragazza impulsiva, schiava impotente alle sue stesse pulsioni; una ragazza-donna dal viso di bambina, ma dal corpo irresistibile, incarnata dalla sensualità prorompente della bellissima Marushka Detmers, all'epoca esordiente e poco più che ventenne.
Come lei, Joseph (Bonnaffé), "petit soldat" che si innamora perdutamente della terrorista Carmen, intrecciandoci un'appassionata love-story che finisce nella loro non-morte, una separazione che non è graziata neanche dalla forza disgregatrice del Thanatos, ma solo da quella blanda, non catartica, eppure inevitabile dell'umore.
Due amanti che si rincorrono per delle stanze come quelli di "A' Boute de Souffle" e "Il Disprezzo", che guardano il mare come quelli di "Pierrot le Fou", circondati da un branco di terroristi, aspiranti filmmaker, strambi e sgangherati come i gangster di "Bande à Part" e privi di una vera ideologia, al pari dei finto-rivoluzionari de "La Cinese".




Tutte reminsicenze non poste a caso; Godard è a pezzi, la sua percezione del mondo, da cineasta, sociologo, filosofo ed intellettuale, è persa nei meandri di sè stessa e da essa fuoriescono le macerie della sua opera; la sua mente ripiega su di sé perchè incapace di approcciarsi (forse) a quella società post-rivoluzionaria orgogliosamente capitalista degli anni '80.
Non per niente, lo ritroviamo perso nel suo stesso film, ad interpretare sè stesso in preda ad una profonda crisi, ricoverato in un ospedale psichiatrico, dove Carmen, sua nipote (forse la sua preferita, forse no, forse attratto fatalmente da lei, forse no) gli fa visita, chiedendogli aiuto per girare un film.
Ma Godard ha rinunciato al cinema, in tutti i sensi; è in cerca, adesso, di una nuova forma espressiva, di un nuovo linguaggio che possa essere pur sempre espresso dalle immagini; ma le immagini di "Prènom Carmen" sono astratte e, sopratutto, se private dell'accompagnamento audio sono vistosamente fredde ed incomplete.




Immagini che vivono grazie suono, degli archi di Beethoven, della calda voce roca di Waits, dello stridulo verso dei gabbiani, dei rumori fuori scena; il suono diviene immagine, l'immagine suono: una nuova percezione si schiude; laddove la macchina da presa è ferma, perennemente fissa, concedendo al massima qualche sparuta panoramica, il suono avvolge i personaggi, ne sottolinea le emozioni, vere o finte che siano, ne spezza i silenzi o ne copre i dialoghi. Godard stesso ironizza su tale scelta estetico-stilistica, presentando a Carmen uno stereo come cinepresa.
Quelle di "Prénom Carmen" sono immagini dove mai come prima lo spazio negativo assume significato: ciò che viene lasciato fuori dall'inquadratura è spesso il centro di interesse, come l'immagine del quartetto d'archi riunito in cerchio, inquadrato a piombo con solo i piedi dei soggetti in campo ed un leggio nel mezzo; o anche la sparatoria nella banca, dove ogni colpo viene sparato verso l'esterno del campo di ripresa e raramente all'interno del medesimo fotogramma; o le scene di dialogo, con il primo piano di uno dei personaggi al posto dell'alternanza tra campo e controcampo o del canonico movimento che copre entrambe visi già usato dall'autore in passato. Immagini fredde, eppure sensuali, dalla geometria e costruzione perfetta, dove persino i semplici volti degli attori finiscono per divenire pura arte in movimento.




Alternanza tra visto/non visto, esistenza e al contempo non-esistenza ("Essere o non essere non è una domanda") estremizzata dall'uso del rapporto d'aspetto 1,37:1, che permette a Godard di stringersi ulteriormente su quei corpi e volti o di allontanarsi da loro in modo più marcato, scegliendo meglio come e quando isolarli, come e quando mostrarli, come e quando riunirli o dividerli.






Una serie di scelte stilistico-estetica che frantuma definitivamente ogni convenzione; uno stile "nuovo", forse, inedito magari, sicuramente diverso; un linguaggio riconiato a partire dalle macerie del passato, che va oltre le varie rotture con le convenzioni estetico-narrative già allora raggiunte; un qualcosa che non ha nome, non ha significato, è perché esiste, al pari dei personaggi, delle immagini, della musica e dei suoni. "Prénom Carmen" diviene così un flusso di coscienza ininterrotto, un viaggio nella riflessione stessa di Godard, un'odissea nella sua ossessione semantica; un'opera anticonvenzionale nell'anima che un significato in quanto pura distruzione, scardinamento di tutte le certezze, persino quelle che il suo stesso fautore aveva toccato nella sua filmografia; una storia che non è una storia, un'analisi di due personaggi che non è analisi di due personaggi (benché simile nelle tempistiche a molto cinema di Antonioni), un ulteriore sberleffo alla rivoluzione che non è sberleffo alla rivoluzione, una riflessione filosofica che non è riflessione alcuna.




Un'opera che è pura ricerca, pura sperimentazione, in cui in ogni fotogramma il suo autore tenta di comunicare il caos, di ricreare il linguaggio ormai vetusto in qualcosa di nuovo; un linguaggio che si è impresso oramai nella vita comune, come afferma quando parla di Dillinger e la sua rapina fatta passare per la scena di un film; o con l'introduzione, allora fresca ed inedita, dei formati video, surrogato del cinema, ossia distruzione e ricostruzione in forma tascabile della pellicola.
Il Cinema è (nel 1983) qualcosa di diverso, qualcosa che ha smesso di essere sè stesso per divenire altro; un linguaggio, un mondo, un modo di percepire la realtà stessa che si è impressa nelle vite quotidiane delle persone; non per nulla, Carmen ed i suoi colleghi cercano di fare un film le cui scene, quando descritte al Godard-personaggio, sembrano anticipare i luoghi e le immagini che il Godard-narratore mostrerà nei minuti successivi.
La sua rigenerazione è quindi un imperativo; laddove il cinema è sopratutto immagine, Godard cerca il colmare il vuoto degli altri sensi mediante l'associazione; il tatto si fa immagine (Jospeh che accarezza il televisore, Godard che tocca i mobili nella sua stanza d'ospedale, Carmen e ancora Jospeh che toccano i propri genitali), il suono si fa immagine (la musica che veicola sensazioni al posto di ciò che viene mostrato); il dialogo, alla fine, si fa immagine, con quell'ultimo quesito: "Come si chiama quando si hanno da una parte i colpevole e dall'altra gli innocenti? [...] Quando è l'alba e ancora respiriamo?".




Quesito la cui domanda racchiude il vero significato del film; o quanto meno il suo scopo: l'aurora. Una parola che indica rinascita, rigenerazione, un nuovo giorno, un qualcosa di nuovo, allo stesso modo in cui il linguaggio è adesso nuovo. Un significante che non circoscrive, né limita il suo significato, poichè pura metafora, cosicché esso stesso possa non avere confini, vivere da sè per sé, non al servizio del cineasta, né del pubblico, tantomeno dell'Arte.






Un esperimento, quello di Godard, altamente intellettuale, infinitamente intellettivo; il suo scollamento con qualsiasi forma di dialogo intelligibile è avvertibile ed evidente per tutta la durata.
Ma a differenza di quanto accadrà in futuro, qui controlla perfettamente il maelstrom di idee ed anti-idee sparse per la non-narrazione; e lo fa in modo geniale, assaltando i sensi di chi percepisce la sua opera. "Prènom Carmen" diviene così più che un'opera intellettiva, un'opera sensoriale, giacchè la sua lingua è quella dei sensi, della pura percezione. In tale ambito, oltre a raggiungere una compattezza stilistica impressionante, Godard riesce trionfalmente nel suo intento, creando il suo film più ostico, ma anche il più affascinante.

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