sabato 26 maggio 2018

Dogman

di Matteo Garrone.

con: Marcello Fonte, Edoardo Pesce, Nunzia Schiano, Adamo Dionisi, Francesco Acquaroli, Alida Baldari Calabria.

Italia, Francia 2018


















Una terra di nessuno, un'anima persa, una violenza irrefrenabile. Il cinema di Garrone si è sempre composto di tali elementi per creare storie di ordinaria follia, con al centro personaggi alla disperata ricerca di qualcosa. In tal senso, "Dogman" è la perfetta enucleazione della sua poetica, dove tutti gli elementi di base ritornano e vengono elevati ad un livello successivo.




Garrone si ispira ad uno dei fatti di cronaca più truci della recente storia italiana, quello del "canaro della Magliana", Pietro De Negri, pregiudicato e piccolo spacciatore che nel 1988 ha seviziato e ucciso il suo ex compagno di crimini Giancarlo Ricci, tossicodipendente ed ex pugile di quart'ordine. Ma della cattiveria insita nelle gesta di De Negri, su schermo arriva poco o niente: da un fatto di sangue ai limiti del grottesco, il regista romano estrapola l'essenziale e rielabora i fatti per creare una storia sulla solitudine e sulla desolazione morale e materiale.




Nell'estrema periferia romana, in un luogo che sembra uno scenario post-apocalittico, si muove Marcello (Marcello Fonte, giustamente premiato a Cannes), toelettatore di cani e piccolo spacciatore, ben voluto tra i commercianti della zona; ma nello stesso luogo si aggira Simoncino (Edoardo Pesce), piccolo criminale e tossicodipendente che esercita su di lui un fascino malato.




Come ne "L'Imbalsamatore", motore degli eventi è un'amicizia deviata, questa volta purgata dai risvolti omoerotici, che si fa dipendenza umana di un soggetto "perdente" nei confronti di un maschio alfa.
Marcello è affascinato da Simone, dalla sua forza, dalla sua ottusa vis egoistica; da qui la subordinazione verso una figura di cui invidia, forse, la capacità di affermazione individuale ed il sacrificio verso questo oggetto del desiderio che, non ripagato, genera la violenza.




Il desiderio di accettazione, sia verso la figura di riferimento che verso la comunità, è pulsione primaria, forma di riscatto per una vita passata in un purgatorio dove le relazioni interpersonali (in primis quello con la figlioletta, vera e propria figura salvifica) sono l'unica ancora di salvezza dal nulla della solitudine.
Ne consegue un arco caratteriale che trasforma un personaggio buono (il salvataggio del cagnolino messo nel frigo) anche se immerso nella microciminalità ad un assassino irredento.




Garrone si avvicina con empatia a questo suo ennesimo "perdente", lascia che lo spettatore provi una forte compassione verso di lui anche quando si macchia dei crimini più orribili; lo stesso autore costruisce tutta la narrazione attraverso il suo solo punto di vista, eccedendo volutamente in primi piani, lasciando che siano i soli piani sequenza a scandire le sue azioni, annullando la distinzione temporale tra racconto e storia, i quali risultano così di una solidità sorprendente.
Pur piccolo e meno ambizioso di molti suoi lavori, con "Dogman" Garrone riscopre una dimensione prettamente personalistica per il suo cinema e riesce nell'intento di creare un gioiello di pura, sporca ed incredibilmente vera umanità.


EXTRA

A trent'anni distanza dall'accaduto, sono ben due i film ispirati alle gesta del Canaro della Magliana; oltre a Garrone, anche Sergio Stivaletti porta quest'anno su schermo le sue gesta, con un film decisamente meno ambizioso e più diretto: "Rabbia Furiosa- Er Canaro"




venerdì 25 maggio 2018

La Morte cavalca a Rio Bravo

The Deadly Companions

di Sam Peckinpah.

con: Maureen O'Hara, Brian Keith, Steve Cochran, Chill Willis, Strother Martin, Will Wright.

Western

Usa 1961















"C'è un discorso che John Ford ha iniziato e che io e Sam Peckinpah stiamo portando a termine". Parola di Sergio Leone, il quale, a margine della promozione del capolavoro "C'Era una volta il West", così descriveva l'ascesa del western crepuscolare. Sottogenere che poteva nascere solo negli anni '60, con la disillusione che serpeggiava in America ed Europa e che portava a rivedere in chiave diversa quegli eroi della frontiera che tante menti hanno fatto sognare. E Sam Peckinpah, assieme a Leone, è stato davvero il supremo cantore della fine dei valori di una volta.




Un uomo d'altri tempi, Peckinpah, un uomo che credeva in quei valori para-cavallereschi del vecchio west e che ora li vede crollare un pò alla volta, grazie al capitalismo furente, all'edonismo e all'egocentrismo moderno che portano l'essere umano a svuotarsi di ogni umanità per farsi predatore accanito.
Non per nulla i suoi eroi sono tutti dei "grandi vecchi", ex uomini di legge o fuori legge dotati di un ferreo codice d'onore che vengono disintegrati dalla modernità, spesso da una generazione priva di punti di riferimento o da una classe borghese interessata unicamente al profitto. Da qui l'elegia sentita per un mondo, quell'America primordiale, selvaggia ma pura, che non esiste più, che troverà il suo apice nei capolavori "Il Mucchio Selvaggio" e "Pat Garrett e Billy the Kid".
Ma il suo esordio sul Grande Schermo è di tutt'altra pasta: "The Deadly Companions" (il titolo italiano è fuorviante) è un western abbastanza convenzionale, dove le tematiche proprie del suo cinema risaltano solo a tratti.




Esordio che arriva dopo le collaborazioni con Don Siegel e tanta televisione; la star di "The Westerner" Brian Keith permette a Peckinpah di fare il grande salto, ma a controbilanciare le sue aspirazioni ci pensa il produttore Charles Fitzsimons, il primo di una serie di antagonisti che il grande regista troverà nel corso della sua carriera.
Produttore che massacra al montaggio il film per aumentare la presenza ed il peso negli eventi della moglie Maureen O'Hara, bravissima e bellissima e il cui story arc è anche alquanto originale per un western, ma che finisce per offuscare la storia del pistolero yankee e della sua vendetta.




Da un lato c'è lui, lo yankee, ferito ad un braccio, quasi scotennato da un ufficiale sudista durante la guerra, che ora ha ritrovato e del quale elabora il castigo. Dall'altro la bella ragazza madre Kitt, che vede morire il figlioletto Mead per mano dello yankee. Il viaggio verso il territorio Apache dove la donna vuole seppellire il cadavere del figlio diviene così motivo per lo yankee per guardarsi dentro, elaborare il senso di colpa per la morte accidentale del bambino e, di più, comprendere il peso della tanta agognata vendetta.




Non c'è trionfo nell'atto vendicativo, il quale viene evitato nel finale; la vendetta, usata come pretesto per vivere, viene svuotata di ogni forma catartica ed eroistica. Lo stesso protagonista non è assimilabile al classico eroe del west fordiano, avendo un carattere più ruvido, meno "cavalleresco" rispetto all'archetipo a là John Wayne, pur rimanendo un pistolero dal buon cuore.
Il punto di forza della narrazione giace proprio nel suo arco caratteriale, nella forza salvifica dell'amore per la bella Kitt e nella redenzione insita nel viaggio; storia d'amore che evita molti dei luoghi comuni del caso per farsi anch'essa ruvida, basata sul confronto tra due personalità scafate, con la donna che, benchè debole, non è mai davvero la donzella in pericolo e, anzi, risulta più disillusa dei suoi compagni maschi a causa della meschinità con la quale viene vista, dovuta al suo ruolo di ragazza madre e escort da saloon.




Se l'arco narrativo dei personaggi è abbastanza solido, decisamente debole è la costruzione della trama, con tanto di buchi di sceneggiatura mal celati; non si può che restare di sasso dinanzi al fatto che Turk, l'ex ufficiale confederato, non riconosca il suo vecchio avversario del quale ha quasi preso lo scalpo; tantomeno si può credere a lui e al suo compare Billy che, di punto in bianco, divengono compagni dello yankee. Buchi dovuti ai tagli imposti dal produttore e che affossano parte del racconto. Da dimenticare, inoltre, la colonna sonora, composta da melodie spesso fuori luogo.
Ma pur imperfetto, l'esordio di Peckinpah resta un piccolo western a tratti interessante, nel quale il genio del suo autore talvolta fa capolino in tutto il suo splendore, sopratutto nella creazione di immagini forti, come l'impiccagione che apre il film o il confronto con il pellerossa nel secondo atto.

lunedì 21 maggio 2018

JoJo's Bizarre Adventures- Diamond is Unbreakable Chapter 1

JoJo no kimyô na bôken: Daiyamondo wa kudakenai - dai-isshô

di Takashi Miike.

con: Kento Yamazaki, Ryinosuke Kamiki, Nana Komatsu, Yusuke Iseya, Jun Kunimura, Masaki Okada, Mackenyu Nitta, Takayuki Yamada.

Fantastico/Azione

Giappone 2017













Nel panorama del fumetto mondiale, non esiste davvero un' altra opera come "Le Bizzarre Avventure di JoJo", lo stralunato manga di Hirohiko Araki cominciato nel 1987 e tutt'oggi in corso di pubblicazione, che negli anni è stato anche il manga più venduto di sempre.
Un'opera definibile solo come "bizzarra", appunto, situata com'è tra la parodia, la commedia demenziale, horror e thriller, infarcita da un singolare senso dell'avventura e di combattimenti al fulmicotone, "JoJo" può rientrare tranquillamente nella categoria del "battle shonen", risultando come uno dei più belli, di sicuro il più originale di sempre. Merito del suo autore e della sua immensa capacità di ricreare, di serie in serie, la sua opera in modo sempre fresco e sgargiante.




"JoJo" nasce però come un semplice fumetto d'azione; la prima serie, "Phantom Blood", introduce il protagonista Jonathan Joestar, rampollo dell'omonima famiglia nobile inglese, che verso la fine del XIX secolo deve confrontarsi con il fratellastro Dio Brando, ambizioso popolano adottato dai Joestar, cattivo fin nel midollo ed intenzionato ad impadronirsi della fortuna della famiglia; questo finchè non fa irruzione il fantastico: a causa della maledizione di un'arcana maschera di pietra, Dio diventa un vampiro e JoJo, assieme al barone Zeppeli, all'ex tagliagole Speedwagon e ad un pugno di combattenti, inizia una crociata per distruggerlo.




In questa sua prima incarnazione, "JoJo" è poco più di un battle shonen caratterizzato da un tratto ipermuscoloso (simile a quello di Tetsuo Hara), colori innaturali (ispirati alle opere di Gauguin), una vagonata di citazioni dal mondo della musica ("Zeppeli" da Led Zeppelin, ma anche JoJo come nella canzone dei Beatles, Tom Petty e Dio Brando come Marlon Brando e Ronnie James Dio) e da combattimenti di buon livello: l'uso delle "onde concentriche" permette ai personaggi di compiere azioni spettacolari, garantendo una buona dose di intrattenimento. Ma il meglio arriva alla fine: con un colpo di scena spettacolare, Dio riesce in extremis a sconfiggere Jonathan, il quale muore a fine serie. A continuare le bizzarre avventure ci penserà così suo nipote Jospeh, la cui storia è ambientata durante la II Guerra Mondiale. Ed è qui che sta un'altra trovata geniale di Araki.




Ogni serie ha un protagonista ed un'ambientazione diversa. Rifacendosi alla saga de "Il Padrino", l'autore decide di mettere al centro della narrazione la famiglia Joestar, con un protagonista nuovo di volta in volta ed il protagonista della serie precedente nei panni di comprimario. La seconda serie, "Battle Tendency", inaugura anche un altro tratto essenziale del manga: i poteri limitati dei protagonisti. Contrariamente a quelli di "Dragon Ball" e "Naruto", i personaggi di "JoJo" hanno un move set limitato quasi fino all'essenziale, il che forza Araki a concepire soluzioni sempre fresche per i combattimenti; da antologia, in tal caso, in questa seconda serie è il confronto finale, che inizia con una sfida di corsa alle bighe.




Con la terza serie, "Stardust Crusaders", arriva anche il successo globale; protagonista è Jotaro Kujo, nipote di Joseph Joestar, che ritorna come comprimario, il quale scopre di avere un potere speciale: uno spirito combattivo che lo protegge, detto "stand"; ed è quest'ultima trovata che dona ulteriore originalità al manga, oltre ad essere stata plagiata ed omaggiata in centinaia di altri fumetti; ogni personaggio ha ora un suo stand, il quale ha massimo due attacchi, cosicchè la strategia del combattimento diviene essenziale e le battaglie divengono di conseguenza ancora più spettacolari. "Stardust Crusaders" è anche la serie più lunga, oltre a quella in cui il senso di esotismo si fa più marcato, essendo strutturato come un lungo viaggio verso Il Cairo, dove un redivivo Dio Brando attende i protagonisti. Ed è sempre qui che l'umorismo si fa più marcato, trasformando a tratti il tutto in una sorniona parodia di "Hokuto no Ken".




Trasposto in animazione per la prima volta negli anni '90, "JoJo" è un franchise che non conosce il tramonto, tanto che la nuova serie anime, prodotta a partire dal 2012 dallo studio David, ha dato ancora più esposizione ad una saga già amatissima. Da qui l'idea di trasporre al cinema le avventure della famiglia Joestar. 
Curiosamente, per l'adattamento, si è scelto di non trasporre "Phantom Blood", nè la più celebre "Stardust Crusaders" o una delle serie più recenti, bensì "Diamond is Unbrakable", quarta serie, con protagonisti Josuke Higashikata, figlio naturale di Joseph Joestar, e Jotaro Kujo. Il perchè è in realtà facilmente intuibile: è ad oggi una delle poche ad essere ambientata totalmente in Giappone, nella immaginaria cittadina di Morioh, rendendo le riprese più semplici.
E per trasporre un manga folle e ameno come "JoJo", forse non esiste miglior regista di Takashi Miike, il quale, fedele al suo stile, traspone in modo letterale lo stile di Araki su schermo.



Miike come sempre opta per un approccio del tutto fedele alla controparte cartacea: il design di tutti i personaggi è pressocchè identico a quello che hanno nel manga; il tono, tuttavia, è più serio, privo di quell'umorismo demenziale che rendeva davvero riuscita l'opera di Araki.
La rilettura di fatti e personaggi, ad ogni modo, non manca: largo spazio viene dato al rapporto tra Josuke ed il nonno poliziotto (interpretato dal grande Jun Kunimura) e la crescita del protagonista risiede proprio nella sua ammirazione per il genitore surrogato.


Per il resto si ha una trasposizione del tutto fedele delle pagine del manga: torna il serial killer Angelo, così come il comprimario Koichi e l'inquietante Yukako. Peccato che la storia si fermi esattamente a metà degli eventi: non c'è praticamente nessuna traccia di Kira Yoshikage, l'assassino seriale ispirato al Duca Bianco di David Bowie che tanto filo da torcere dà ai Joestar; tutta la trama è così spezzata in due, prima dal confronto con Angelo, poi con i fratelli Nijimura, con il mcguffin dell'arco che crea gli stand user a fare da collante.


E la natura episodica del film non permette allo spettatore occasionale di goderne a pieno: troppi gli interrogativi lasciati in sospeso, primo fra tutti quello sul mcguffin stesso, del quale non viene data la benchè minima spiegazione; così come sono spariti tutti i riferimenti a Dio e alle battaglie precedenti.
Su tutto è però la regia di Miike a lasciare perplessi: come spesso accade in quest'ultima fase della sua carriera, si limita a dirigere tutto con il pilota automatico, senza guizzi né virtuosismi di sorta, appiattendo il tutto.


Non stupisce, di conseguenza, la pessima accoglienza che la pellicola ha avuto in patria, rappresentando ad oggi l'unico vero flop del brand di "JoJo". Il che è, in fondo, anche un peccato: un secondo capitolo delle avventure live action di Josuke ben avrebbe potuto rimediare agli errori di questa prima incarnazione. E Miike aveva davvero tutte le carte in regola per rendere l'adattamento delle follie di Araki davvero memorabile.

sabato 19 maggio 2018

Terminal

di Vaughn Stein.

con: Margot Robbie, Simon Pegg, Dexter Fletcher, Mike Myers, Max Irons, Katarina Cas.

Irlanda, Inghilterra, Usa, Hong Kong, Ungheria 2018


















Quanto è costata l'influenza di Tarantino sul cinema noir? Tanto, forse troppo. Perchè la stilizzazione forzata di storia e regia può davvero generare mostri, così come "Terminal", esordio alla regia di Vaughn Stein, dimostra.



In una città anonima, avvolta in una notte perenne ed illuminata solo dai neon, si muove uno strano gruppo di personaggi: la dark lady Annie (Margot Robbie), cameriera e pole dancer, il professore moribondo Bill (Simon Pegg) ed i due strani killer Vince (Fletcher) ed Alfred (Irons), ognuno dei quali sembra serbare un segreto.




Una storia semplice, che non regge i 90 minuti di durata, che si rivela sin troppo archetipica una volta che le sue carte vengono scoperte.
Il gioco dei colpi di scena forzati si sfascia a pochi minuti dall'inizio, rendendo il tutto prevedibile. L'intreccio diviene così freddo e risulta sin troppo compiaciuto nei suoi dialoghi ricercati e nella caratterizzazione sfuggente dei personaggi.




La noia si accompagna presto alla prevedibilità e non resta che accontentarsi della fotografia di Christopher Ross. E del cast, con una Robbie al solito magnifica ed un redivivo e divertito Mike Myers.

Deadpool 2



di David Leitch.

con: Ryan Reynolds, Josh Brolin, Morena Baccarin, T.J. Miller, Zazie Beetz, Brianna Hildebrand, Bill Skarsgaard, Terry Crews, Lewis Tan.

Azione/Commedia

Usa 2018
















Quasi una favola, quella di Deadpool, è proprio il caso di dirlo, dato anche il carattere folle e beffardo del personaggio. La favola di un fumetto che nessuno voleva portare su Grande Schermo, snobbato a causa della sua non convenzionalità, che riesce ad ottenere il via libera come progetto filmico solo a fronte di un budget modesto e a causa della caparbietà di Ryan Reynolds; solo per poi rivelarsi un successo globale, far divenire in brevissimo tempo il suo protagonista un'icona pop e rinverdire la carriera del suo interprete, oltre a dimostrare come il pubblico sappia accettare comic movie meno mainstream, meno ancorati ai canoni del "genere".
Così da reietto di Hollywood, Deadpool diviene proprietà calda, mezzo perfetto per vendere merchandise (destinato ovviamente ad un pubblico adulto) e sinonimo di blockbuster. Tanto che il relativo sequel arriva a poco più di due anni di distanza, con un budget più sostanzioso ed una campagna promozionale ancora più aggressiva. Nonostante le difficoltà produttive (il licenziamento di Tim Miller durante la pre-produzione, sostituito dal David Leitcth di "John Wick"), questo seguito si rivela bene o male riuscito: più grande, più casinario, più divertente e più adrenalinico.
Ma più che un sequel vero e proprio, "Deadpool 2" è una sorta di espansione dell'universo del Mercenario Chiaccherone, che ora come non mai diviene parte integrante di quello degli X-Men. Tanto da poterlo vedere come un perfetto adattamento di una delle testate "sorelle" degli Uomini X: la X-Force di Rob Liefeld.




"X-Force" nasce dalle ceneri di un'altra X-testata, "New Mutants" (il cui adattamento per il Grande Schermo è anch'esso imminente): dal n°100, "New Mutants" viene ribattezzata come "X-Force" da Liefeld e Fabian Nicieza, i quali introducono anche nuovi personaggi (tra i quali Deadpool nei panni di un villain) per riorganizzare il roaster da super gruppo ad organizzazione paramilitare; d'altronde sono gli anni '90: il machismo fascistoide e la violenza gratuita imperano nei comics ed "X-Force" ne è la rappresentazione più fulgida; pregno di azione priva di senso, disegni sproporzionati e testosteronici, storie puramente pretestuosa e personaggi fatti con lo stampino, "X-Force" è il perfetto figlio della filosofia di Rob Liefeld, vero e proprio trash fumettistico nell'accezione peggiore del termine.
Ma come tutta la spazzatura che si rispetti, anche in "X-Force" non mancavano delle trovate di valore: oltre alla prima apparizione di Deadpool, in essa compare anche (già dai tempi di "New Mutants") l'altra celebre creazione di Liefeld, ossia Cable.




Apparso per la prima volta nel 1990, Cable, vero nome il chilometrico Nathan Dayspring Askani'son Christopher Charles Summers, è un personaggio a dir poco bislacco, eppure incredibilmente affascinante. Il suo aspetto fisico, iperpompato, ibrido uomo-macchina con un occhio sfregiato ed uno cibernetico, dotato di poteri psichici ma perennemente armato con fucili enormi, è puro stile Lifeld anni'90, ma sono la sua caratterizzazione e la complessa biografia a renderlo carismatico.
Cable è figlio di Scott Summers, alias Ciclope, e Madeline Pryor, clone di Jean Gray creata dall'eugenetista Sinistro; il piano originale del villain era quello di creare il mutante più potente mai esistito, ma le cose non vanno per il verso giusto: ancora in fasce, Nathan viene infettato dal tecno-virus, un agente patogeno che muta gli organismi in macchine; per evitare la sua totale conversione, viene inviato nel futuro dagli X-Men, dove cresce nel clan Askani, ultimo baluardo nella lotta contro Apocalisse, di cui Cable diviene la nemesi, sopratutto dopo aver scoperto come sia stato lui la causa dell'infezione del tecno-virus: il mutante dai poteri divini, in cerca di un nuovo corpo-ospite, ha usato la malattia per testare i poteri del giovane Summers, trasformandolo in un cyborg.




Nella sua lunga vita editoriale, Cable diverrà il protettore della mutante Hope, chiave per la distruzione di Apocalisse, ospite dell'entità cosmica nota come Fenice, sovrano di una nazione dell'est Europa, oltre che protagonista della fortunata serie "Cable & Deadpool", in coppia con il suo ex nemico; e scoprirà due fatti inconcepibili: il suo arcinemico della prima ora Stryfe altri non è che un suo clone; e, ancora peggio, il tecno-virus del quale lo stesso Apocalisse si serve per potenziarsi è lo stesso che lo ha infettato alla nascita: a causa di un loop temporale, Cable ha infettato Apocalisse e Apocalisse ha poi infettato il piccolo Cable.



Di tutta la complessa biografia del personaggio, in "Deadpool 2" non c'è nulla, forse per evitare di concedergli fin troppo spazio in un film concepito per essere solo un ponte verso "X-Force", oltre che one-man-show del Mercenario Chiaccherone.
Se il primo "Deadpool" era un piccolo film coraggioso e beffardo, il secondo è una pellicola più convenzionale e meno ardita. Il che non deve neanche stupire: l'alto budget speso per dar vita alle belle sequenze action necessitava di un approccio più vendibile al grande pubblico. Ecco dunque Wade Wilson divenire anch'egli una figura paterna come il Wolverine di "Logan", alle prese con un giovane mutante mentalmente instabile e bisognoso d'affetto; nuovamente, un adulto in cerca di un figlio trova un ragazzo in cerca di punti di riferimento, episodio che porterà alla crescita interiore di entrambi. Figura paterna che torna anche nella caratterizzazione di Cable, ora padre in cerca di vendetta. Da qui una serietà forse a tratti sin troppo insistita in una storia fin troppo semplice.



Leitch riesce a muovere bene stuntmen e veicoli, la sua padronanza del mezzo filmico nelle sequenze d'azione è sempre avvertibile. Ma la mancanza di una verve acida talvolta si sente: la serietà finisce talvolta per far cascare a vuoto le gag e l'umorismo, pur beffardo, è più edulcorato rispetto al primo film. Non mancano pezzi di pura genialità, come la prima missione della X-Force, davvero da antologia, ma in generale è avvertibile la volontà di rendere il tutto più digeribile per le masse.




Mancanza di verve che rende questo secondo exploit di Reynolds e soci riuscito, ma meno memorabile rispetto al pur imperfetto esordio. "Deadpool 2" è sicuramente un blockbuster ambizioso, ma la cui carica ironica non viene talvolta valorizzata a dovere.

lunedì 14 maggio 2018

Io sono un Autarchico

di Nanni Moretti.

con: Nanni Moretti, Luciano Agati, Lorenza Cordignola, Simona Frosi, Fabio Traversa, Andrea Pozzi.

Italia 1976



















Si può pensare quel che si vuole di Nanni Moretti, ma due cose sono assolutamente vere riguardo il suo conto. Primo: è un narcisista convinto, compiaciuto di sè stesso e delle proprie posizioni, arroccato in un egoismo/egocentrismo che trasuda da ogni singolo fotogramma di qualsiasi dei suoi film. Secondo: è impossibile dire che la sua filmografia, almeno nel primo decennio della sua carriera, sia mediocre o trascurabile.
Perchè Moretti incarna, nel bene e nel male, l'italiano tipo, con le sue elucubrazioni politiche del tutto autoreferenziali, i girotondi inutili bisnonni degli "indignati", la megalomania irredenta, tutti atteggiamenti e conseguenze proprie dell'italianità moderna. E di conseguenza, i suoi film sono sempre testimonianza preziosa di un periodo storico, oltre che dissertazioni spesso riuscite sulla crisi politica della sinistra e dell'Italia intera. A partire dal suo esordio, l'autoprodotto "Io sono un Autarchico".




C'è un senso di disfatta perenne in questa storiella che Moretti si inventa per dar sfogo alle sue ossessioni: un gruppo di personaggi scalcinati che tenta di mettere in scena una piece sul comunismo e finisce per essere presa a fischi. Ogni singolo personaggio è chiuso in sè, prigioniero della propria inettitudine, a partire dall'alter ego morettiano doc, che qui esordisce al pari del suo creatore: Michele Apicella.




Apicella si nasconde dietro piccoli gesti, frasi sconnesse, veri e propri frammenti di un discorso esistenzialista/politico fatto a pezzi e fagocitato un pò alla volta solo per essere rigurgitato a tratti. Un discorso, il suo, che non va da nessuna parte, fatto di proclami intellettualistici che oggi definiremo "radical chic", ma che all'epoca erano la perfetta testimonianza di una classe piccolo-intellettuale lasciata allo sbando.
Non ci sono più punti di riferimento: l'ideologia comunista si è imborghesita dopo il furore del '68, cristallizzata in vuoti proclami e ancora più vuoti gesti. Da qui la borghesizzazione del comunista, che vive grazie all'assegno da duecentomila lire del papà, in totale antitesi con l'autarchia proclamata dal titolo.
Autarchia che è cifra stilistica, con tutto il film girato in 8mm, camera quasi sempre fissa, movimenti ridotti al minimo ed inquadrature strettissime, per lo più primi piani del cast.




Autarchia che, nella narrato, porta ad uno costante scollamento da tutto. Scollamento dalla realtà quotidiana e dal cinema che si nutre di piccole storie e piccoli personaggi (l'odio di Apicella per la Wertmuller, esplicitato dal vomito conseguente alla notizia del suo successo in America); scollamento tra i personaggi, con Apicella che si separa dalla moglie nella prima scena ed è destinato a non rivederla mai più, così come il suo amico non riesce mai ad avviare un dialogo con la vicina di casa, suo oggetto del desiderio. Scollamento verso la vecchia generazione, tanto odiata, ritenuta superata, con una pernacchia divertita a Moravia che il buon Moretti poteva tranquillamente risparmiarsi.




Scollamento, infine, verso quella stessa ideologia di sinistra nella quale nessuno riesce più a rivedersi, perso nelle proprie ossessioni e miserie; non c'è dialogo, nè retorica: come il pubblico dello spettacolino fugge dal confronto post-rappresentazione, anche i personaggi vivono di dialoghi autoreferenziali, dove non c'è alcuna comunione dialogica, solo una forma di individualismo intellettuale.




Il limite del discorso morettiano è anche scontato: il totale arroccamento nelle proprie posizioni; non c'è vero confronto, non ci sono dubbi sulla tesi propugnata, nè volontà di apertura verso possibili appigli o soluzioni alla crisi ritratta. Moretti è chiuso in sè già in questo primo film, proprio al pari del pubblico che abbandona il teatro, trasformando un possibile dialogo in una masturbazione esibita che, di conseguenza, assume valore solo in quanto istantanea di un mondo che oggi, nelle ceneri della Seconda Repubblica, non esiste più e del quale restano solo gli intellettualismi compiaciuti, sia quelli dell'autore che della classe pseudo intellettuale che tanto odia.

sabato 12 maggio 2018

Loro 2

di Paolo Sorrentino.

con: Tony Servillo, Riccardo Scamarcio, Kasia Smutniak, Roberto Erlitzka, Alice Pagani, Elena Sofia Ricci, Fabrizio Bentivoglio, Ricky Memphis, Iaia Forte.

Italia, Francia 2018


















Che piaccia o meno, un merito assoluto va riconosciuto a Sorrentino: con "Loro" ha avuto il coraggio di dare al pubblico un ritratto impietoso e diretto di Berlusconi, senza abbellimenti, filtri, retorica o codardia di sorta. Il Berlusconi di Sorrentino, la sua "maschera priva di volto", è il Berlusconi più vicino al reale che si sia mai visto al cinema e, in generale, in un'opera di fiction (ed in proposito, Nanni Moretti dovrebbe solo zittirsi ed imparare). Un coraggio, quello di Sorrentino e di Umberto Contarello, che nella seconda parte del dittico si fa più spiccato, in un racconto più compatto e sicuro. Ed ancora più corrosivo.




Un racconto che, al contempo, perde un pezzo che sembrava essenziale: la storia di Sergio Morra finisce nel dimenticatoio, obliata dal ritratto di "Lui", tanto che ci si chiede a cosa sia servita la prima parte di "Loro 1"; un'opera di montaggio più articolata e meno compiaciuta avrebbe sicuramente giovato al film, che poteva tranquillamente essere ridotto ad un unico episodio di due o tre ore massimo.
Quello che si perde in narrazione, lo si recupera in descrizione. Si parte con la rimonta di Berlusconi, la corruzione dei sei senatori che hanno portato al ribaltone del 2008, con Ennio Doris (interpretato sempre da Servillo, che fa gara di bravura con sè stesso) che diviene subcosciente personificato di Silvio, impegnato a trovare un modo per risalire quella cresta da cui sembra essere stato spodestato.




Berlusconi diviene protagonista assoluto e lo sguardo di Sorrentino si fa privo di compromessi. Con uno stile più secco, meno compiaciuto della bellezza delle immagini, lo descrive come il peccatore di Abel Ferrara, un uomo perso nel suo male e per questo incredibilmente patetico. Da qui il confronto con la giovane Stella, l'aspirante attricetta che ora si fa coscienza morale, la quale, di fronte alla buffoneria esibita, ha il coraggio di sottolineare quanto sia squallido il mondo che ha costruito e, prima ancora, i suoi atteggiamenti da finto giovane.



Ma ancora più penetrante è il confronto con Veronica, qui divenuta controcanto drammaturgico che infrange le illusioni di cui Berlusconi si copre; la messa in scena del loro confronto, ideale climax di tutta la pellicola, è quantomai secca e basata, purtroppo, solo sul dialogo: tolti i fronzoli, i colori sgargianti, i movimenti di macchina arditi, quel che resta è il pugno duro della verità, vomitata in direttamente in faccia; "Lui" viene finalmente smascherato per il bugiardo che è, per l'ossessivo onanista egocentrico che ha un disperato bisogno di attenzioni. Il peccatore si scopre bambino, che si diverte a giocare con un balocco mentre il paese che dice di amare muore.
Da qui quell'ultima, fulgida immagine, quella di un Cristo di marmo, un Dio morente, duplice simbolo di un uomo finito, schiacciato dal suo stesso vizio, ma anche di un'intera nazione collassata sotto il suo peso, distrutta dall'arrivismo di un piazzista da strapazzo. Ed alla fine non restano che macerie, in quel post-terremoto ennesima occasione per lucrare, dal quale tutti sono usciti sconfitti, persino "Lui", ormai privo di qualsivoglia credibilità.




Ma non c'è vera pietà verso questo freak, questa caricatura di sè stesso, solo uno sguardo lucido verso quel disastro che il suo egocentrismo ha causato. E, prima ancora, verso quell'immensa pagliacciata che è la sua esistenza.
Se in "Loro 1" le immagini erano fin troppo barocche, in "Loro 2", paradossalmente, non lo sono abbastanza; c'è un abuso della forma dialogica per portare avanti la storia, la descrizione e il dramma, come in "Youth", colpa dello script troppo verboso, lontano dai migliori esiti del cinema di Sorrentino.
Eppure, nonostante tale limite stilistico, questo ritratto impietoso riesce davvero a colpire nel profondo, a scuotere la coscienza per la sua incredibile carica di onestà. Tanto che, forse, non sarebbe sbagliato mostrarlo nelle scuole, per far capire a tutti chi è davvero l'Uomo che ha fottuto l'Italia.

lunedì 7 maggio 2018

R.I.P. Ermanno Olmi



1931-2018


Un ultimo pezzo del grande cinema italiano del passato se ne è andato. Olmi era un visionario, dotato di un senso del mistico unico, pronto a mettere in discussione tutto e tutti, nonostante l'ultima fase della sua carriera sia stata poco memorabile.

L'Isola dei Cani

Isle of Dogs

di Wes Anderson.

Animazione/Commedia

Usa, Germania 2018

















Dimensioni lineari, piatte ma ricercatissime e colorate in modo sgargiante; un linguaggio unico e personalissimo quello di Wes Anderson, fatto di immagini geometriche e bidimensionali, dove l'animazione spesso si fonde con il live-action per creare qualcosa di unico. I numi tutelari sono avvertibili: il Kubrick di "Shining" e sopratutto Yasujiro Ozu.
Per la sua escursione nipponica era quindi d'obbligo aspettarsi un gusto ancora più sfrenato per il classicismo del cinema giapponese, per quelle immagini con forme speculari, dove la macchina da presa è sempre rasoterra ed inquadra i personaggi di fronte o di lato, mai a tre quarti. Ed invece Anderson stupisce tutti aggiornando il proprio stile, conferendoli un'inedita profondità.



Profondità d'immagine che va di pari passo con un racconto sfaccettato e dalla sottile metafora politica. I cani divengono gli oppressi, vittime di un sistema che li emargina in quanto diversi, sino a relegarli su di un isola-lager, letteralmente in mezzo ai rifiuti, ossia gli scarti della società. Chief, il più ruvido del branco dei protagonisti, e la sua ideale controparte Spots sono due facce di una stessa medaglia: Spots è il servitore fedele, un samurai il cui padrone, Atari, percorre mari e monti (di immondizia) pur di ritrovare; Chief, d'altro canto, è un ronin in tutti i sensi, un cane senza padrone alla deriva, perso nella sua propria ossessione per la libertà, che finisce per compiere un viaggio di formazione con il quale scoprirà l'importanza dell'appartenenza.




Se nel cinema di Anderson precedente il fulcro era sempre dato dalla figura paterna o dalla sua assenza, qui il valore diviene quello della famiglia in toto, dove la ritrovata catarsi (presente da "Moonrise Kingdom in poi) porta alla riscoperta di tale valore da parte del randagio e del malvagio.




Ed Anderson si diverte a giocare con il linguaggio. Al di là dell'inedito senso di profondità, è semplicemente geniale la trovata di lasciare in giapponese tutti i dialoghi degli umani, tradotti in simultanea nei passaggi più importanti, ponendo al centro di tutto il migliore amico dell'uomo come creatura più "umana"; lo stesso Atari, nella sua odissea, ricorda il comportamento di un amico fedele alla ricerca del proprio padrone, mentre l'evoluzione di Chief ricorda quella di un personaggio in tutto e per tutto umano.
Gioco che continua nell'animazione, dove la tridimensionalità dell'animazione passo-uno è intercalata con la bidimensionalità di quella classica, dove la profondità viene alternata sapientemente alla pura geometricità e dove lo split screen duplica i centri di interesse.




Da qui la perfetta riuscita di un'opera sorprendente e divertente, in cui l'umorismo non è mai forzato, rendendo il tutto ancora più fresco.