lunedì 29 gennaio 2018

Ahimè!

Hélas pur moi

di Jean-Luc Godard.

con: Gerard Depardieu, Laurence Masliah, Bernard Valley, Jean-Louis Loca, Benjamin Kraatz.

Francia, Svizzera 1993

















GODard. DepaDIEU. Un incontro scritto nel nome, nel destino (sacro?), quello tra il grande cineasta ed il divo francese. Che arriva però solo nel 1992, con "Ahimè!", adattamento molto libero (e come potrebbe essere altrimenti con Godard?) dell' "Amphytrion 38" di Giroudoux, rilettura moderna, postmoderna e post-postmoderna dell'opera di Plauto.
Un film che porta in scena, come "Nouvelle Vague", la storia di un doppio, infarcendola di citazioni a raffica, che cerca di riflettere sul senso del sacro prima ancora che sul concetto di identità, sia personale che filmica, ma che riesce solo in parte: come molto dell'ultimo cinema di Godard è a tratti troppo chiuso in sè e troppo compiaciuto per comunicare davvero qualcosa.




Un dio scende sulla Terra, forse Il Dio, forse uno dei tanti. Si incarna in un uomo per avere un rapporto con una donna e poi scompare. Ma dare una forma al divino significa limitarlo, circoscriverlo. Se è vero che oltre il 50% della materia di cui è fatto l'Universo è invisibile, allora renderlo visibile equivale a togliergli sostanza.
Allo stesso modo un dio che si fa uomo non è più divino. E l'Uomo, che da sempre cerca il divino, non può che perdersi nella contemplazione del mistero, guardarlo senza comprenderlo anche quando lo ha al fianco. La scienza, la filosofia e la poesia sono strumenti utili solo alla contemplazione.
Persino le corrispondenze tra gesti sembrano futili: se abbracciare il proprio amato ci porta in una posizione simile a quella della preghiera, allora la preghiera è davvero atto d'amore verso qualcuno? Non è dato saperlo, su tutto vige il silenzio di Dio, anche quando è uomo e siede accanto a chi si pone le domande.




L'atto d'amore diviene così fine esistenziale. Ed oltre quello non c'è nulla: non ci sono personaggi nè riflessioni ulteriori, se non immagini e storie che durano il tempo di un'inquadratura. Se l'invenzione delle VHS permette al cinema di avere una seconda vita, è il cinema stesso a voler negare questa ripetizione eterna, chiudendo in partenza ogni discorso possibile.
Con la conseguenza, tuttavia, che la riflessione si fa sin troppo astratta, come la sostanza divina, sino a sfociare nell'astruso. Impossibile seguire le elucubrazioni di Godard, che si affidano, ora più che mai, totalmente alle citazioni colte, alienando definitivamente ogni forma di recepimento.




Tutto diviene così "passato": sia il racconto, i cui frammenti vengono introdotti da trasfocature flou, sia il discorso. Allo stesso modo in cui il divino perde parte di sè quando diviene carne, la Verità, come sempre per Godard, perde parte di sè stessa quando fissata prima in concetti, poi in parole.
Ciò che resta è l'immagine, la bellezza estetica dell'inquadratura, la contemplazione dei volti degli attori e degli ambienti, fissati in frame quasi sempre immobili, dove la mancanza di movimento forse vuole indicare la mancanza di evoluzione discorsiva e del passaggio del tempo. Anche il passato, dunque, prima di scomparire, si fa presente e solo la percezione dell'attimo finisce per contare.




Discorso sin troppo compiaciuto, per quanto interessante, quello di Godard, che si ora come non mai si perde tra le pieghe e le piaghe del medesimo. Non come in "Re Lear", poichè qui l'ispirazione è forte. Ma proprio come in "Re Lear" senza che sia davvero possibile riflettere assieme all'autore.

venerdì 26 gennaio 2018

I, Tonya

di Craig Gillespie.

con: Margot Robbie, Sebastian Stan, Allison Janney, Julianne Nicholson, Bobby Cannavale, Paul Walter Hauser, Bojana Navakovic, Caitlin Carver.

Biografico

Usa 2017

















Campionessa nazionale a soli 21 anni (nel 1991) Tonya Harding è sicuramente una delle figure più controverse nella storia dello sport americano. Figlia dell'America più gretta, sale agli onori delle cronache sportive per essere riuscita ad eseguire un triplo axel, ossia un salto con tre piroette e mezzo; e, poco dopo, per l'aggressione della rivale Nancy Kerrigan, picchiata durante le nazionali di Detroit del 1992 da uno sconosciuto armato di bastone, per favorirne la vittoria.
Una storia, quella della Harding, che si adatta perfettamente al racconto filmico, data la sua figura, la sua formazione e lo scandalo in cui è stata invischiata. E che Craig Gillespie, tra i migliori mestieranti di Hollywood attualmente in circolazione, porta in scena rifacendosi a Scorsese e Spike Lee, al cinema americano anni '90 del ritorno alla New Wave e, prima ancora, a Godard.




L'intera vicenda viene narrata alternando fiction con finte interviste ai personaggi, come avveniva ne "La Cinese"; ma anche nelle sequenze di pura finzione, i personaggi sfondano sovente la quarta parete rivolgendosi direttamente al pubblico per puntualizzare sulla veridicità di quanto mostrato, in un gioco di complicità non nuovo anche per il cinema americano (basti pensare ad "Infamous"), ma lo stesso riuscito e divertente.
Lo script di Steven Rogers spezza poi il racconto in due: una prima parte con la biografia della Harding, una seconda con i retroscena dell'incidente e delle reazioni dei protagonisti, messi alla gogna mediatica prima ancora di capire cosa sia davvero successo.




Una vita passata tra insulti e pugni in faccia, quella della Harding; nata e cresciuta in un ambiente ottuso, dove la violenza è un modo di esprimersi (al pari di quello mostrato sempre quest'anno nello splendido "Tre Manifesti a Ebbing, Missouri"); non c'è ritegno nel mostrare i pugni presi in pieno volto, le coltellate, i colpi di pistola all'ordine del giorno; la violenza domestica diviene routine, azione alla quale i personaggi si abituano come ad una forma dialogica comune.
Gillespie non usa però un tono cinico, per quanto sopra le righe; chiede allo spettatore una forma di empatia verso la sua protagonista, anche quando stempera le scene più drammatiche con l'umorismo nero. Empatia che si riesce davvero a provare e che non risulta forzata: non c'è ricatto, nè inutile ricerca della drammaticità nelle immagini; i colpi ricevuti dalla Harding fanno male perchè tirati all'improvviso, in modo secco; sopratutto, si riesce ad essere simpatetici grazie alla mancanza di una catarsi finale: non c'è redenzione nella storia di Tonya, non c'è riappacificazione con la mostruosa figura materna, nè con il marito. Non c'è fuga dall'ambiente gretto, nè un trionfo finale. Lasciamo la nostra protagonista su di un ring, a sputare sangue per il pubblico, riflettendo semplicemente su come la violenza sia stata la costante di tutta la sua vita. Tanto che "I. Tonya" finisce per essere più un film sul concetto di violenza che una biografia vera e propria. Ed è in questa scelta narrativa che trova una parte della propria riuscita.




La violenza è quella fisica, ma anche quella verbale. Violenza generata dalla grettitudine, vero "male" presente nel film. La grettitudine di una madre che non ha mai voluto una figlia, quella di un marito che si esprime a sberle, quelle di un amico (Shawn) che vive in un mondo tutto suo, altro sintomo della pochezza umana. E la grettitudine della stessa Harding, anch'ella figlia di quell'ambiente squallido che è la provincia nordamericana, che si esprime sia tramite l'odio, i pugni e gli insulti, sia tramite lo sport, vera valvola di sfogo nonchè unica ragione di vita. Al punto che sia gli allenamenti che le gare di pattinaggio artistico vengono costruite come incontri di boxe, prima ancora che il pugilato sia nella vita della protagonista.





La seconda parte è anche la più convenzionale. Messa da parte la descrizione di personaggi ed ambienti, il film si cala nella ricostruzione dell'incidente Kerrigan, dando le responsabilità a chi le ha per davvero, affondando contro il vouyerismo del pubblico ed il pregiudizio dell'ambiente sportivo. Nulla di nuovo, ma condotto lo stesso con mano ferma.





Su tutto brilla ovviamente la performance della Robbie, semplicemente perfetta, in grado di passare dalle lacrime ai sorrisi nell'arco di un secondo, infondendo una trabordante carica di vita al suo personaggio, al quale aderisce anche sul piano fisico, riprendendo la vera corporatura della Harding, prova definitiva di come non sia solamente la donna più sexy dello showbusinness, ma anche un'ottima esponente della rinomata scuola attoriale australiana.




"I, Tonya" si configura così come un biopic lontano da ogni forma di idealizzazione, attento alla caratterizzazione dei personaggi e graziato da uno stile non nuovo, ma solido. Un perfetto dramma umano celato sotto le spoglie di una commedia sportiva, una visione intrigante e a tratti scioccante.

mercoledì 24 gennaio 2018

Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo

Indiana Jones and the Kingdom of the Crystal Skull

di Steven Spielberg.

con: Harrison Ford, Shia LaBeouf, Cate Blanchett, Karen Allen, John Hurt, Ray Winstone, Jim Broadbent, Igor Jijkine.

Avventura/Fantastico

Usa 2008















Sul quarto capitolo delle avventure del dr.Jones è stato scritto di tutto: da chi lo stronca senza appello a chi lo guarda con sufficienza (quei 6.5 su IMDB e Metacritic puzzano di recensioni comprate lontano mille miglia) sino a chi lo difende a spada tratta come un bel film. Ed è quest'ultima categoria, malauguratamente, ad essere obiettivamente in torto, perché di "Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo" si può solo scrivere male; uscito fuori tempo massimo, con una storia che ha alla base un mcguffin che non può rivaleggiare con i precedenti, stanco fino allo sfinimento, presenta situazioni trite e riciclate e tematiche fantascientifiche che davvero non hanno nulla a che vedere con la saga dell'esploratore armato di fedora e frusta. Ma, ancora peggio, si tratta di un film brutto sia sul piano della scrittura che dell'estetica, oltre che noioso e lento. Un film che rivaleggia con "War Horse" per il titolo di peggior film di Spielberg (battaglia che vince su tutta la linea), che non ha un minimo di senso su tutti i piani e che potrebbe tranquillamente essere inscritto tra i film più brutti del decennio passato. Se non addirittura di sempre, visto che molte delle trovate e molto dello squallore orgogliosamente esibito fanno somigliare questo exploit finto nostalgico come un fratello maggiore del "Dracula" di Argento. Il che è dire tutto.




"Non sono gli anni che pesano, ma i chilometri" esclamava Indy ne "I Predatori dell'Arca Perduta"; ma gli anni sono passati anche per lui: terminata la Seconda Guerra Mondiale, il dr.Jones diviene un agente della C.I.A. in lotta contro i Sovietici. Ed a quanto pare l'età del pensionamento sembra essere anche stata superata, visto che nella prima scena lo troviamo nelle grinfie dell'ufficiale Irina Spalko (Cate Blanchett, che si sforza invano di dare credibilità ad un personaggio macchiettistico); coartato a collaborare, Indy, assieme al doppio (triplo, quadruplo, quintuplo e chi più ne ha...) giochista "Mac" Michale (Ray Winstone, sprecatissimo) ritrova nell'Area 51 (ossia dove è persino sepolta l'indimenticata Arca dell'Alleanza) il cadavere di un alieno caduto a Roswell tempo addietro. La Spalko, infatti, è il capo di un'unità istituita da Stalin per la ricerca e lo sviluppo di armi paranormali (che cosa?) intenzionata a scoprire il famoso "Regno del Teschio di Cristallo", fondato millenni addietro da una civiltà extraterrestre.
Dal canto suo, il povero Indiana Jones, oltre a vedersela con la sovietica di ferro deve anche confrontarsi con una ritrovata Marion Ravenwood (Karen Allen, che sembra appena tolta dalla naftalina tanto è inespressiva) e con Mutt (LaBeuf), teppistello motorizzato che pare essere addirittura suo figlio.




Le sequenze e gli elementi peggiori del film sono anche i più criticati dai fans, per una volta a ragione: le talpe che divengono parziale punto di vista nel primo atto (ma perchè?), l'inutile personaggio di Mac, il villain caricaturale, Shia Labeouf che dovrebbe essere una sorta di nuovo Indy pronto a prendere in mano cappello e frusta per una nuova generazione, ma che non ha un grammo del carisma dell'originale figuriamoci la credibilità come eroe d'azione; ed ovviamente l'ormai mitologica sequenza del frigo usato come rifugio antiatomico, talmente sopra le righe da sembrare uscita da una gag scritta da Paolo Villaggio e che riesce a polverizzare la sospensione dell'incredulità già nella prima mezz'ora di film, perfetto biglietto da visita per lo spettacolo che segue.
Ma i veri problemi de "Il Regno del Teschio di Cristallo", quei difetti che lo rendono per davvero la trashata compiaciuta che è, risiedono più in profondità, nella scrittura e nella messa in scena, ovverosia negli elementi principali della grammatica filmica.




L'intento di Spielberg e Lucas dovrebbe essere simile a quello che muoveva il primo "I Predatori dell'Arca Perduta", ossia riportare in auge un tipo di cinema, quello dell'intrattenimento spensierato, oramai perduto, che nel XXI secolo risulta affossato dall'abuso di quei green-screen che proprio Lucas si è divertito ad imporre come escamotage per non uscire mai dai teatri di posa. Ecco dunque comparire sequenze di scazzottate ed inseguimenti perfettamente coreografe ed eseguiti da veri stuntmen in loco piuttosto che da attori appiccicati su di uno sfondo posticcio, una vera boccata d'aria fresca in un panorama nel quale già aveva cominciato a muoversi la Marvel Studios con la sua filosofia del falso a tutti i costi.
Il che, però, accade solo nella prima metà del film: nella seconda ogni buona intenzione viene gettata alle ortiche e ogni singola sequenza d'azione è ricostruita in studio, eseguita da attori appesi ai fili neanche si fosse in un epigono di "Matrix" e completata con una computer graphic fintissima; l'estetica viene ammazzata in modo definitivo: non c'è ricerca della verosomiglianza e le immagini divengono cartoonesche, quasi grottesche nella loro bruttezza; e, al di là della pura estetica, tutto diviene piatto, diretto con il pilota automatico, senza guizzi o creatività alcuna. L'abbandono di location in favore di green-screen non paga: Spielberg era più a suo agio in esterni, come le immagini dei precedenti film possono testimoniare; chiuso in studio, sottomesso al "metodo Lucas", il suo stile dimostra tutti i limiti possibili, arrivando a creare un'esperienza filmica contraddittoria nelle sue intenzioni prima ancora che genuinamente brutta.




Ed anche volendo soprassedere sul quell'orribile inseguimento in una giungla che sembra uscita da un filmato della prima Playstation, a quelle formiche disegnate a mano sulla faccia degli attori o alle scimmie che sfigurerebbero persino in un cartoon vero e proprio, ad infliggere il colpo di grazia alla visione è la comparsa di quell'alieno che fa le smorfie, modello tridimensionale che avrebbe fatto schifo in una produzione indipendente dal budget nullo, figuriamoci in un blockbuster estivo, al punto che ci si chiede davvero che cosa avessero in mente regista e produttore quando hanno deciso di non rigirare la scena con un animatronico; e alla mente ritornano gli alieni di "Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo", ossia nani in costume e marionette animate dal mai troppo lodato Carlo Rambaldi, che all'epoca dell'uscita de "Il Regno del Teschio di Cristallo" avevano già trent'anni sul groppone ed erano lo stesso decisamente più belli e credibili.




Alieno che fa persino cambiare il punto di riferimento cinematografico della serie. Se i precedenti film di Indy erano un omaggio ai vecchi serial d'avventura, "Il Regno del Teschio di Cristallo" si rifà più al cinema di fantascienza anni '50, con i riferimenti alla Guerra Fredda, alla paura del Rosso e, appunto, agli omini verdi. Ma cosa c'entra quel cinema con la serie di Indiana Jones? Assolutamente nulla. Perchè una tale scelta? Impossibile da dire.
Quel poco di sospensione dell'incredulità che potrebbe ancora sopravvivere viene annichilita dalla scelta dei cattivi; dovendosi adeguare ai B-Movies anni '50 ed al tempo trascorso, non ci sono più nazisti o sette di adoratori di Kalì, bensì i Sovietici; ed ancora ci si chiede come sia possibile che una dittatura che ha fatto della pura razionalità e della distruzione di ogni superstizione un imperativo, abbia istituito un commando per le operazioni sovrannaturali.
Di tutti questi interrogativi non c'è risposta, così come non ce ne alcuna con riguardo a chi è da imputare la responsabilità per un tale scempio. Da buoni ciarlatani, Spielberg e Lucas hanno cominciato a fare scaricabarile a vicenda già all'indomani dell'uscita del film in sala. E a sentire Spielberg, le idee peggiori le ha avute Lucas, comprese quella degli alieni e del frigo a prova di bomba atomica.
Forse la verità è un'altra ed è molto più semplice: Spielberg e Lucas, in quel 2008, altro non erano se non l'ombra dei cineasti che furono, due vecchi ormai privi di talento e voglia di stupire; ecco perché tra idee idiote ed una messa in scena insopportabile, il quarto Indy è un film trash in piena regola; per di più talmente squallido da non indurre neanche al riso e per questo un fallimento anche come pellicola trash.



Cercare qualcosa di buono in questo disastro è inutile. Semmai, "Il Regno del Teschio di Cristallo" può essere visto come un monito a quanto in basso sia in grado di scendere Hollywood quando i suoi progetti più ambiziosi vengono affidati a persone senza talento, pur quando queste sono gli originali fautori degli stessi. Ed è ironico il fatto che sia uscito nella stessa estate di "Iron Man", altro esempio di pessimo cinema di intrattenimento destinato a divenire un trend.

lunedì 22 gennaio 2018

L'Ora più Buia

Darkest Hour

di Joe Wright.

con: Gary Oldman, Kristin Scott Thomas, Lily James, Ben Mendelsohn, Stephen Dillane, David Pickup, David Schofield.

Biografico/Storico

Inghilterra 2017















Non c'era certo bisogno di un film come "L'Ora più Buia" per confermare il fatto che Gary Oldman è, con molta probabilità, il più grande attore vivente; inutile, visto che già in "Dracula di Bram Stoker" aveva dimostrato di poter essere credibile recitando sotto chili di make-up; e nella sua sterminata filmografia, ha sempre dimostrato di poter recitare sopra le righe senza scadere nell'overacting inutile o nel ridicolo.
Eppure, la sua prova nei panni di Winston Churchill è a dir poco rimarchevole: Oldman si perde tra le pieghe del personaggio, si trincera nei suoi borbottii e lascia trasparire con sincerità ogni emozione attraverso il trucco, creando un personaggio talmente vivido da bucare lo schermo.
Peccato che il film in sè non sia altrettanto memorabile.




Lo sguardo di Wright è giusto, ammira Oldman con moviemtni di macchina virtuosistici ed una messa in scena spettacolare anche quando porta su schermo le semplici sedute del parlamento; e si affida spesso alla bellissima fotografia di Bruno Debonnel, tutta basata sull'oscurità, sull'assenza di luce dell' "ora più buia", appunto, creando immagini splendide.
Decisamente più convenzionale è lo script, troppo ancorato a soluzioni facili e luoghi comuni.




L'ora più buia del titolo è quella che l'Inghilterra ha attraversato nel 1940, durante le operazioni di evacuazione di Dunquerque, al punto che l'intero film può essere visto come una sorta di "altro lato" del "Dunkirk" di Nolan; momento in cui Churchill deve decidere se continuare con l'ostilità aperta verso la Germania Nazista o arrendersi, consegnandosi all'Italia per ottenere delle decenti condizioni di resa.
Il conflitto è quello tra il primo ministro ed il fronte arrendevolista, guidato dall'onorevole Halifax (Stephen Dillane), mancato premier; e, in generale, tra la vittoria contro il peggior dittatore della Storia ed una salvezza umiliante. Conflitto al quale viene tolta ogni ambiguità: la vittoria è l'imperativo e persino quando tutto sembra perduto, la sceneggiatura ricorre al luogo comune più becero per fare il punto. Davvero squallido vedere Churchill perdersi nella tube londinese per trovare un intero convoglio di patrioti, guidati da una bambina chicchirichì, neanche si stesse assistendo ad una fiction Mediaset.




Convenzionalità che azzoppa irrimediabilmente ogni potenziale di effettivo interesse verso lo storia ed appiattisce la figura del protagonista, che finisce così per vivere unicamente grazie al suo straordinario interprete.
Di conseguenza, "L'Ora più Buia" vive unicamente grazie agli sforzi di Oldman e Wright, finendo per perdersi in una routine retorica e bambinesca, davvero infausta per una pellicola che vorrebbe confrontarsi con i territori della Storia e delle sue contraddizioni.

venerdì 19 gennaio 2018

Madre!

Mother!

di Darren Aronofsky.

con: Jennifer Lawrence, Javier Bardem, Ed Harris, Michelle Pfeiffer, Brian Gleeson, Domnhall Gleeson, Amanda Chiu.

Usa 2017














---CONTIENE SPOILER---


Nel cinema di Aronofsky esiste un'unica costante: la totale mancanza di compromessi. La sua visione è sempre e comunque personale, mai filtrata, ammorbidita o edulcorata in alcun modo; un processo totalmente autoriale, che lo ha portato a dirigere pellicole spiazzanti e strazianti quali "Requiem for a Dream" e "The Wrestler", a sperimentare con influenze religiose new age e non con "The Fountain" e "Noah", oltre che ad allontanarsi da progetti più squisitamente commerciali ogni qual volta non sia riuscito ad ottenerne il pieno controllo, come nei casi di "Batman Begins", "The Wolverine" e "RoboCop".
Un cinema forte, il suo, vibrante e doloroso, che non concede pietà alcuna nè allo spettatore, tantomeno ad i suoi personaggi (il più delle volte); un cinema di stampo squisitamente espressionista, benchè si debba anche a lui la creazione del registro oggettivista che tanto spadroneggia nel cinema indie e non americano da qualche anno a questa parte (camera ad altezza d'uomo e nuche perennemente in primo piano).
In tal senso, "Madre!" è la quintessenza del cinema di Aronofsky, dove la sua mano calca maggiormente i toni, infischiandosene di ogni conseguenza (il che purtroppo gli ha causato l'alienazione dei favori di critica e pubblico) per creare un registro dirompente, disturbante, mai conciliativo, eppure inesorabilmente espressivo.



Una storia totalmente metaforica, quella di "Madre!", dove ognuno può leggervi un significato differente a seconda della propria cultura e sensibilità, tanto che lo stesso Aronofsky ha dovuto rilasciare un'intervista spiegando qual'è l'interpretazione "ufficiale" da attribuire agli eventi narrati, senza però escludere la possibilità di leggerli in modo differente.
E sono almeno tre le interpretazioni possibili alla storia della Madre (la Lawrence), del Poeta (Bardem), della loro fatiscente abitazione isolata dal mondo e dei loro ospiti poco desiderati.
La Madre è l'Ispirazione, una musa che dona allo scrittore lo strumento primordiale per generare un'opera d'arte, simboleggiato dal cristallo. Da qui il parallelo con la gravidanza, la nascita di una creatura concepita da due soggetti e pronta a liberarsi nel mondo. Allo stesso modo, anche la casa è creatura vivente, frutto del lavoro della Madre, quindi essa stessa opera, nello specifico un rifugio dal mondo e dai suoi orrori. Ma l'Arte non può essere popolarizzata, pena la sua distruzione. Da qui le figure dei due ospiti (Ed Harris e Michelle Pfeiffer) e dei loro figli (i fratelli Gleeson), che portano la violenza e la malattia in un sancta sanctorum dedicato alla pura generazione della vita. E da qui il catastrofico finale, con le parole del poeta che divengono mezzo per redimere e distruggere al contempo, sino ad una catarsi in cui l'opera d'arte viene cannibalizzata dal pubblico per poi essere dimenticata e quanto di buono costruito nel tempo viene distrutto, in un ciclo continuo che è il percorso artistico di un autore.




Ancora, la storia può essere una metafora della gravidanza, della creazione di un'opera, sia essa una vita, uno scritto o un'abitazione, che se lasciata libera nel mondo viene da questo cannibalizzata, fatta a pezzi, insozzata per il gusto di farlo, allo stesso modo in cui l'innocenza viene distrutta dalle brutture del mondo.
Infine, l'interpretazione più calzante, quella di stampo biblico-ecologico, che ricollega "Madre!" a "Noah". La Madre è la Natura, il Poeta è Dio, la casa è la Terra. I due ospiti sono Adamo ed Eva, che colgono il frutto proibito, ossia il cristallo, ed hanno generato due figli che sporcano di sangue il creato ed i cui compagni sono causa di un diluvio. Il figlio della Madre e del Poeta è il Cristo, la sua venuta sulla Terra porta a guerre e massacri perpetrati in suo nome; ed alla fine viene ucciso dai suoi stessi adulatori e divorato, come nel sacramento della Comunione. Gli umani si rivoltano contro la Madre Natura, ne strappano via i frutti (i pezzi della casa) senza ritegno, la percuotono per distruggerla e per questo la casa comincia a crollare, ma Dio la salva, finchè la stessa natura decide di ribellarsi, di massacrare quegli umani che tanto l'hanno detestata, dando fuoco al Creato. Dio ovviamente sopravvive e dalla madre terra estrae il frutto della vita, l'Amore, pronto a ricominciare un ciclo di creazione/distruzione, pur conoscendone già l'esito.




Metafora pretenziosa? Sicuramente, ma almeno questa volta il tono non è predicatorio. Aronofsky non conia un bizzarro j'accuse contro i carnivori o i miscredenti (o i credenti, qui cattivi in una bizzarra inversione dei ruoli rispetto al film precedente), si limita a creare una metafora potente, un racconto allegorico totalmente basato sulla percezione e sul punto di vista. Che qui è quello di Jennifer Lawrence, chiusa in primissimi piani, con la macchina da presa che ne pedina costantemente i movimenti o ne scruta la fisicità dall'erotismo trabordante.
"Madre!" è un film su Jennifer Lawrence, sulla musa e su come convive con l'uomo che deve ispirare, su come reagisce alla graduale ed inevitabile distruzione di tutto ciò che ha costruito e che per questo rappresenta. Situazione che prende vita nelle forme di un thriller dove i piccoli gesti sono più disturbanti dei colpi di pistola. Ogni piccolo gesto porta con sè una sensazione di malessere, di cattiveria strisciante, sia esso quello che porta a gettare i panni umidi in terra, sia quello dell'assenza del partner lì dove lo si era lasciato; quasi come Bergman, Aronofsky riesce a creare un'atmosfera sottilmente inquietante, dove è talvolta il nulla a suggerire un pericolo mai identificabile e sempre presente.



Da qui la perfetta riuscita dell'opera; "Madre!" è anzitutto un ottimo thriller, poi una metafora aperta ad ogni interpretazione dal tono disturbante e, per questo, sempre vibrante, per quanto la spocchia del suo autore sia avvertibile in ogni fotogramma.

lunedì 15 gennaio 2018

Tre Manifesti a Ebbing, Missouri

Three Billboards outside Ebbing, Missouri

di Martin McDonagh.

con: Frances McDormand, Sam Rockwell, Woody Harrelson, Peter Dinklage, Caleb Landry Jones, Kerry Condon, Abbie Cornish, Lucas Hedges, John Hawks, Samara Weaving, Amanda Warren, Zelijko Ivanek, Kathryn Newton.

Drammatico

Usa, Inghilterra 2017








Non proprio il film che ci si aspetterebbe da Martin McDonagh questo "Tre Manifesti", lontano anni luce dai precedenti "In Bruges" e "7 Psicopatici"; laddove McDonagh ci aveva abituati a commedie nerissime che si divertivano a sovvertire i clichè del noir, con questa sua ultima prova si cimenta in qualcosa di più rischioso, ossia contaminare il dramma umano con qualche spruzzata di umorismo, per creare qualcosa di unico, coinvolgente ma anche divertente. E per fortuna, grazie al suo polso saldo, la scommessa riesce.




Ci sono echi dei fratelli Coen  e di Cormac McCarthy per tutto il film; d'altronde, l'ambientazione para-rurale non può che puntare in quella direzione, così come l'uso del registro umoristico e le implicazioni della storia.
Una storia di dolore e di rivalsa, quella di Mildred, interpretata dalla McDormand ossia il volto coeniano doc; una storia di vendetta contro le forze dell'ordine, che hanno il volto umano di Woody Harrelson e quello strafottente di Sam Rockwell; la storia di una madre che decide di sputtanare la corruzione ed il malcostume della polizia in un modo inedito ed efficace, ossia affiggendo tre cartelloni appena fuori città, dove descrive la morte della figlia, stuprata mentre veniva uccisa, e la successiva inerzia delle indagini.
Da qui il conflitto verso l'ordine costituito, l'odio di una genitrice nei confronti di un'istituzione silente, arroccata nei propri vizi. Un conflitto che però non fa salvo nessuno.




La polizia è imbelle, ma il capo Willioughby non è un lavativo, nè corrotto; è in realtà un uomo ligio al dovere, che non è riuscito a trovare l'assassino pur avendo fatto tutto il possibile; un uomo dallo sguardo pregno di umanità, attaccato alla famiglia quanto se non più di Mildred, che cerca di temperarne l'animo e di tenere unito, al contempo, il corpo di polizia.
Di tutt'altra indole è l'agente Dickson, che Rockwell caratterizza come un redneck fuori controllo: perennemente ubriaco e mammone, si diverte a distruggere tutto quello che gli si para innanzi, iniziando una guerra aperta contro Mildred e la sua personale crociata.




Eppure, è proprio questo sfatto tutore dell'ordine a rappresentare il volto più umano della storia, che finisce per redimersi grazie al dolore. Quella stessa specie di dolore che ha ingenerato rabbia in Mildred ed in parte anche in lui, finisce per trasformarlo, per cambiarne in meglio l'indole scapestrata sino ad una maturazione totale.
In modo simile, anche Mildred realizza la futilità delle sue azioni più radicali mediante il confronto con il prossimo. La rabbia che prova non è sete giustizia, quanto rivalsa per un'offesa subita.




E Mcdonough, al pari dei Coen, si diverte a sovvertire i centri nevralgici del dramma: non c'è risoluzione vera e propria, solo una presa di coscienza da parte dei personaggi; tantomeno una ricomposizione vera e propria di tutti i drammi (primo fra tutti, quello della famiglia di Mildred e della sua relazione con James); così come l'umorismo al vetriolo finisce non tanto per alleggerire la vicenda, quanto per rendere più caustici personaggi e situazioni.
Il dramma, di conseguenza, non viene annacquato, anzi forse riesce persino a guadagnare qualcosa in potenza; non c'è voglia di ridicolizzare i personaggi e le situazioni: ogni volta che la drammaticità deve essere mostrata, entra in scena con livore, finendo per colpire al cuore ed allo stomaco.




"Tre Manifesti a Ebbing, Missouri" si configura così come un ibrido sorprendente: un dramma asciutto e potente innaffiato con dosi di umorismo nerissimo, ennesima prova di talento per un filmmaker ingiustamente poco conosciuto presso il grande pubblico.

venerdì 12 gennaio 2018

L'Amore Fugge

L'amour en fuite

di François Truffaut.

con: Jean-Pierre Léaud, Marie-France Pisier, Claude Jade, Dani, Daniel Mesguich, Dorothée, Julien Bartheau.

Commedia

Francia 1978














Avevamo lasciato Antoine Doinel alle prese con la vita matrimoniale, non tanto felicemente sposato con la bella Christine e padre di un bel pargolo. Ma "Domicile Conjugal" non è la fine della sua storia, pur se perfetto nella sua parabola; onere che spetta a "L'Amore Fugge", conclusione non proprio riuscita della storia dell'alter ego di Truffaut, che questi dirige per ragioni squisitamente commerciali: il flop de "La Camera Verde" lo ha costretto a far tornare in fretta e furia in azione Doinel e le sue scalcinate relazioni amorose; fretta che non ha pagato: palesemente a corto di fiato, "L'Amore Fugge" è una pellicola che non sa dove andare a parare e nel dubbio decide di puntare sul sicuro e riproporre tutti i clichè del cinema del suo autore.




Una storia che non è continuazione, ma ritorno al passato, quella di "L'Amore Fugge"; ritroviamo Antoine divorziato e nuovamente tra le braccia di una giovane, la bella Sabine (Dorotheè); ma è l'incontro con la sua prima fiamma Colette (Marie-France Pisier) ad innescare il solito tran-tran di amori e tradimenti.
Una narrazione, quella imbastita da Truffaut, totalmente frammentaria, che ripesca intere sequenze da "Domicile Conjugal", "Baci Rubati", dal corto "Antoine e Colette" e persino da "I 400 Colpi" per costruire una storia che riflette sulla crescita del personaggio e le sue disavventure. Così come i nuovi "sketch", che sono anch'essi per lo più flashback, che aggiungono poco o nulla al personaggio, come in quello dove Antoine intraprende una relazione extraconiugale con la bella Dani.
Un personaggio che in realtà non cresce, quello di Doinel. D'altro canto, Truffaut è stato chiaro in proposito: Antoine è un bambino, così come molti uomini (se non tutti) mantengono un che di infantile anche da adulti; questa vena, nel suo alter ego, è più marcata: non c'è stata, nè può esserci vera maturazione per lui, nè umana, né sentimentale; il suo è un personaggio perennemente in fuga, che salta da una donna all'altra, da un amore all'altro in cerca di un'ideale partner perfetta, che sia moglie, amante, madre e sorella, ossia donna totale e definitiva, tipica fantasia della prima adolescenza.




Da qui l'uso dei flashback (in realtà adoperanti anche per aumentare artificialmente la durata di una storia sin troppo semplice) e la rievocazione di quella figura materna che, da strega insensibile, diviene genitrice che ha un suo particolare modo di amare lo scomodo figlio, benchè non ci sia mai il perdono effettivo da parte di quest'ultimo; nè vi è la ricostituzione totale dell'amore con Colette, riagganciato con l'attuale storia di Antoine in virtù della strana relazione che la ragazza intraprende con un uomo che sembra sposato, tanto è distante, divenendo un ideale doppio di Antoine nella sua prima storia con Christine, anche se non a lui speculare.




Ed è la mancanza di una catarsi, di una maturazione effettiva, di una presa di coscienza o di un traguardo vero e proprio che sia a rappresentare il limite implicito del film, che finisce per non aggiungere nulla alle peripezie, nè alla caratterizzazione dello scapestrato ma simpatico personaggio. Si arriva ad un finale dove tutto è come all'inizio, non tanto in una ideale circolarità quanto nella riproposizione di un clichè, lo stesso visto alla fine di "Baci Rubati", dove una situazione di composizione amorosa ben può essere in realtà solo momentanea, come sottolineato genialmente da Truffaut alternando il bacio tra Antoine e Sabine con quello della coppia più anziana ed il flashback in cui Antoine è sballottato nella centrifuga, simbolo della sua burrascosa vita sentimentale.




Un film inutile e posticcio, "L'Amore Fugge". Ma pur sempre un film di Trufaut, quindi garbato e simpatico, che pur non dicendo nulla di rilevante, lo fa con stile, senza essere pesante, nè pedante o noioso; e per questo, è almeno in parte una prova riuscita.

mercoledì 10 gennaio 2018

Lady Bird

di Greta Gerwig.

con: Saoirse Ronan, Laurie Metcalf, Tracy Letts, Lucas Hedges, Lois Smith, Timotheè Chalamant.

Usa 2017





















Il film dell'anno 2017 è, almeno per la critica, "Lady Bird", che con quel suo titanico 99% su Rottentoamtoes è stato consacrato come l'opera più importante di questa stagione; senza contare i recenti riconoscimenti che ha ricevuto ai Golden Globes: miglior attrice alla sempre ottima Saoirse Ronan e miglior commedia, tra gli altri.
Opera prima di Greta Gerwig, che scrive e dirige il tutto da vera autrice, "Lady Bird" è una storia vista e stravista: giovane adolescente nata e cresciuta in un ambiente chiuso e bigotto, incompresa ed in rotta di collisione con l'intero mondo, sogna la grande città ed un avvenire di successo lontano dal nido; ciò che convince, per fortuna, è il risvolto finale della storia e, in parte, il tono con cui tutto viene narrato, che finiscono per rendere questo esordio d'autrice quanto meno digeribile.




Musa di Noah Baumbach, la Gerwig viene da quel cinema mumblecore che da qualche anno sembra finalmente essere stato disincrostato dalla scena indie americana; ma nel suo film, di quel piccolo e sopravvalutato movimento, porta poco o nulla, giusto il gusto che un'estetica hipster ed il registro dimesso; nessuna improvvisazione, nè citazioni snob, per quanto il film sia un indie al 100%.
Anzi, tutto in "Lady Bird" potrebbe far pensare ad una decostruzione del mumblecore; anche al di là dell'abbandono di alcuni tratti essenziali di quel modo di fare cinema, a colpire è già la storia in sè stessa, che pur partendo e sviluppandosi da luoghi comuni, finisce per arrivare ad una risoluzione decisamente inedita, dove la protagonista realizza quanto tenesse a quella Sacramento tanto disprezzata.




Perchè la Lady Bird del titolo, pseudonimo voluto da Christine al posto del suo nome cattolico, è un personaggio che trasuda stereotipi del cinema americano: capelli tinti come forma inutile di affermazione anticonformista, rabbia verso una figura materna passivo-aggressiva mal sopportata, passione sfrenata per la cultura europea ed una migliore amica brutta ma dal cuore d'oro.
E' il suo percorso, semmai, a colpire: alla fine del suo viaggio, torna idealmente indietro, riscopre il sentimento affettivo verso tutto quello che ha lasciato alle spalle e giunge ad una riconciliazione totalizzante, sia verso l'antipatica madre, sia verso quell'educazione cattolica tanto vituperata.




Allo stesso tempo, il modo in cui la Gerwig si avvicina al personaggio è ambivalente; da un lato vi è una forma di affetto verso questa ragazza vicinissima alla sua esperienza personale, dall'altra una forma di distacco che ne condanna lo snobbismo spicciolo, quasi a criticare il compiacimento di tanto cinema hipster del quale lei stessa è stata volto riconoscibile.
A non convincere, di conseguenza, non è lo script, che pur si affida sin troppo a formule collaudate, quanto la messa in scena, priva di mordente.




La Gerwig si affida troppo alla scrittura, troppo poco alle immagini; pur sapendo creare inquadrature degne di nota (i carrelli laterali a sottolineare il percorso di crescita della protagonista), non si affida mai alla scena in sè per narrare, quanto alle parole ed alle relazioni dei personaggi, finendo per dirigere il tutto con il pilota automatico; non c'è vero mordente, di conseguenza, ed il tono risulta sin troppo docile e dimesso, quando un pò di coraggio e di enfasi in più ben avrebbero potuto rendere "Lady Bird" un film memorabile, piuttosto che un semplice esordio raccattapremi di cui, forse, tra un anno ci saremo tutti scordati.

lunedì 8 gennaio 2018

Munich

di Steven Spielberg.

con: Eric Bana, Daniel Craig, Geoffrey Rush, Ciàran Hinds, Mathieu Kassovitz, Hanns Zischler, Mathieu Amalric, Ayelet Zurer, Michael Lonsdale, Valeria Bruni Tedeschi.

Drammatico/Storico

Usa, Francia, Canada 2005
















La vendetta come sacra missione, la legge dell' "occhio per occhio, dente per dente" è, nella comunità ebraica, ancora oggi molto spesso un imperativo. Imperativo criticato dagli stessi appartenenti, consci della futilità del ripagare la violenza con la violenza, di perpetrare un castigo inutile come pura forma di riscatto.
Steven Spielberg non si è mai sbilanciato in critiche verso la propria comunità; unico tassello della sua filmografia a porre lo sguardo verso le proprie origini era "Schindler's List" , divenuto (anche giustamente) perfetto manifesto delle tragedie che colpiscono il popolo ebraico, di certo non una forma di catarsi verso i possibili limiti culturali del medesimo. Ciò fino al 2005, fino a "Munich", il suo film più spiazzante, la sua opera più cupa e disperata, un film agli antipodi della sua canonica produzione, anche considerando un altro film inusuale della sua carriera come "L'Impero del Sole". Un apologo morale ai limiti del j'accuse, che parte da un fatto storico preciso per divenire perfetta parabola universale, oltre che perfetto film intimista.




Alle olimpiadi di Monaco del 1972, durante la notte del 5 settembre, un commando di soldati dell'organizzazione terroristica palestinese Settembre Nero irrompe nel villaggio olimpico, uccide due atleti della delegazione israeliana e ne prende in ostaggio il resto. Dopo il fallimento delle operazioni di liberazione ad opera della polizia tedesca, l'intera squadra viene trucidata.
Come forma di ritorsione, il governo israeliano guidato da Golda Meir dà il via libera ad una serie di operazioni del Mossad volte ad individuare ed uccidere i mandanti dell'attentato e tutti i soggetti coinvolti o comunque collegati all'estremismo islamico; l'operazione viene battezzata "Ira di Dio" per sottolinearne la sacralità. In particolare, per eseguire l'omicidio di 11 sospettati, il Mossad assume un gruppo di mercenari; e nella ricostruzione di Spielberg, è il neo padre Avner (Eric Bana, perfetto nel ruolo), agente del Mossad licenziato ad hoc per evitare collegamenti, a guidare una squadra composta da freelance incaricata di decapitare il vertice di Settembre Nero.




"Munich" non è semplicemente una ricostruzione storica, nè un film sull'antisemitismo, tantomeno una semplice critica all'operato dello Stato di Israele nei fatti successivi all'attentato a Monaco; o meglio, è, sì, tutto questo, ma anche un film sull'empatia, un apologo morale ma mai moraleggiante sul cocectto di tolleranza, fratellanza e sull'importanza della figura paterna.
La "sacra vendetta" viene spogliata di ogni gloria, ma anche di ogni retorica; Spielberg dà per assodato che lo spettatore conosca i limiti insiti nel concetto di ritorsione e decide di concentrarsi sulle emozioni provate dal suo gruppo di personaggi, in particolare su quello di Avner.
Il sentimento amoroso, la paternità come protezione, viene a lui negata a causa dell'inizio delle operazioni; una delle prime vittime vive con la figlia, per questo decide di rinviarne l'esecuzione; la comunanza sentimentale porta ad una forma di empatia: l' "altro" non può di conseguenza essere visto come estraneo, come nemico distante sul piano umano ed ideologico.
Cosa che invece non accade ad Atene, dove il leader del gruppo palestinese che si trova (per caso o per macchinazione?) a condividere la casa sicura viene ucciso nello scontro successivo ad un dialogo nel quale i due non avevano trovato un terreno comune di confronto. Il nucleo familiare, l'importanza dello stesso ed il ruolo del padre, divengono così comune denominatore per accomunare i popoli, tutti figli dello stesso Dio, tutti padri di figli nati uguali.
Avner è di fatto un uomo privo di una figura paterna, che trova nel misterioso "Papa" (Michael Lonsdale) un riferimento solo temporaneo, ma che in quei valori da questi tanto esibiti riesce ad identificarsi. E per quanto possa suonare melenso, Spielberg riesce a convogliare l'idea e la morale annessa in modo asciutto, per questo estremamente convincente.




Contrapposta all'empatia, la vendetta e con essa la violenza, che per una volta Spielberg non cela, anzi mostra in tutta la sua carica disturbante, con spruzzi di sangue ad ogni uccisione, purgando l'atto da ogni possibile risvolto catartico; la violenza è pura distruzione, annientamento non di un obbiettivo, ma di una persona vera e propria, in grado di provare paura e chiedere pietà al proprio assalitore. L'atto dell'uccisione viene spesso dilatato, portato verso un piano temporale più esteso, che ne sottolinea la brutalità, come con il primo omicidio o con l'uccisione dell'assassina belga: la morte è furto di vita, che scivola via dalle vittime in modo doloroso, tra lacrime e fiotti di sangue che lentamente fuoriescono dal corpo, come a sottolineare l'anima che se ne distacca.
Da qui l'inutilità dell'atto vendicativo: per ben due volte Avner chiede al suo referente se le proprie azioni servono a qualcosa ed in entrambi i casi la risposta è evasiva; come le unghie che ricrescono, anche i vertici di Settembre Nero e delle altre organizzazioni connesse sono pronti a sostituire i propri capi con altri più feroci e privi di scrupoli. Non c'è nessuna catarsi neanche nell'atto vendicativo, oltre che nell'omicidio in sè; tant'è che nel climax Avner non ha una realizzazione, già posseduta sin dalle prime battute della storia, quanto il raggiungimento di una forma di comunanza definitiva verso le vittime di Monaco, ora uguali anche a coloro che ne hanno ordinato o hanno comunque partecipato alla loro esecuzione.




La fotografia del sempre ottimo Janusz Kamiski spoglia le immagini di ogni colore e le immerge in luci contrastate; le ombre divorano la luce allo stesso modo in cui il sentimento negativo divora l'anima di Avner e dei suoi compagni. Mano a mano che la storia procede e la loro paranoia strisciante si fa più marcata, anche le immagini si fanno più cupe e fredde, forma espressionista di quel nugolo di emozioni vere protagoniste del film.
Mentre la mano di Spielberg è sicurissima, imprime il giusto ritmo ad ogni sequenza ed al racconto in generale, sapendo sempre quando accelerare e quando rallentare, riuscendo sempre a tenere alta la tensione.




Una negatività, quella di "Munich", totale, che non fa sconti, nè si arrocca in un finale consolatorio; per quanto il valore familiare sia importante, Spielberg decide di chiudere la storia con un finale aperto, con una nota amara di definitiva realizzazione dell'inutilità della violenza e, di conseguenza, di tutto il dolore causato.
Il coraggio qui mostrato è più unico che raro: se persino in "Schindler's List" il Re Mida di Hollywood cadeva talvolta nelle trappole più ovvie, in "Munich" le evita tutte, creando la sua opera più compatta e, di conseguenza, coraggiosa, un capolavoro di stile e contenuti che pur non essendo rappresentativo del suo cinema, ne è al contempo uno degli apici indiscussi.