mercoledì 25 aprile 2018

Loro 1

di Paolo Sorrentino.

con: Tony Servillo, Riccardo Scamarcio, Kasia Smutniak, Elena Sofia Ricci, Fabrizio Bentivoglio, Ricky Memphis, Iaia Forte.

Italia, Francia 2018


















Una piaga, un uomo che è stato in grado di distruggere ("fottere" come piace scrivere alla stampa estera) un intero paese pur di salvare sè stesso ed i propri interessi, un bugiardo indefesso, un mafioso, un edonista spinto, un egocentrico irredento, misogino per formazione e per scelta di stile di vita, dotato di una sessualità vorace e dedito al culto della propria persona sino all'ossessione, un miliardario corrotto e corruttore, figlio del più grande tesoriere della P2, falso self-made-man che si è arricchito grazie agli agganci politici e alle amicizie equivoche solo per poi divenire il leader assoluto d'Italia, trasformare il suo mal costume personale in quello dell'intera nazione, distruggerne l'economia ed il ruolo in Europa ed in Occidente in generale, farla regredire ad uno stato pre-fascismo, istupidirne le masse con la tv spazzatura, distruggerne l'apparato giudiziario per evitare a sè e ai suoi compagni la galera, fino a massacrare un'intera generazione di giovani e meno giovani i quali, a causa della pessima congiuntura economica dovuta agli strafalcioni dei suoi governi, sono stati costretti ad emigrare all'estero per divenire gli sguatteri dei propri coetanei più ricchi e più fortunati.
Questo è stato, è e sarà sempre Silvio Berlusconi, una pustola febbricitante, un parassita attaccato all'Italia che ne ha risucchiato la linfa vitale sino a ridurla ad un cadavere, alla barzelletta di ciò che fu sino al 1994. Inutile negarlo, deleterio far finta di nulla, falso dire il contrario. Berlusconi è una sciagura vivente, un cataclisma che ha raso al suolo tutto ciò che ha incontrato per la pura affermazione individuale, in virtù di quel culto edonista ed individualista proprio di quel decennio, gli anni '80, che ne ha visto l'ascesa imprenditoriale.





Un uomo su cui ovviamente è stato scritto tutto ed il contrario di tutto: da chi lo attacca senza appello, a chi lo difende strenuamente (per lo più coloro che sono sul suo libro paga); persino al cinema la sua figura ha fatto più volte capolino: da "Ginger e Fred" dell'odiato Fellini al codardo "Il Caimano" di Moretti, passando per le piccole produzioni "Shooting Silvio" e "Ho ammazzato Berlusconi", lo scalcinato cinema italiano ha più volte provato a ritrarne lo squallore ed il pessimo lascito. Ed è ironico il fatto che tali film siano figli dello stesso sistema berlusconiano: da una parte sono prodotti da quella Rai nel cui CDA sedevano i suoi compagni di partito, dall'altra sono comunque prodotti creati all'interno di un'industria in stato di sfacelo anche a causa della distruzione culturale e del sistema nepotistico che Berlusconi ha da sempre sostenuto e foraggiato.




E' ancora più ironico il fatto che a confrontarsi di petto con la sua figura sia ora quel Paolo Sorrentino che aveva trovato un primo successo internazionale con il suo capolavoro "Il Divo", film su di un altro mostro sacro della politica italiana, quel Giulio Andreotti figura satanica della DC ed altro leader supremo della Penisola.
Ma rispetto ai tempi de "Il Divo" Sorrentino è cambiato: l'esperienza con "The Young Pope" lo ha portato a prediligere una narrazione di tipo seriale, da qui la divisione di "Loro" in due parti; senza contare l'incontro non proprio felice con Umberto Contarello, sceneggiatore già delle pellicole di Mazzacurati che con il grande artista napoletano ha scritto "This must be the Place", "La Grande Bellezza" e "Youth", ossia le sue pellicole meno riuscite. "Loro", almeno in questa sua prima parte, appartiene pienamente a questa seconda fase del cinema di Sorrentino, dove ad una forma sgargiante non corrisponde spesso alcuna sostanza.




Ed è bene precisarlo: questa sua ultima fatica risente della forma seriale anche all'interno delle singole parti; tanto che già "Loro 1" può essere diviso in due parti.
Nella prima seguiamo la scalata sociale di Sergio Morra (Scamarcio), al secolo Giampaolo Tarantini, ossia colui che procurava le escort al presidentissimo. Qui Sorrentino si sbizzarrisce: pur bandendo i suoi abituali freak, si diverte a descrivere la politica come un postribolo a cielo aperto, dove un arrivista spregiudicato vuole far parte dei "loro", coloro che contano, fino ad arrivare al capo supremo, "lui".
Un nugolo di personaggi, quelli ritratti, senza né arte, nè parte, che tirano coca come se fosse ossigeno e sono ossessionati dal sesso; puttane e protettori, ma anche ministri e personalità politiche in un girotondo che è quasi un'orgia del potere: non esistono interessi per i "loro" che non siano dati dal sesso o dal potere per il potere, ossia dall'arrivismo spicciolo. Il tutto sullo sfondo di una Roma fantasma, lontana anni luce dalla "grande bellezza".
Peccato che la narrazione sia tutta qui.




Sorrentino costruisce un sistema di simboli fin troppo criptico, quasi come se volesse celare una vacuità totale; non si capisce il perchè dei rimandi faunistici: cosa rappresenta la pecora moribonda? Il popolo italiano che muore un pò alla volta dinanzi alla tv spazzatura? Ed il rinoceronte? La rincorsa folle di Morra verso la vetta? Non è dato saperlo.
Quel che è peggio, il simbolo più forte di tutti viene presto barattato per un puro effetto spettacolare: la pioggia di immondizia nei Fori che sta per bagnare il magnaccia e le sue troie si trasforma subito in una pioggia di anfetamine. Ed è così che comincia la sequenza più barocca ed inutile del film, la lunghissima festa in Sardegna, dove Sorrentino si scatena nel creare immagini decadenti del tutto fini a sè stesse.
Ed è qui che termina la prima parte, quasi il primo episodio di una serie, con Morra deluso dal non aver attirato l'attenzione di Berlusconi.




Fortunatamente è anche qui che comincia la parte più riuscita, dove il "lui" diviene "egli": Berlusconi diviene il protagonista assoluto, incarnato da un Toni Servillo come al solito devoto al metodo Strasberg, totalmente calato nei panni del "nano di Arcore".
Un Berlusconi, quello ritratto, in un momento di riflessione, ossia quando nel 2006 non è stato rieletto immediatamente, quindi prima della schiacciante vittoria nelle elezioni del 2008. Un Berlusconi quasi crepuscolare, ma ancora agguerrito. Sopratutto un Berlusconi maschera del potere che differisce da quel suo ideale predecessore, l'Andreotti de "Il Divo".




Un personaggio da farsa, il Silvio Berlusconi di Sorrentino; non un uomo dalle mille maschere che cela un volto machiavellico, bensì una maschera vera e propria, un personaggetto perso nelle proprie elucubrazioni, attentissimo all'apparenza e bugiardo compulsivo. Non c'è differenza tra il Berlusconi che appare in pubblico, impegnato a sciorinare battute squallide pur di piacere al pubblico e quello che si aggira per la propria villa, in privato. L'orgia del potere si fa farsa del potere, l'eterno presidente si ritrova a fare i conti con il proprio menage familiare: una moglie che non lo ama più ma della quale è bisognoso di attenzioni, un nipotino che plagia al suo sistema di non-valori del tutto immorali, ed ovviamente le accompagnitrici, con la Noemi Letizia giovanissima amante compiaciuta del proprio ruolo di escort di lusso.




Un "secondo episodio" decisamente più riuscito, dove il vertice immorale del protagonista imbriglia perfettamente l'ossessione sorrentiniana per la forma per creare un racconto più solido e coerente. Ed in attesa di "Loro 2", si può solo dare un giudizio parziale su di una pellicola compiaciuta sino al tedio, della quale almeno metà delle scene potevano essere tranquillamente tagliate, in cui solo la seconda parte è davvero interessante e riuscita.

lunedì 23 aprile 2018

Amore Tossico

di Claudio Caligari.

con: Cesare Ferretti, Michela Mioni, Enzo Di Benedetto, Roberto Stani, Loredana Ferrara, Mario Afeltra, Fernando Arcangeli.

Drammatico

Italia 1983
















Chissà se sarebbe possibile al giorno d'oggi, in Italia, creare una pellicola come "Amore Tossico"; non tanto per i suoi contenuti, che nel corso degli anni hanno avuto una sovraesposizione mediatica impensabile nel 1983, quanto per la sua storia produttiva. All'epoca, l'industria filmica nostrana era ancora fiorente, benchè prossima al collasso. Ma Claudio Caligari si muoveva lo stesso al di fuori di essa, dapprima come documentarista, poi come autore di fiction; tanto che nel corso degli anni è riuscito a dirigere giusto un pugno di pellicole, di cui l'ultima, "Non Essere Cattivo", ultimato dopo la sua prematura scomparsa.
Caligari è stato, assieme a Corso Salani e Nico D'Alessandro, un'esponente di spicco del cinema indipendente italiano, quel cinema piccolo nei mezzi ma mai nei contenuti, girato per le strade con un occhio a De Sica ed uno a Pasolini; un cinema che oggi non esiste più, annichilito dal duopolio Rai/Medusa, dalle truffe del tax credit, dalla mancanza di soggetti coraggiosi pronti a finanziare le opere anche meno radicali, figuriamoci un film post-neorealista sulla tossicodipendenza interpretata da veri tossicodipendenti.




Fortunatamente, all'epoca Caligari aveva un nume tutelare illustre, quel Marco Ferrari mai troppo ricordato; trovare fondi e distribuzione non è stato troppo difficile; più ardua è stata la produzione, durata qualche anno, tanto che il primo ciak pare fosse stato dato già agli inizi del decennio. Ciononostante, "Amore Tossico" è venuto splendidamente alla luce e si è posto, all'epoca della sua uscita, come un perfetto pugno allo stomaco dei benpensanti e, in genere, di tutti coloro i quali preferiscono ignorare una realtà scomoda come quella ritratta.




Uno sguardo crudo, quello di Caligari, che non conosce compromessi, tanto che gli "schizzi" dei personaggi vengono mostrati in modo diretto, anche più di quanto avveniva in "Christiane F."; e proprio il raffronto con il film di Uli Edel è utile a comprendere la grandezza di "Amore Tossico"; laddove in "Christiane F." lo sguardo era ovviamente di biasimo, nel film di Caligari c'è un distacco empatico vero e proprio, non una condanna diretta, quanto una sospensione del giudizio morale che non rinuncia alla drammaticità. Laddove nel primo la protagonista trova una redenzione finale (nella realtà che lo ha ispirato solo momentanea, nel film perenne), nel secondo non c'è salvezza che non sia data dalla morte, auto o etero inflitta che sia, risultando ben più duro e scevro di compromessi, per questo decisamente più disturbante.




Durezza che si ritrova anche nella forma, decisamente ruvida, con immagini sgranate, rubate per le strade di Ostia e Roma. Città che Caligari dipinge in tutto il loro squallore, con le periferie desertiche e le spiagge luride, non c'è bellezza nella città eterna della Grande Bellezza.
I punti di riferimento, come detto, sono il neorealismo e il cinema di Pasolini. Dal primo viene l'idea di usare veri tossici come personaggi, vere anime perse (che poi troveranno anche nella realtà una morte prematura) chiamate ad interpretare sè stessi. La scrittura, di conseguenza, rinuncia all'intreccio vero e proprio per divenire spaccato: vengono ritratte le giornate tipo di Cesare, Roberta, Enzo, Loredana e amici, passate a cercare le piotte per comprarsi le spade e le dosi, a sopportare le crisi di astinenza e a subire le vessazioni dei più forti (il magnaccia); una vita vuota, agra e magra, della quale portano i veri segni sul volto e sul corpo.




Da Pasolini deriva l'empatia verso questo gruppo di disadattati votati alla morte, di questi "ragazzi di vita" che alla vita rinunciano un pò alla volta; tanto che quando arriva il momento fatale, questo avviene in due modi simbolo: una prima volta davanti al monumento alla memoria del poeta, all'epoca già in stato di abbandono; la seconda per mano di quella polizia che non conosce pietà per gli ultimi, come in "Mamma Roma".




Una dipendenza, quella di Cesare e compagni, ineludibile ed inesorabile, che comincia già durante la prima gioventù, ritratta sulle note di Battisti come un dolce amarcord di un'innocenza pronta a scomparire; una dipendenza irrinunciabile, oltre la quale non c'è nulla, solo la morte, ritratta, ancora, come in "Mamma Roma": una morte cristologica, il sacrificio di un poveraccio schiavo del male terreno.




Il lascito di Caligari è, neanche a dirlo, enorme; basti pensare al cult anni '90 "Trainspotting", il quale riprende parte del linguaggio di "Amore Tossico" rendendolo mainstream, ibridandolo con il videoclip ed il gusto pop, arrivando a snaturarlo fino a trovare una forma di cinismo acido e compiaciuto; altri tempi, altri modi di ritrarre lo stesso male; il quale, tuttavia, non ha mai fatto più paura come nel gioiello di Caligari.

mercoledì 18 aprile 2018

Akira

di Katsuhiro Otomo.

Animazione/Azione/Fantascienza/Cyberpunk

Giappone 1988



















A rivederlo oggi non lo si direbbe, ma "Akira" ha già 30 anni. Tre decenni durante i quali il suo lascito è stato totalmente assimilato dalla cultura pop, ma non dall'industria cinematografica: in Giappone non si vedono più esperimenti tanto costosi ed arditi, mentre in Occidente il cinema d'animazione per adulti non ha mai preso davvero piede.
Eppure, quando nel 1988 Steven Spielberg e George Lucas sgranarono gli occhi dinanzi la creatura di Katsuhiro Otomo, nulla fu più come prima: "Akira" divenne in breve tempo l'apripista per gli anime in Nord America e in gran parte d'Europa (non in Francia ed in Italia, comunque, dove la cultura dell'animazione nipponica era stata assimilata già nel decennio precedente); per la prima volta il pubblico occidentale si rese conto che era possibile fare grande cinema, visionario alla pari dei migliori classici del decennio, anche per il tramite dell'animazione; e, prima ancora, che i "cartoon" potevano essere tranquillamente rivolti ad un pubblico adulto, come Ralph Bakshi predicava da anni. L'America cominciò così a scoprire gli anime, dapprima con oav ultraviolenti come "Genocyber", "Violence Jack" e "M.D. Geist", solo per citarne alcuni; in seguito grazie a maestri del calibro di Hayao Miyazaki, Isao Takahata, Rintaro, Yoshiaki Kawajiri, Satoshi Kon e ovviamente Mamoru Oshii, che quasi un decennio dopo riuscirà a mutare nuovamente la fantasia collettiva con il capolavoro "Ghost in the Shell".
Tutto merito di Katsuhiro Otomo e di questo suo strano, imperfetto ma altamente affascinante exploit, che fonde efficacemente il registro action con un'ambientazione distopica, deliri onirici con sequenze di distruzione di massa, body horror e cyberpunk per imprimersi come un'opera in grado di assalire i sensi dello spettatore come poche altre sono riuscite.




Prima ancora che come lungometraggio, Otomo diede vita ad "Akira" come manga, serializzato tra il 1982 ed il 1990 e che inizialmente avrebbe dovuto addirittura essere una miniserie, poi espansa grazie all'ottima accoglienza dell'adattamento filmico.
La grandezza del manga risiede nel suo taglio cinematografico: se già il manga come mezzo espressivo in sè è, nell'impostazione di storia e disegni, solitamente più vicino al mezzo filmico che al fumetto, Otomo va oltre ed imposta le vignette come inquadrature vere e proprie, dalla dinamicità inaudita e graziate da un livello di dettaglio nei campi lunghi incredibile; il tutto per restituire al meglio le folli corse in moto per le strade di Neo-Tokyo e le incredibili sequenze di distruzione che costellano tutto il racconto.
Un racconto visionario e folle, che risente purtroppo della prosecuzione forzata. In un futuro imminente, il 2019, il Giappone è reduce dalla III Guerra Mondiale, scoppiata nel 1988 a seguito della nuclearizzazione di Tokyo, poi ricostruita come Neo-Tokyo. Per le strade, gang di giovani motociclisti si affrontano in scontri all'ultimo sangue per il controllo del territorio; tra queste ci sono i Capsule, guidati da Kaneda, scavezzacollo e maschio alfa, tra i quali milita anche Tetsuo, suo amico di infanzia invidioso del suo carisma.
Ma c'è qualcosa di sinistro che si aggira per le strade, oltre alle gang; una voce, una leggenda forse, quella di Akira, misteriosa entità che si dice essere stato la causa della distruzione di Tokyo e che ora starebbe per ritornare. E forse la classe dirigente sa di cosa si tratta....




Una sceneggiatura anticonvenzionale, quella di "Akira"; al centro di tutto non ci sono eroi o giovani aspiranti tali, ma solo due ragazzi comuni, Kaneda e Tetsuo, con i loro molteplici difetti; l'apocalisse che si scatena, sino a trasformare Neo-Tokyo in un mondo a parte, è dovuta alla smania di quest'ultimo di affermarsi a scapito di tutto e tutti, non per chissà quali piani malefici. E l'Akira del titolo, l'essere mitologico dai poteri simili a quelli di un dio, altri non è se non un bambino che, fatto il suo ingresso in scena a circa metà della storia, avrà un ruolo a dir poco marginale negli eventi.
E quando nel 1988 ad Otomo viene proposto di trasporre il manga in un film, anzicchè in una serie a puntate, questo era ancora in corso d'opera; per lo script, il regista opta per trasporre solo i primi due volumi, su un totale di sei, ossia solo il primo atto della storia, con un finale inventato ad hoc per chiudere bene o male la vicenda e con tutte le conseguenze del caso.




Il mondo portato su schermo raggiunge nuove vette si splendore; Neo-Tokyo è una metropoli viva e pulsante, dalle luci abbaglianti, le quali celano un lerciume ed uno squallore materiale tangibili, nei quali Kaneda e Tetsuo sono perfettamente a loro agio.
Un pugno di ragazzi, quelli "Akira", veri e propri vuoti a perdere, il cui unico pensiero è dato dalle ragazze e dalla violenza spicciola; una caratterizzazione che aumenta il tasso distopico: l'incubo di una generazione priva di valori morali e materiali si concretizza nelle immagini del film, rendendo l'atmosfera sottilmente sinistra.




La violenza delle bande giovanili fa il paio con quella delle manifestazioni antigovernative, dei ribelli che hanno scoperto l'oscuro segreto dei dirigenti: gli esperimenti esper che hanno portato alla nascita di Akira, il cui risveglio ha causato la guerra.
Lo squallore delle strade si tinge così del sangue dei giusti, mentre Tetsuo viene rapito e sottoposto agli esperimenti del progetto Akira, da cui fuoriesce come un nuovo dio in Terra, smanioso di conquistare tutto pur di farla pagare a quel Kaneda reo di trattarlo come un bambino.




Una storia, quella giunta su schermo, che presenta molteplici spunti interessanti: la paura del millennio alle porte, con la distruzione "divina" della società; la distopia complottista e la violenza giovanile, il degrado urbano e le suggestione mistiche, tutte tematiche che si rincorrono per 125 minuti senza però mai giungere ad uno sviluppo anche solo parziale; i temi divengono così meri richiami e la storia procede unicamente sul binario dell'action con spruzzate di horror. Otomo gestisce a dovere entrambi i registri, ma alla lunga si avverte davvero troppo la mancanza di un substrato narrativo coeso e profondo.
Ma allora in cosa consiste davvero il fascino di "Akira"? Semplice: in una forma talmente perfetta da divenire essa stessa e da sola magnifico esempio di cinema dei grandi numeri.




Tutto in "Akira", dal design alle animazioni, è perfetto. Il cuore del film è in fondo già nella prima sequenza, la spericolata corsa in moto tra i Capsule e i Joker; dove svetta lei, la moto di Kaneda, sublime esempio di design futuristico anni '80 ancora oggi accattivante nelle forme. I tocchi di classe, già in questa sequenza d'apertura, non mancano: gli effetti di luce, compresi quelli pacchiani delle scie lasciate dalle moto, sono superlativi, aggiungono un che di vivo ad un'animazione già di per sè stessa talmente fluida e dettagliata da sembrare vera.




Puro spettacolo che continua nelle due ore successive; le animazioni e gli effetti di luce sono sempre, costantemente, perfetti nella loro fluidità, non c'è mai un calo nè nei movimenti, nè nel numero di dettagli su schermo. La visione diviene così magnifica esperienza sensoriale quando alle immagini viene abbinata la splendida colonna sonora, mix di sonorità tecno con un coro simil-religioso e reminiscenze etniche, in un cocktail post-modernista totale.




Ma già le sole trovate visive escogitate da Otomo basterebbero a rendere la sua creatura memorabile.
Le visioni oniriche di Tetsuo, gli incubi che lo perseguitano mentre il suo potere cresce, sono degne del miglior Svankmajer, con quell'immaginario infantile deviato verso l'oscuro.
Da antologia anche il body horror cronenberghiano, con la carne che diviene tumore impazzito per gonfiarsi a dismisura sino a trasformare il corpo in un organismo estraneo, un mutante fuori controllo dal volto infantile a dir poco inquietante.
E prima ancora, le visioni di un caos futuribile, la distruzione totale della megalopoli per mano di Tetsuo, con cavi elettrici che divengono tentacoli di un mostro inarrestabile, come visione cyberpunk di un'apocalisse urbana.




Per essere apprezzato, quindi, "Akira" va visto per ciò che è: un gigantesco ed affascinante esercizio di stile, un saggio sulle potenzialità dell'animazione nel mezzo cinematografico ed un blockbuster di puro intrattenimento per adulti. E, prima ancora, un'esperienza sensoriale unica.

lunedì 16 aprile 2018

R.I.P. Vittorio Taviani


1929-2018

Assieme al fratello Paolo era tra i maestri del cinema italiano. Con pellicole come "Padre Padrone", "Kaos" e "La Notte di San Lorenzo" il loro cinema si è impresso per almeno un decennio nella memoria collettiva. E con "Cesare deve Morire" hanno dimostrato di avere ancora grinta e talento anche dirigendo un piccolo film con un budget inesistente e con oltre 80 anni di età a testa.

domenica 15 aprile 2018

War Horse

di Steven Spielberg.

con: Jeremy Irvine, Emily Watson, Peter Mullan, Niels Arestrup, Celine Buckens, David Thewlis, Benedict Cumberbatch, Tom Hiddleston, Toby Kebbell.

Avventura/Guerra

Usa, India 2011















Sembrava che con "Le Avventure di TinTin" Spielberg avesse ritrovato un gusto per il cinema d'avventura che si credeva ormai estinto, oltre che la voglia di sperimentare soluzioni visive ardite, che solo il cinema d'animazione può permettere.
Con "War Horse", invece, il Re Mida di Hollywood ritorna ad un cinema classico, adattando un famoso libro per ragazzi di Michael Morpurgo, in quello che è uno dei suoi exploit peggiori.




Il target del film deve essere sempre tenuto a mente: giovani ragazzi e bambini; ecco perchè la premessa della storia è labile, ossia le peripezie di un cavallo che vaga per l'Europa della Prima Guerra Mondiale, mentre il suo giovane padrone (Jeremy Irvine), quasi innamorato di lui, si arruola per ritrovarlo.



Una trama ai limiti dell'idiozia, che però serve ad imbastire un racconto sui buoni sentimenti: il cavallo Joey attraversa la guerra risvegliando il meglio di coloro che incontra, rappresentando una metafora dello spirito dell'essere umano, che può essere ferito ma mai distrutto; ecco dunque Joey spaccare in due un masso con l'aratro come se niente fosse, arare in un giorno un intero campo, scavalcare un carro armato e sopravvivere ad un ginepraio di filo spinato.
Se la metafora è forte e condivisibile, decisamente pacchiano e al contempo misero è il racconto che Spielberg imbastisce.




Tutti i personaggi che il buon cavallo incontra sono delle macchiette: due fratelli inseparabili, due amici buoni, una ragazzina malata ma vitale, suo nonno filosofo, soldati buoni ed altri cattivi e persino un commilitone equino di colore, giusto per non mancare nessuno stereotipo.
Personaggi piatti, privi di mordente, prigionieri di una caratterizzazione monodimensionale che ne imprigiona le azioni nella prevedibilità più pura; impossibile empatizzare con loro, in primis con il protagonista, sin troppo ottimista e buono.




Se la sostanza diviene subito fredda, la forma è quantomai ricercata; Spielberg si rifà al classicismo americano, caricando le inquadrature di una vis epica, allargando il campo il più possibile e regalandoci un finale talmente barocco nei colori e nelle forme da sfiorare il ridicolo; molte delle immagini, sopratutto quelle della campagna irlandese, appaiono posticce, sciupate da un eccesso di color correction per esasperarne i colori, sino a divenire cartoline patinate.




Decisamente più riuscito è il racconto bellico; confrontandosi per la prima volta con la Grande Guerra, colui che si è autoproclamato depositario della memoria storica della Seconda Guerra Mondiale abbandona ogni retorica e dipinge un conflitto dove non ci sono nè buoni, né cattivi, solo soldati chiamati a morire; non per nulla, le sequenze più riuscite sono quelle con protagonisti i due giovani fratelli tedeschi, disertori, la cui morte viene "celata" per pudore; nonchè l'assalto alla trincea nemica, dove giunge l'omaggio al Kubrick dell'immenso "Orizzonti di Gloria", tra camera a mano che anticipa i movimenti dei personaggi nei fossati ed un maestoso crane che li segue durante la carica.




L'affiatamento di Spielberg è tangibile, ma il suo racconto langue; a differenza di Joey, si accascia subito nei luoghi comuni per farsi smielato e fin troppo improbabile, anche per essere un film per ragazzi.
Il ridicolo involontario non fa sempre capolino, ma davvero non si riesce a credere ad una storia del genere; ben si sarebbe potuto alzare il tiro, creare un'epica bellica da un punto di vista neutrale omettendo parte del racconto, la più inutile, quella della fattoria; ma l'enfasi forzata sull'amicizia tra uomo e animale e la mano pesante di Spielberg rendono il tutto, alla fine, indigeribile.

R.I.P. Milos Forman


1932-2018


Un ribelle? Di sicuro un ottimo narratore dell'anticonformismo, Forman è stato uno dei più celebrati registi della New Wave americana per aver diretto quell'indimenticabile capolavoro di "Qualcuno volò sul nido del cuculo".
Ma è stata tutta la sua stagione americana a regalare pellicole bene o male indimenticabili, da "Taking Off" sulla scoperta della controcultura da parte della borghesia, a "Man on the Moon", con un Jim Carrey in stato di grazia, passando ovviamente per quel piccolo capolavoro di "Amadeus", biografia apocrifa, eppure eccellente di un genio mai troppo celebrato.
Se ne va in silenzio, Forman, ormai lontano dalla macchina da presa da quasi un decennio. E con lui scompare un pezzo importante del cinema.

sabato 14 aprile 2018

I Segreti di Wind River

Wind River

di Taylor Sheridan.

con: Jeremy Renner, Elizabeth Olsen, Jon Bernthal, Apesanahkwat, Kelsey Asbille, Graham Greene.

Usa, Canada, Inghilterra 2017


















---CONTIENE SPOILER---

Non esistono statistiche sulla scomparsa delle donne nativo-americane; così Sheridan chiude il suo secondo film e terzo tassello di un'ideale trilogia sulla frontiera americana, iniziata con "Sicario" e proseguita con "Hell or High Water". Un dato assente, un silenzio su di una realtà scomoda, neanche la più tragica di quelle vissute nelle riserve, veri e propri ghetti in pieno nulla dove la vitalità media è di neanche 50 anni.
Un' America nell'America, non differente dai quartieri più malfamati di L.A. o New York, lontana da quell'immagine di paradiso incontaminato che potrebbe servare. Ed il Wyoming protagonista di "Wind River" aggiunge un qualcosa in più al quadro di desolazione: il paesaggio ai limiti dell'alienante, immerso in nevi perenni ed ancora più perenni silenzi.




Succede poco in "Wind River"; anzi, il più è già accaduto: il cadavere della giovane nativa Natalie (Kelsey Asbille) viene ritrovato dal trapper Cory Lambert (Renner) immerso nelle nevi; per investigare sulla strana morte, arriva in paese una giovane ed avvenente agente dell' F.B.I., Jane Banner (Elizabeth Olsen), che assieme a Lambert e allo sceriffo Ben (Graham Greene) inizia a seguire la pista dell'omicidio.




Una trama semplice, "classica" che più non si può; perchè a Sheridan non interessa il meccanismo del "whuddunnit", tantomeno lo scompagimento dello stesso, quanto gettare uno sguardo umano ed empatico su di un pugno di personaggi segnati dal dolore.
Il dolore della perdita di una figlia, che segna Cory così come il padre di Natalie; lei, migliore amica di Emily, figlia di Cory, anch'ella trovata morta nella neve qualche anno prima, in circostanze tanto simili.
Famiglie a pezzi, distrutte da una desolazione interiore che fa il verso a quella esteriore: il consumo di droga come escapismo forzato, l'alcool come passatempo, la violenza come forma di intrattenimento.
E la tensione tra i nativi ed i bianchi è sempre alle stelle; se Cory è un un bianco che ha abbracciato le tradizioni indiane, riconoscendone la bellezza, i "cattivi" della situazione altro non sono che la versione moderna di quei colonizzatori che ricacciarono i figli del Grande Spirito nelle roulotte ai margini della società.




Il lutto diviene il perno su cui i personaggi sono chiamati a muoversi. L'assimilazione del dolore è passaggio necessario per ritrovare sè stessi, superare la perdita e, forse, ricostruire quel nucleo familiare distrutto dagli eventi.
Tanto che Sheridan decide di chiudere la vicenda, prima ancora che con il dato statistico fantasma, con un confronto tra i due personaggi cardine, i quali forse hanno avuto una pure minima catarsi dalla vicenda.




E se la regia a tratti imprecisa nella costruzione delle scene, un plauso va però fatto a Sheridan per l'uso sapiente dei silenzi, dei dialoghi asciutti e per la scelta di immagini mozzafiato, dove la magnificenza del paesaggio diviene perfetta incarnazione dello smarrimento dei personaggi.

martedì 10 aprile 2018

Fires on the Plain

Nobi

di Shinya Tsukamoto.

con: Shinya Tsukamoto, Lily Franky, Tatsuya Nakamura, Yuko Nakamura, Dean Newcombe, Hiroshi Suzuki.

Guerra/Horror

Giappone 2014














Già in "Kotoko", per Tsukamoto l'ossessione per la mutazione del corpo/mente e per la relativa disgregazione incontrava un'altra fobia, quella della guerra, che faceva capolino in una breve ma intensa sequenza. Fobia condivisibile, di questi tempi, con la Corea del Nord ed il suo atteggiamento ambivalente verso l'occidente e lo stesso Giappone, tanto che il grande artista, nel 2014, decide di elaborarla in un'opera completa.
"Fires on the Plain", basato sul romanzo omonimo di Shoei Ooka, già portato con successo al cinema nientemeno che da Kon Ichikawa nel 1959, è un viaggio allucinato nella testa dell'autore e nel suo rapporto con tutto l'orrore che scaturisce da un conflitto armato, dove le coordinate spazio-temporali proprie della II Guerra Mondiale vengono presto trasfigurate in un discorso universale, per un ritratto a tinte forti, ma sin troppo semplice.



Un inizio in medias res, con il soldato interpretato da Tsukamoto che fa avanti ed indietro dall'ospedale da campo alla base. Malato ai polmoni, il milite non trova conforto nei medici ed è costretto a scegliere tra il vegetare fuori dalla capanna-lazzaretto o il suicidio; finchè il conflitto non irrompe anche in quel pezzo di giungla, forzandolo ad un'odissea verso una salvezza apparentemente irraggiungibile.
Una giungla, quella ritratta, rigogliosa, dai colori sgargianti e vivi, contrapposti allo sporco dei soldati, macchiati di sangue e sporcizia per tutta la durata del film.
Un viaggio nei meandri della stessa dove essa diviene labirinto mentale e costrizione fisica: la mancanza di cibo mette sovente alle strette il protagonista, forzandolo a cibarsi di radici selvagge che gli causano malanni.
Fino all'incontro con altri sopravvissuti: l'allucinato Caporale, dal quale i proiettili sembrano davvero stare alla larga, il soldato piagnucolone ed il "Vecchio" ferito ad una gamba, strana coppia perennemente affamata.



L'orrore si dipana a poco a poco, la follia sprizza pian piano dalla mente. L'atmosfera si fa subito distorta, allucinata, mentre il personaggio di Tsukamoto regredisce a poco a poco ad uno stato ferino; sino a giungere al più basso grado possibile: un cannibale che per la disperazione divora la sua stessa carne pur di sopravvivere.
Intorno a lui, solo disperazione: dai commilitoni resi cinici e folli dagli eventi, ai civili spaventati a morte dalla sua sola presenza, tutto è votato alla distruzione, come in un Inferno dantesco risalito in terra nel quale i personaggi sono rimasti intrappolati.




Non c'è progressione vera e propria negli eventi, nè una vera e propria discesa nelle maglie della follia; benchè la regressione del protagonista sia lo stesso avvertibile, essa è già in atto all'inizio della narrazione; questa si sviluppa così in una serie di sequenze slegate tra loro, quasi episodiche, nel quale il protagonista resta isolato e chiamato a sopravvivere contro tutto e tutti.
Di conseguenza, ogni cosa è già scritta nell'incipit, il resto è pura ripetizione. Lo stile viscerale proprio del primo cinema di Tsukamoto rende le immagini incredibilmente disturbanti, come quelle di un horror vero e proprio: quando la violenza irrompe, non lascia scampo a nessuno, sia quando mostrata in modo diretto e cinico, sia quando lasciata in parte fuori campo.




Ma il racconto non è davvero incisivo, risulta sin troppo ovvio nella premessa e ancora più nell'esecuzione. Non graffia, nè riesce ad imprimersi a dovere nella mente. Nonostante la violenza e gli orrori, tutto diviene subito freddo, si assiste alle peripezie dei personaggi in modo distaccato, senza essere davvero coinvolti persino quando è l'atrocità pura a divenire protagonista.




Non un passo falso nella carriera di un grande autore, quanto un passaggio forse sin troppo obbligato nella sua riflessione, per questo privo di quella forza dirompente ed incontenibile che ha da sempre caratterizzato il suo cinema.

venerdì 6 aprile 2018

R.I.P. Isao Takahata


1935-2018


Co-fondatore dello Studio Ghibli assieme all'amico Miyazaki, Takahata è stato l'anima più sensibile dello studio, come testimoniato dalla sua lunga carriera, costellata da opere del calibro di "Only Yestarday" e "My Neighbors the Yamadas".
Ma la sua opera più rappresentativa resta il vibrante "La Tomba delle Lucciole", sentito e potente dramma sugli orfani di guerra, tra le pellicole più impressionanti mai dirette sull'argomento.

Finalmente Domenica!

Vivement Dimanche!

di François Truffaut.

con: Fanny Ardant, Jean-Louis Trintignant, Philippe Laudenbach, Jean-Pierre Kalfon, Philippe Morier-Genoud, Xavier Saint-Macary, Jean-Louis Richard, Caroline Sihol.

Noir/Commedia

Francia 1983















Sembra fatto apposta. Il fatto che un film come "Finalmente Domenica!" sia l'epilogo della carriera di Truffaut è straordinario, poichè in esso convergono tutte le tematiche del suo cinema in un ultima, perfetta, pellicola: l'amore per il noir e, prima ancora, per il cinema hollywoodiano classico degli anni '40, la passione per una figura femminile scaltra e dalla bellezza irresistibile (Fanny Ardant, la sua ultima musa), l'attrazione per la donna visto come motore che muove ogni cosa, l'affetto verso il cinema del maestro Hitchcock, che qui rivive nella messa in scena prima ancora che nella trama (basata su di un romanzo di Charles Williams).



Trama che si fa classicheggiante, con un imprenditore accusato d'omicidio (Trintignant) e costretto a nascondersi, mentre la sua bella segretaria (la Ardant) porta avanti un'indagine privata.
Indagine che come da tradizione del cinema americano classico è del tutto non lineare, con false piste e coincidenze per far avanzare il tutto; e che Truffaut, come Melville prima di lui, scompagina ulteriormente inserendo flashback ed uno sparuto flashforward.




L'omaggio alla donna ritorna per tutta la durata, prima nella forma (e nelle forme) della musa Ardant, la cui bellezza genuina è proporzionale alla propria intelligenza e caparbietà, contrapposta a quella delle "donne oggetto", finte bionde con finte ciglia, bellezze di plastica ridicolizzate in una divertente scena. Dopotutto, è lo stesso assassino, nel finale, a parlare della "magia" delle donne, della loro intrinseca capacità di far perdere la testa agli uomini, per Truffaut grazie innanzitutto alle loro gambe, viste con occhio intrigato qui ancora più che ne "L'Uomo che amava le donne".




Ma a farla da padrone è innanzitutto l'amore per il compianto maestro Hitchcock, che fa capolino durante tutto il film. Al di là dell'intreccio, è nella costruzione e nella messa in scena che si palesa l'omaggio. Tutte le situazioni sono inverosimili, quasi tirate via, sopra le righe (catene di night club con traffico di donne, la confessione finale dell'assassino), possibili solo in un universo fittizio quale quello filmico, dove la macchina da presa si muove in modo libero, quasi di propria volontà, divenendo punto di vista obbligato che crea tensione o ritrova fattori estetici del tutto "artistici", di concerto con la fotografia, che rifiuta categoricamente la modernità per dare al tutto un tono d'antan, come se si trattasse di un film del 1943 anzicchè dell' '83.





E nell'epilogo, Truffaut gioca come farebbe uno dei suoi bambini terribili, prendendo a calci il parasole di una macchina fotografica, per farci intendere come il tutto sia, alla fin fine, un gioco affettuoso, un omaggio scherzoso ma profondamente sentito (per questo incredibilmente vivo) a quel cinema e a quelle tematiche che nel corso della sua lunga e pregiata carriera sono divenuti vere e proprie ossessioni di un autore mai troppo celebrato.