lunedì 26 febbraio 2018

Il Filo Nascosto

Phantom Thread

di Paul Thomas Anderson.

con: Daniel Day-Lewis, Vicky Krieps, Lesley Manville, Sue Clark, Joan Brown, Harriet Leitch, Dinah Nicholson.

Usa 2017
















---CONTIENE SPOILER---


L'amore come controllo e manipolazione, sottomissione ed affabulazione; no, non è uno dei celebri drammi di Rainer Werner Fassbinder, ma l'ultima fatica di un Paul Thomas Anderson, che si conferma artista poliedrico per tematiche e stile. Dopo le forme stroboscopiche di "The Master" ed il caos di "Vizio di Forma", Anderson si cala nelle geometrie di un atelier di moda inglese degli anni '50 per dar vita ad un dramma volutamente freddo e formale, graziato da quella che è probabilmente l'ultima performance del grande Daniel Day-Lewis.




Al centro della vicenda, come ne "Il Petroliere", una figura egomaniaca, Reynolds Woodcock (Lewis), proprietario dell'omonima casa di moda che gestisce coadiuvato unicamente dalla sorella Cyril (Lesley Manville) e che trova nella cameriera Alma (Vicky Krieps) una modella ed amante perfetta.




Una storia semplice, quella di "Phantom Thread", ossia il filo nascosto che permette a sua volta di cucire ogni cosa dentro un abito. Un filo che unisce due esistenze e che ne cela le emozioni, raggelate sino a renderle eteree.
Reynolds è un maniaco del controllo, un uomo che vive in modo meticoloso una routine quotidiana sacrosanta, la cui perfezione è pari solo alla maestria che riversa nel suo lavoro; lavoro per il quale sembra provare l'unica passione smodata della sua esistenza, al punto da non lasciare che delle clienti indegne indossino i suoi abiti.
Alma diviene così un elemento di disturbo, una donna che con le sue esigenze ed il suo carattere più semplice infrange quell'equilibrio ferreo nella vita di Reynolds; da qui le crisi continue, il rincorrersi di due figure quasi antitetiche, che combattono una battaglia caratteriale in nome di un amore totale.




Un amore che ciascuno vive a modo suo. Alma manipolando il marito, ferendolo nel corpo per averlo fisicamente tutto per sè. Reynolds sopportando i modi un pò rozzi ma sempre genuini della moglie. Due amanti agli antipodi, la cui attrazione è per questo irrefrenabile. Attrazione che diviene controllo, sottomissione dell'amato per non doverlo dividere con il mondo.
Anderson esplora così queste due psiche ai limiti della devianza: Reynolds perso nella sua mania, orfano di quella figura genitoriale al solito assente persino quando si fa visione, in grado unicamente di seguire pedissequamente le proprie pulsioni caratteriali sino a chiudersi sovente in sè; Alma ossessionata dall'avere quell'oggetto misterioso che è il suo uomo, divenire parte integrante della sua vita, rivoltarla come un calzino pur di farla propria.
Laddove Anderson va oltre l'eventuale modello fassbinderiano è nella coscienza che i personaggi hanno della reciproca impossibilità di soffrire il carattere altrui. Da qui il compromesso, in un finale eseguito con maestria per celare l'atroce ferocia insita nelle loro azioni.




Se le passioni sono ardenti ed impossibili da sopprimere, la regia le nasconde tra le pieghe di immagini glaciali, dalla geometria sempre ricercata. La bellezza delle immagini, di quel mondo della moda tanto distante nel tempo eppure tanto simile a quello odierno, si fa gelido tessuto che copre ogni calore umano sino a trasformare i personaggi in automi, schiavi di sè stessi. Da qui una compattezza stilistica perfetta, dove ogni sbavatura viene evitata con un'attenzione maniacale, al pari di quella usata dal protagonista nel confezionare i propri abiti.




Anderson crea così un perfetto esempio di melò postmoderno, raffinatissimo e dalla cattiveria inusitata, un altro perfetto tassello in una carriera a dir poco impeccabile.

domenica 25 febbraio 2018

Mute

di Duncan Jones.

con: Alexander Skarsgaard, Paul Rudd, Justin Theroux, Seyneb Saleh, Noel Clarke, Dominic Monaghan, Nikki Lamborn, Anja Kaminski.

Noir/Cyberpunk

Inghilterra, Germania 2018

















Un progetto a lungo inseguito, quello di "Mute", che Duncan Jones mise in cantiere già all'indomani dell'uscita del suo esordio "Moon"; un progetto che doveva essere il riscatto di un autore che con "Warcraft" ha fallito nell'avviare un franchise e, ancora prima, nel creare un fantasy credibile.
Un film personalissimo, che Jones dedica ai genitori, in cui torna la figura paterna come martire predestinato, segno del suo rapporto difficile con il padre David Jones, alias David Bowie.
Un'opera che, come purtroppo spesso accade con i progetti più personali ed ambiziosi, scivola verso il baratro del malriuscito, senza mai riuscire a rialzarsi, schiacciata da una mole di ambizioni che restano sempre totalmente inespresse.




Se con "Moon" il punto di riferimento era il "Solaris" di Tarkovsky, in "Mute" Jones segue il tragitto di "Blade Runner" (anche se l'uso di auto d'epoca lo fa somigliare più ad "Innocence- Ghost in the Shell 2"); l'impianto è quello di un noir classico, che richiama alla mente anche il "Frantic" di Polanski: in un futuro cyberpunk, a Berlino, l'amish Leo (Skarsgaard) deve ritrovare l'amata Naadirah (Sayneb Saleh) e nella sua ricerca incrocerà Cactus Bill (un baffutissimo Paul Rudd), medico dell'esercito disertore che cerca con tutti i mezzi di lasciare il paese.




Una trama classica, cui si affianca uno svolgimento del tutto lineare, con un unico e duplice colpo di scena per tenere alta la tensione verso il finale.
L'enfasi viene posta più che altro sui personaggi. Da una parte Bill, sboccato ed irriverente genio della chirurgia, ammanicato con il sottobosco criminale berlinese, in grado di compiere ogni gesto malsano pur di dare un futuro alla propria figlioletta. Assieme a lui, lo stralunato Duck (Theroux), ingegnere della bionica nonchè pedofilo irredento, a formare una strana coppia di folli a spasso per la metropoli distopica.




Se lo spassoso duo Rudd-Theroux regge bene la scena, del tutto fuori luogo si rivela la scelta di Alexander Skarsgaard per il ruolo di Leo; un amish che si lascia tentare dalla modernità pur di ritrovare il grande amore della sua vita, che lo statuario interprete finisce per cementificare in giusto un paio di espressioni, una vera e propria maschera di cera che non riesce a comunicare quelle emozioni che si celano nel profondo del personaggio.
Miscasting a parte, è l'esecuzione della storia a lasciare davvero perplessi.




L'ambientazione futuribile non aggiunge nulla alla trama, anzi non si capisce come mai una storia del genere non sia stata ambientata in epoca contemporanea: tutti i temi che tocca non hanno nulla a che vedere con il cyberpunk o la fantascienza in generale e la scelta si rivela puramente derivativa, giusto per dare un tono ancora più cupo alla vicenda.
Trama che già dopo pochi minuti si rivela esilissima. Dopo una prima parte intimista (la più riuscita), Jones tenta malamente di costruire un mistery accumulando personaggi e situazioni viste e straviste, sino ad una forzatura ridicola quando si tratta di unire la storyline di Leo con quella di Bill: non  paga davvero quel punto di giunzione del tutto improbabile, così come ancora più improbabile è tutto l'ultimo atto, con una risoluzione degli eventi a dir poco convenzionale.




Ed anche al di là di uno script fallace, ci si accorge sin da subito come vi sia qualcosa di profondamente sbagliato in "Mute", attribuibile alla produzione targata Netflix: tutto il film ha il look di un episodio di una serie televisiva. La fotografia, pur curata, dona a tutte le immagini le sembianze di un prodotto smaccatamente televisivo, un video a 1080p piuttosto che un lungometraggio che ha mancato la sala solo per questioni distributive, difetto che non avveniva di certo con altre produzioni del colosso dello streaming, su tutte il bel "Okja" di Bong Joon-Oh. E come se non fosse abbastanza, a tratti gli effetti in CGI scadono nel trash, risultano vistosamente finti (come nel caso del robot lap dancer), come se non fossero stati ultimati.




Praticamente nulla risulta riuscito in questo strambo esperimento di sci-fi un pò nostalgica e parecchio derivativa. Un'occasione sprecata, un film piatto, improbabile e freddo che finisce inevitabilmente per scadere nel noioso.

sabato 24 febbraio 2018

Black Panther

di Ryan Coogler.

com: Chadwick Boseman, Michael B.Jordan, Lupita Nyong'O, Danai Gurira, Martin Freeman, Andy Serkis, Angela Bassett, Forest Whitaker, Daniel Kaluuya.

Azione/Avventura

Usa 2018

















Ce ne è voluto di tempo per Pantera Nera (o Black Panther che dir si voglia) per calcare il Grande Schermo; già nei primi anni 2000, Wesley Snipes voleva trasporre il celebre eroe Marvel in un film live-action, sull'onda del successo riscosso dal suo Blade; per non meglio specificati motivi, il progetto non si è mai concretizzato e i fan del personaggio hanno dovuto aspettare la fase 3 dell'UCM per avere un film dedicato al proprio beniamino; se si esclude "Captain America: Civil War", dove il sovrano del Wakanda veniva introdotto come personaggio secondario ma finiva per avere la storyline più riuscita.



Pantera Nera, alias T'Challa, viene creato da Stan Lee e dal Re Jack Kirby nel 1966 ed è il primo vero eroe di colore della storia dei comics ad ottenere una propria testata; non il primo eroe di colore in assoluto, record che spetta a Gabe Jones, membro degli Howling Commandos di Capitan America apparso per la prima volta nel 1963, ma il primo ad essere protagonista assoluto delle proprie avventure. Nel corso degli anni la sua fama verrà surclassata da quella di Luke "Power Man" Cage, ma T'Challa resterà per sempre tra le creazioni più riuscite di casa Marvel.
Merito non solo del carisma del personaggio o del suo status di sovrano e Vendicatore, quanto per il mondo nel quale viene calato, vero e proprio "universo nell'universo". Il Wakanda, stato immaginario dell'Africa centrale, è in realtà la nazione più progredita al mondo, il cui livello tecnologico ed i vasti giacimenti di vibranio le permettono di essere anche tra le più potenti al mondo.
T'Challa si trova così diviso tra le responsabilità di re di una potente nazione, ultimo erede del mantello di Black Panther, protettore della sua terra natia, e membro degli Avengers, con tutte le conseguenze intuibili.
Successo immediato tra i giovani appassionati di comics, Pantera Nera è poi protagonista di un curioso caso di omonimia: appena quattro mesi dopo la sua prima apparizione nelle edicole, il movimento radicale delle Pantere Nere comincia la sua azione violenta per le strade del mondo; Lee e Kirby decidono tuttavia di non ribattezzare in alcun modo il personaggio, per non cedere al clima di violenza del tempo.
Su schermo, Pantera Nera viene trasposto niente meno che dal team dietro il successo inaspettato di "Creed": Ryan Coogler alla regia, sempre sottoposta ai dettami del tirannico Kevin Feige, ovviamente; e Michael B.Jordan nei panni del villain Erik Killmonger, rivale di T'Challa per il ruolo di Pantera Nera. Il risultato è però incredibilmente blando.




Non c'è mai un momento davvero memorabile nella prima avventura di T'Challa al cinema. Non una sequenza d'azione, non una linea di dialogo, nemmeno il confronto con un villain che, in teoria, ha una caratterizzazione interessante.
Killmonger e T'Challa sono protagonisti di uno scontro ideale prima che fisico. Il primo è un reietto, cresciuto ad Oakland, lontano dalle praterie e dalla tecnologia wakandiana, è cosciente della sottomissione del nero da parte dell'uomo bianco e vuole usare la forza del vibranio per avviare una rivolta mondiale. Un rivoluzionario più che un cattivo, il cui rimpianto per la morte precoce del padre ha portato sulla cattiva strada.
T'Challa è anch'egli un figlio privato della figura paterna anzitempo, un re un pò riluttante che preferisce perorare la tradizione isolazionista per proteggere la sua gente, ma che così finisce per essere cieco verso i bisogni del prossimo.
Se la caratterizzazione di Killmonger lo rende su carta un personaggio interessante, il poco screen-time che gli viene dedicato finisce per appiatirlo fino a farlo poggiare sull'adagio del classico villain spaccatutto contrapposto al buono di turno. Per fortuna, Michael B.Jordan riesce lo stesso a donargli il carisma necessario per rendere l'esile storia quantomeno sopportabile.




La regia di Coogler è puramente di servizio, persino quando adopera funambolici piani sequenza digitali per dar vita all'azione. Nonostante le coreografie di buon livello, questa non ha vera suspanse, la drammaticità si perde in tutti i luoghi comuni possibili e non si è mai davvero coinvolti dalla storia di T'Challa e Killmonger, nonostante il fascino dato da una mitologia tribale inedita in un comic movie, che lo rende quasi un blaxploitation per famiglie.




Colpa anche di un'estetica che si appoggia sin troppo alla CGI, anche quando non necessaria; si ha a volte la sensazione di stare guardando un cartone animato piuttosto che un live-action, percezione che azzera definitivamente ogni forma di coinvolgimento.
Nonostante gli sforzi, questa prima trasposizione della creatura di Kirby non graffia: ha un'identità forte, una mitologia inedita, ma una forma estetica e narrativa incolore la rendono del tutto inerte.

lunedì 19 febbraio 2018

Fullmetal Alchemist

Hagane no renkinjutsushi

di Fumihiko Sori.

con: Ryosuke Yamada, Tsubasa Honda, Dean Fujioka, Atom Mizuishi, Yasuko Matsuyuki, Misako Renbutsu, Jun Kunimura, Natsuna.

Fantastico/Avventura

Giappone 2017
















Creato da Hiromu Arakawa e serializzato tra il 2001 ed il 2010, "Fullmetal Alchemist" è lo shonen più rivoluzionario mai scritto, in grado di sovvertire i canoni del genere per creare una narrazione originale, imprevedibile ed adulta nei toni e tematiche.
Ambientato in un mondo immaginario, simile alla Germania dei primi del '900, dove l'alchimia è uno strano mix tra scienza e magia, vede protagonista i due fratelli Edward ed Alhponse Elric, aspiranti alchimisti i quali rompono da bambini il tabù principale dell'alchimia: riportano in vita la madre defunta; la cosiddetta "trasmutazione umana", vietata perchè mai riuscita, costa loro caro: Edward, il maggiore, perde un braccio ed una gamba, poi sostituiti con delle protesi meccaniche (o "automail"), mentre il piccolo Alphonse perde tutto il suo corpo e, per evitare di farlo morire, Edward ne lega l'anima ad una gigantesca armatura. Per riottenere i loro corpi, i due fratelli decidono così di divenire alchimisti di stato, ossia membri dell'esercito in quella che è una vera e propria dittatura militare, unico modo che consente loro di accedere alle conoscenze necessarie; ma sulla loro strada si pareranno ovviamente avversari imprevisti.




Calata in un mondo tra il fantasy e lo steampunk di grande fascino, la storia si disfà del modello classico dello shonen per divenire narrazione vera e propria: non ci sono combattimenti "a turni" con nemici sempre più forti, nè esigui canovacci da seguire per unire un incontro e l'altro; l'enfasi è tutta posta sulla storia, sui misteri del mondo e dell'alchimia, sugli intrighi dei ranghi militari e dei misteriosi homunculus, nonchè sulla crescita dei due fratelli: Edward, più umano nel corpo, è anche il più freddo, mentre il gigantesco Alphonse è il più umano e sensibile.
Formula fresca, perfettamente eseguita in una narrazione che dà ampio spazio all'interiorità dei personaggi ed alla drammaticità degli eventi, riuscendo ad essere sempre appassionante; e che ne ha decretato il successo globale, acuito da due belle serie anime, che ne traspongono i capitoli su piccolo schermo, la prima in modo più libero (e diretta niente meno che da Shò Aikawa, regista di cult quali "Urotsukidoji" ed i primi due oav di "Violence Jack"), la seconda in modo fin troppo fedele al manga.




Riuscita che si estende in parte anche all'adattamento live-action, che arriva nelle sale nipponiche a Dicembre 2017 e nel resto del mondo grazie a Netflix; diretto da Fumihiko Sori, già autore della trasposizione di un altro splendido manga, l'imprescindibile "Ashita no Joe", e girato a Volterra, "Fullmetal Alchemist" è un piccolo fantasy che all'azione sfrenata preferisce la caratterizzazione dei personaggi.




Condensare tutti i volumi del manga in 132 minuti di film era ovviamente impossibile; per il film si è quindi optato per un'azione di adattamento un po' selvaggia: restano tutti i punti salienti del primo arco narrativo, ossia gli homunculus, il dottor Marco e la tragedia dell'alchimista intrecciavite Shou Tucker, ma viene eliminato il villain principale Scar, l'assassino di alchimisti, per dar spazio al complotto interno all'esercito. La storia risulta così compatta, ma purtroppo priva di spunti davvero interessanti: svelata l'identità del vero villain e la sua motivazione, tutto diviene già visto.
A salvare la visione ci pensano così i buoni valori produttivi e la caratterizzazione dei due protagonisti.




Gli effetti speciali, tutti in CGI, sono altalenanti, ma per la maggior parte ottimi; in particolare, il rendering dell'armatura di Alphone a tratti raggiunge vette di fotorealismo inusitate per una produzione non hollywoodiana. L'idea di ambientare tutto il film in Toscana, poi, aggiunge un tocco di fascino in più al mondo degli alchimisti, nonostante lo straniamento dovuto dal vedere attori nipponici in ruoli occidentali.




Grande spazio viene dato ai due protagonisti. Edward è puerile come la sua controparte cartacea, ma per fortuna riesce ad essere credibile anche nei passaggi più drammatici. Ed è qui che il film dà il meglio di sè, regalando momenti toccanti e scioccanti nel secondo atto.
Meno riuscita la narrazione della trama in sè: la condensazione e l'adattamento, al di là dei clichè, portano talvolta ad una superficialità grossolana, come nel caso del ruolo degli homunculs negli eventi.
Inutile sottolineare come questo live-action altro non sia che il primo capitolo di un dittico o trilogia che si spera venga completato e non lasci il discorso inutilmente aperto, come nel caso (purtroppo) di quel "Diamond is Unbreakable- Part I" adattamento de "Le Bizzarre Avventure di JoJo" di Takashi Miike, uscito anch'esso nel 2017 e che resterà privo di conclusione.




"Fullmetal Alchemist" è un piccolo e divertente blockbuster di tutto rispetto; i fan del manga ne apprezzeranno la fedeltà di tono e script, mentre lo spettatore occasionale potrà lasciarsi trasportare in uno spettacolo di routine ma non per questo disprezzabile.

venerdì 16 febbraio 2018

La Forma dell'Acqua- The Shape of Water

The Shape of Water

di Guillermo Del Toro.

con: Sally Hawkins, Doug Jones, Michael Shannon, Octavia Spencer, Richard Jenkins, Michael Stuhlbarg.

Drammatico/Fantastico

Usa 2017















Un ritorno alle origini, per Del Toro, che con "La Forma dell'Acqua" si riprende le atmosfere e alla cadenza narrativa del premiatissimo "Il Labirinto del Fauno". "La Forma dell'Acqua", di fatto, rappresenta non solo una ritrovata ispirazione dopo il pessimo "Crimson Peak" ed il più commerciale "Pacific Rim", ma anche la riscoperta di quel mix di verosomiglianza storica ed elemento fantastico che lo avvicina a quel realismo magico forse tanto agognato.




Una storia che è pura favola e che comincia come tale, ma si chiude come una poesia. La storia di Eliza e del suo amore "impossibile" per quella Creatura della Laguna Nera rapita dal suo habitat naturale; due esseri diversi per sesso e specie, ma accomunati dalla mancanza di parola, la cui relazione è basata su sguardi e piccoli gesti, su di una comprensione data da un'attrazione quasi scontata, quella dei diversi.
E diversi sono anche coloro i quali circondano questi due innamorati: dall'artista omosessuale Giles all'afroamericana Zelda, passando per la spia Hoffstettler. Persino il cattivissimo Strickland altri non è se non un outsider, un civile che lotta per essere accettato tra i ranghi dell'esercito.




Il mondo in cui questi personaggi si muovono è quello crudele dell'America della Guerra Fredda, sospesa in un limbo ideale dove confluiscono tutti gli avvenimenti che hanno forgiato quel decennio (alla televisione si vedono prima gli scontri a Detroit, ma poi si ascolta il discorso di Kennedy sull'installazione dei missili a Cuba); un mondo dove l'intolleranza e la paura del diverso (il "rosso" così come il nero) regnano sovrani e che Del Toro dipinge in modo onirico per estremizzarne gli attributi sia negativi che positivi. Atmosfera ricercata nelle scenografie e nella fotografia espressiva di Dan Lausten, che finisce per sottolineare in modo squisito anche i passaggi più poetici.





C'è l'eco di tanto cinema americano classico, di quei musical degli anni '30 e '40 che idealizzavano il sentimento amoroso, dove l'emozione sgorgava a fiumi ed era irrefrenabile come l'acqua che avvolge ogni scena. E che, in uno spettacolo moderno, prende le forme sia della citazione, che della carnalità spinta, sia erotica che violenta. Ne consegue un tono vivido, sanguigno che dona ancora più carattere ad una narrazione già di per sè stessa riuscita.




Se la narrazione convince, lo fa di meno il narrato. Del Toro, in sostanza, crea una favola sulla diversità e sulla necessità dell'amore, ma cade vittima della trappola dell'ovvietà; davvero prevedibile lo svolgimento di una storia dove tutti i personaggi sono archetipici, il cui destino è scolpito nella roccia, intuibile sin dal primo momento.
Mancanza di originalità che fa naufragare in parte la visione, rendendo "La Forma dell'Acqua" un'opera che va sentita più che seguita.

domenica 11 febbraio 2018

L'Ultimo Metrò

Le dernier Mètro

con: Catherine Deneuve, Gerard Depardieu, Heinz Bennett, Jean Poiret, Andrèa Ferrèol, Paulette Dubost, Jean-Louis Richard, Sabine Haudepin, Maurice Risch.

Francia 1980



















Una ricostruzione pressocchè perfetta, quella de "L'Ultimo Metrò", pellicola con la quale Truffaut si cimenta con i territori della Storia (all'epoca) recente; uno spaccato della vita parigina sotto l'occupazione nazista fatta di dettagli talvolta minuscoli, personaggi dalle sfaccettature sottili e situazioni di straordinaria quotidianità che formano un affresco credibile di quegli anni.




Ma "L'Ultimo Metrò" è anche la seconda parte di un discorso metafilmico iniziato con "Effetto Notte": laddove "Vi Presento Pamela" era il film nel film, che permetteva al regista ex critico di omaggiare il momento creativo nel cinema al cinema, "La Scomparsa" gli permette di celebrare la creazione di un'opera teatrale, portando in scena i piccoli drammi, le gelosie, l'affiatamento ed il suo grande amore per la messa in scena.
Al teatro Montmartre si intrecciano così storie di vita durante la guerra con le urgenze dell'Arte. Il nuovo arrivato Bernard (Depardieu), attore di talento proveniente dal Gran Guignol ed in realtà membro della Resistenza, che intreccia una sottile love-story con Marion Steiner (la Deneuve), prima donna e direttrice del teatro; il di lei marito Lucas Steiner (Bennett), regista ed autore della piece, ebreo di origine tedesca, costretto a rifugiarsi nello scantinato del teatro per sfuggire alla Gestapo; la costumista Arlette (Andrèa Ferrèol) insidiata da Bernard ed impegnata con la giovane ed ambiziosa Nadine (Sabine Haudepin); il feroce critico collaborazionista Daxiat (Jean-Louis Richard) che stronca irrimediabilmente il lavoro del regista "pupazzo" Jean-Loup (Jean Poiret), a sua volta segretamente omosessuale, e così via.




Le prove del dramma si intrecciano così con le vite di cast e troupe, fino a sovrapporsi nel finale, con Truffaut che si diverte a sviare la percezione dello spettatore portando in scena la pièce come se fosse la storia del film e chiudendo tutto con il trionfo del "trio", inteso sia come triangolo amoroso che artistico.
La ricostruzione storica è perfetta: costumi e scenografie sono studiate nel minimo dettaglio. Così come i dettagli di vita, inclusi dei singoli "sketch", sono vere memorie della Seconda Guerra Mondiale, come il belletto usato per fingere le calze, i giradischi usati per nascondere bombe o le corse al mercato nero.




Le due tracce narrative si fondono in modo perfetto per creare una visione d'ensamble credibile ed affascinante. Dove su tutto regna lo sguardo al solito leggero ma profondo di Truffaut, che rende questa sua amorosa ricostruzione di un mondo passato un piccolo, semiperfetto, capolavoro.

mercoledì 7 febbraio 2018

The Post

di Steven Spielberg.

con: Meryl Streep, Tom Hanks, Matthew Rhys, Sarah Paulson, Bob Odenkirk, Bruce Greenwood, Tracy Letts, Allison Brie, Jesse Plemons.

Storico/Drammatico

Usa, Inghilterra 2017
















Sembrava che Spielberg fosse l'ultimo regista al mondo a poter parlare con efficacia dello scandalo dei "Pentagon Papers"; eppure, con "The Post" è riuscito a stupire, a creare una ricostruzione attenta ai dettagli, esteticamente appagante, rifacendosi al miglior cinema di Alan J.Pakula e in generale al filone impegnato del cinema americano anni '70, scadendo qualche volta nei clichè, ma tenendo sempre alta l'asticella della tensione morale.




"The Post" è la storia della Storia, di come il Washington Post (e prima il New York Times) siano riusciti, nei primi anni '70, a pubblicare i dossier dei famosi "Pentagon Papers", commissionati da Robert McNamara e contenenti un reportage completo sull'impegno militare americano in Indocina sin dalla fine degli anni '40. Uno scandalo che tocca solo marginalmente l'amministrazione Nixon (pur essendo quest'ultimo il principale avversario alla loro pubblicazione) e che travolge le figure di Kennedy ed Eisenhower, sopratutto con riguardo alla coscienza dell'impossibilità di vincere la Guerra del Vietnam ed il relativo sacrificio di oltre il 70% delle truppe mobilitate al solo fine di "salvare la faccia".




Una cronaca che parte e finisce come un thriller, con il furto dei documenti e l'incipit del caso Watergate e la successiva caduta del "cattivo", ma che si sviluppa appoggiandosi sul conflitto interno al Post, sulle responsabilità dell'editore e del padrone della testata, sulle pressioni dovute all'imminente lancio sul mercato borsistico della testata e, ancora maggiori, quelle relative al peso delle notizie ricevute.
Conflitto tra etica giornalistica, devozione patriottica e, sopratutto, immanenti necessità editoriali. Non ci sono eroi nello script di Josh Singer (già autore de "Il Caso Spotlight"), tutti i personaggi sono come ingranaggi di una gigantesca macchina organizzativa, devota a riportare non la Verità, ma i fatti. Un approccio al giornalismo meno idealizzato di quanto il cinema americano ci abbia abituato (e per questo lontano dalle corde degli stilemi spielberghiani), più vicino alla realtà, costantemente alla ricerca di una verosomiglianza anche quando porta in scena sequenze utili al solo fine narrativo (su tutte, l'incontro tra Kay Graham e McNamara o l'immancabile monologo ispiratore finale). Una visione dove la pubblicazione dei dossier diviene atto di rivolta con un establishment bugiardo e manipolatore e la figura del giornalista, come nella prima visione di Tocqueville, un contrappeso necessario ai fini del corretto funzionamento della macchina democratica.




La regia di Spielberg si adegua di conseguenza; pur non sparendo, il suo tocco è sempre messo al servizio della storia; e riesce a non scadere nell'arido o nel manieristico grazie ad una serie di tocchi eleganti, come l'uso della steady con inquadrature dal basso per le sequenze nella redazione, o il riflesso di Bob Odenkirk nella scena del telefono pubblico, o ancora le soggettive nervose.
Il risultato è compatto e mai piatto, un'opera piccola, ma efficace, uno Spielberg minore, che non ha certo la forza dirompente del cinema a cui si rifà, ma riesce lo stesso a portare in scena con convinzione una storia scomoda e non semplice da trattare.

lunedì 5 febbraio 2018

Chiamami col tuo nome

Call me by your name

di Luca Guadagnino.

con: Timotheé Chalamet, Armie Hammer, Michael Stuhlbarg, Amira Casar, Esther Garel.

Drammatico

Italia, Usa, Francia, Brasile 2017
















Un amore ideale ed idealizzato, quello di "Chiamami col tuo nome". Un amore totale, basato sull'attrazione fisica ed intellettiva. Un amore che diviene centro totalizzante di un'opera che, al contrario di ciò di cui narra, è fredda ed inconsistente.
Perchè tra lo script di James Ivory e l'occhio di Guadagnino, le pagine del romanzo omonimo vengono svuotate di ogni carica passionale, iscritte in un paesaggio italico fatto di sola beltà (come al solito nel cinema di Ivory), anch'esso controparte idealizzata del sentimento. E le immagini di Guadagnino, tutte rigorosamente girate con la sola ottica da 35mm per chissà quale motivo, non trovano mai quella poesia rincorsa per la bellezza di 132 minuti, finendo presto per risultare pretenziose, oltre che esteticamente piatte.



L'amore di Elio ed Oliver è vivo, nasce dalla contemplazione di quel corpo scultoreo che Armie Hammer sfoggia come il bronzo ritrovato in fondo al lago di Garda; e da attrazione fisica, diviene presto comunione intellettiva, data dall'erudizione, quasi radical chic, che trasuda da ogni scena: la formazione classica, l'amore per la scrittura e la musica, divengono l'humus per il sentimento amoroso.
Un amore che Guadagnino decide saggiamente di contemplare, di non mostrare mai troppo esplicitamente (anche se con l'orrenda sequenza della pesca si contraddice vistosamente), avvicinandosi ai personaggi ed al loro mondo in modo casto, come uno spettatore occasionale che passa per le vie dei borghi o che si ritrova a spiarli nella villa.



Se l'intenzione era quella di trovare una forma filmica non invasiva, il risultato è perfetto. Fin troppo, tanto da sfociare sin da subito nel pretenzioso. Nulla viene davvero concesso al sentimento, nè da parte della messa in scena, tantomeno dalla scrittura. Ogni sequenza è chiusa in un mutismo assoluto, che vuole comunicare solo la superficie di ogni cosa, dall'arte costantemente tirata in ballo, al mistero dell'amore.




Forse rifacendosi ad Antonioni, Gudagnino si distacca da ogni cosa per farsi indagatore silenzioso; ma finisce altresì nel vacuo: davvero nulla viene comunicato dai dialoghi scarni, dalle immagini fredde, talvolta persino dalla fisicità degli attori, da quella statuaria di Hammer a quella acerba di Chalamat. Persino il frutto proibito che dovrebbe essere la relazione, omosessuale ed ai limiti della pedofilia, si perde nel nulla.




Questo anche perchè "Chiamami col tuo nome" non vuole essere un film sull'amore, nè sui sentimenti, quanto una mera cronaca su di una relazione particolare, apparentemente fuori dagli schemi. E nel cinema italiano, pur ritroso a trattare l'argomento dell'omosessualità in modo diretto e serio, esempi del genere non sono in realtà mai mancati, quindi anche la presunta singolarità della storia è puro pretesto.
Tanto che alla fine, ci si accorge di come tutto il film altro non sia che un immenso nulla, compiaciuto del proprio ritmo inesistente, delle proprie immagini insipide e della presunta "dannazione" insita nella storia. Un'opera radical chic, al pari dei suoi autori, che vorrebbe comunicare tanto, ma che chiusa com'è in sè stessa diviene intollerabilmente insipida.

giovedì 1 febbraio 2018

Professor Marston and the Wonder Women

di Angela Robinson.

con: Luke Evans, Rebecca Hall, Bella Heathcote, Connie Britton, JJ Field, Monica Giordano, Oliver Platt, Chris Conroy, Maggie Castle.

Biografico

Usa 2017

















Un successo inaspettato, quello di "Wonder Woman", forse dovuto, al di là della qualità del film in sè, al momento in cui è giunto al cinema, con l'ascesa furibonda del nuovo movimento femminista ed alla vigilia degli scandali sessuali che hanno riscritto (quasi sempre giustamente) le regole di Hollywood. Dinanzi agli oltre 800 milioni di dollari incassati ed alle ottime recensioni, la Warner non ha potuto che tirare un sospiro di sollievo, trattandosi del miglior successo del DCEU.
Successo celebrato con l'uscita in sala di "Professor Marston and the Wonder Women", biografia del creatore dell'Amazzone della DC. Una biografia che si concentra sul triangolo amoroso tra Marston, sua moglie Elizabeth e la loro ex allieva Olive Byrne, mostrando con garbo la psicosessualità del trio, le applicazioni delle teorie psicologiche e sessuologiche di Marston, nonchè le sue concezioni femministe, per ricostruire il processo creativo che lo ha portato ad inventare la supereroina più famosa di sempre, ma alla quale manca una componente essenziale: il coraggio.




Un amore impossibile, quello di Marston, Olive e Elizabeth. Un triangolo altresì perfetto: lui mascolino, Olive dalla femminilità dolce e delicata, Elizabeth più determinata e colta. Due donne, queste, che insieme formano la figura femminile perfetta, così come individuata da Marston nei suoi studi di psicologia; da qui l'ispirazione per Wonder Woman, donna sensibile, ma determinata, naif ma al contempo colta, forte ma non violenta, emancipata eppure incredibilmente femminile.



Il trio diviene punto focale, il racconto un inno all'amore libero e nulla più. La Robinson sviluppa una tesi semplice fin oltre i limiti del semplicistico: Marston e le sue compagne sono nel giusto, il resto non conta. La figura dell'eminente psicologo viene così sminuita: poco o nulla si racconta della sua collaborazione con l'OSS prima, la CIA dopo, della sua partecipazione ai primi studi del progetto MK Ultra e persino l'invenzione della macchina della verità passa quasi subito in secondo piano.
Allo stesso modo, il suo feticismo viene letto come semplice esternazione del desiderio sessuale; ma nel bondage vi è una componente di sottomissione, neanche negata nel film, che però non viene mai questionata come forma di possessione della figura femminile.




Allo stesso modo, la figura di Wonder Woman viene usata come semplice avatar della liberazione sessuale, se non del puro libertinaggio. Del suo ruolo di simbolo femminista vero e proprio, nulla viene detto; così come è indulgente lo sguardo della Robinson verso il progetto inteso da Marston di emancipare le nuove generazioni inserendo riferimenti alla sessualità nei fumetti: intenzione a dir poco controversa, che viene anch'essa riletta in chiave schiettamente positiva.



Non c'è voglia di approfondire nulla, solo di gridare la liberazione dei costumi contro il taboo della sessualità canonica, questionata fin dalla prima scena. Davvero poco se si tiene conto della vita di Marston e dell'importanza delle sue teorie, prima ancora che di quella della sua creatura fumettistica.