venerdì 27 luglio 2018

L'insostenibile leggerezza del Genio- 90 anni di Kubrick




Avrebbe compiuto 90 anni giusto ieri, Stanley Kubrick, se non fosse scomparso, nel sonno, quel 7 Marzo 1999, durante le ultime fasi di lavorazione di "Eyes Wide Shut", suo film-testamento.
Quasi vent'anni di gap in cui avrebbe sicuramente regalato al pubblico almeno un altro capolavoro, forse il tanto inseguito "Napoleon", forse qualche altra eccelsa visione umana. Non è dato ovviamente saperlo; quel che resta è una filmografia breve ed intensissima: appena 13 film in quasi 50 anni di carriera, durante i quali ha attraversato la Hollywood dello Star System e la New Wave degli anni '70, quasi tutti i generi cinematografici americani e non (manca all'appello giusto un western, che avrebbe dovuto persino dirigere: "I due volti della Vendetta", poi portato in scena da Marlon Brando), per creare 13 visioni in cui la costante è l'eviscerazione dell'esperienza umana, sia come singolo che come specie.



Una ricerca, la sua, di un comune denominatore a tutta la Storia dell'Uomo. L'esempio più fulgido è ovviamente "2001: Odissea nello Spazio", vera e propria epica sull'umana evoluzione; ma non mancano altri tasselli essenziali in ben altre opere: basti pensare alla critica dell'età della Ragione in "Barry Lyndon", a quella della folle modernità de "Il Dr. Stranamore" o alla duplice messa in scena della follia di "Shining" e "Full Metal Jacket", la prima intesa come fine del raziocinio, la seconda come sistematica de-umanizzazione dell'uomo in una perfetta macchina da uccidere ("L'esercito non vuole dei robot. L'esercito vuole dei killer").




Ricerca che prende le forme di uno stile unico, dove la totale padronanza della messa in scena, dallo script agli effetti speciali, gli ha permesso di creare immagini dalla perfezione sbalorditiva: ogni fotogramma dei suoi film è un vero e proprio quadro, dove l'uso delle ottiche e la gestione dello spazio porta a creare dei quadri in movimento. L'esempio più fulgido è anche il più scontato: il magnifico "Barry Lyndon", dove la ricercatezza formale è sinonimo della freddezza d'animo di un intero secolo:




Perfezione nella ricercatezza dell'immagine che discende dalla sua formazione giovanile, quella di fotografo autodidatta:




Già in questo suo celebre scatto è avvertibile l'urgenza di riorganizzare lo spazio in un sistema di forme ad incastro, dove non esiste forma negativa. Una composizione barocca, ma mai tronfia, per questo assolutamente geniale.




Ed è, in fondo, alquanto scontato parlare di genio una volta che si sia tenuto conto della sua perfetta padronanza della tecnica filmica, che lo ha portato a sperimentare soluzioni inedite ed ardite. Inutile tirare in ballo gli incredibili effetti speciali di "2001" o la magistrale fotografia "naturalistica" di "Barry Lyndon". Meglio, allora, tenere presente la sperimentazione musicale di "Arancia Meccanica", dove i classici di Beethoven e Rossini rivivono in chiave elettronica, vero e proprio post-modernismo applicato al mezzo filmico, che finisce per divenire pura arte avanguardista.




O, ancora, la perfetta geometricità delle immagini di "Shining": una forma totalmente razionalista per narrare la perdita della ragione, il trionfo della follia e dell'incomprensibile (il sovrannaturale) sulla mente dell'essere umano:




Perfezione raggiunta grazie alla costante sperimentazione di nuovi mezzi. Sempre in "Shining" è celebre l'uso della neonata steadycam per seguire i personaggi. O in "2001" l'uso del front-projection per proiettare immagini di paesaggi reali su sfondi di tela in studio, in modo da creare la perfetta illusione di uno spazio infinito, racchiuso in realtà tra quattro mura.




Un genio, il suo, che si traduceva in pellicole potenti, eppure incredibilmente godibili. Kubrick non era e non voleva essere pedante: celebre la sua rinuncia, ad inizio anni '90, alla regia di un film sulla Shoah dopo l'uscita di "Schindler's List", per non tediare lo spettatore con una storia già vista.
E di fatto, è rincuorante rendersi conto di come le sue opere vengano apprezzate anche e sopratutto da un pubblico giovane, ammaliato dalla potenza delle immagini prima ancora che dalla forza dirompente dei suoi contenuti.
Un'immortalità che solo la vera arte può permettersi.

Sierra Charriba

Major Dundee

di Sam Peckinpah.

con: Charlton Heston, Richard Harris, Jim Hutton, James Coburn, Warren Oates, Ben Johnson, L.Q. Jones, Slim Pickens, Senta Berger, Mario Adorf, Michael Anderson Jr., R.G. Armstrong, Michael Pate, Brock Peters.

Western

Usa 1964













C'è un'urgenza comune a tutto il cinema western di Sam Peckinpah, quella di restituire la dimensione del mito ad un livello più terreno, più umano, dove siano i personaggi con tutte le loro macchie ed imperfezioni ad essere il centro dell'universo, piuttosto che le azioni epiche.
E di epica, Peckinpah ne sapeva molto, anche se la sua era lontana anni luce dalla spavalderia di un John Wayne e simili. Un'epica che avrebbe dovuto declinare con "Major Dundee" in tutto il proprio fulgore e, sopratutto, ambiguità; ma è qui che, più di prima, si manifesta il suo nemico, quella produzione che gli toglierà il film dalle mani a riprese ancora non terminate, minacciando addirittura di gettarlo al macero; se oggi "Major Dundee" esiste, lo si deve alla perseveranza di Charlton Heston, che decise di finanziare il film di tasca propria e a fondo perduto. Ma anche questo sacrificio non era abbastanza per gli dèi di Hollywood: massacrato al montaggio, che ne ha obliato intere sequenze madri, il canto di Peckinpah viene ridotto dagli oltre 200 minuti iniziali ad appena 2 ore, più 15 minuti reinseriti in un'edizione estesa solo nel 2006.
Inutile sottolineare come, in questa sua veste, l'opera risulta poco coerente, a tratti poco chiara nelle caratterizzazioni, di sicuro non coesa e riuscita. Eppure, da qualche parte, esiste dentro "Major Dundee" un grande film.




1.864, ultimi anni della Guerra Civile Americana. Il bandito apache Sierra Charriba (Michael Pate) terrorizza i territori del New Mexico con razzie spietate. Contro di lui si schiera il maggiore Amos Dundee (Heston), il quale crea un esercito di reietti assieme al disertore ed ex compagno d'armi Benjamin Tyreen (Richard Harris) e si imbarca in una crociata ai limiti della follia per fermarne l'azione.




Dundee e Tyreen come e prima di Pat Garret e Billy the Kid: due ex amici che si ritrovano su due fronti diversi; il primo inflessibile (ma fino a che punto?) ufficiale yankee, il secondo immigrato irlandese ed ex soldato nordista condannato ingiustamente proprio dal camerata, unitosi poi ai confederati solo per cadere in mano nemica. Dundee è l'ordine costituito, Tyreen è il ribelle.
E come da tradizione nel cinema di Peckinpah, ribelle non vuol dire rinnegato, bensì individuo dotato di una propria bussola morale ben più forte di quella degli esponenti dell'autorità.




Di fatto, è Dundee ad essere un debole: dapprima porta i propri uomini in un'imboscata inseguendo l'illusione di una facile vittoria per il nemico; fa poi condannare senza appello un presunto disertore,  O.W. (Warren Oates), distruggendo il morale della truppa; per poi cadere in una seconda imboscata, dovuta alla sua passione per la bellissima Teresa (Senta Berger), donna che dice di amare, ma che tradisce con una facilità disarmante.
Non c'è eroismo per Dundee, la vanagloria inseguita forsennatamente gli sfugge in una battaglia anticlimatica con Charriba, dove a sferrare il colpo decisivo è il giovane trombettiere Ryan.




Tyreen, d'altro canto, percorre la sua strada con una coerenza invidiabile. Galante e risoluto, comprende subito il suo ruolo di secondo in comando, arrivando a giustiziare il presunto disertore O.W. per evitare una rivolta contro Dundee da parte dei propri compagni sudisti. E' lui a vincere per primo il cuore della bella Teresa, con i suoi modi da gentiluomo del sud; è sempre lui a riportare sulla retta via un Dundee in preda ai demoni dell'alcool; ed è solo lui a trovare una morte da eroe in battaglia, contro i lancieri francesi. E' lui, in sostanza, il vero eroe, l'incarnazione di quei valori amicali e virili schiacciati dall'ambizione personale e dalla vana ricerca di gloria, destinato a soccombere proprio come accadeva allo Steve Judd  di "Sfida nell'Alta Sierra".




Se lo scontro ideale tra i due poli opposti dei protagonisti emerge con la dovuta forza dalle pieghe (e piaghe) del montaggio voluto dalla Columbia, lo stesso non si può dire per il resto delle tematiche e della storia. Persa per strada è la sottotrama del soldato di colore Aesop, capofila di un gruppo di volontari afroamericani impegnati anch'essi nella ricerca della gloria della battaglia.Così come sfilacciato è il racconto, troppo adagiato su riempitivi e sequenze inutilmente lunghe, tanto che il succo della trama sembra spesso rimanere tra le righe, mai esplicitato con la dovuta forza su schermo.
Di tutt'altro colore è invece la regia di Peckinpah, che dirige tutto con pugno saldo e, sopratutto, con una modernità di stile incredibile: l'uso del montaggio, spezzato e talvolta riassuntivo, rende questa sua terza opera più vicina ai fasti de "Il Mucchio Selvaggio" che al classicismo dei due predecessori. Moderno è anche l'uso della violenza, iperealistica, con il sangue che scorre a fiumi durante i massacri.



Ma nella sua forma attuale, "Major Dundee" resta un'opera più interessante che riuscita. Le tematiche del cinema di Peckinpah sono tutte bene o male presenti, ma giungeranno su schermo con forza maggiore in film di ben altro calibro e consistenza.

venerdì 20 luglio 2018

Sogni d'Oro

di Nanni Moretti.

con: Nanni Moretti, Piera Degli Espositi, Laura Morante, Remo Remotti, Alessandro Haber, Gigio Morra, Miranda Campa.

Italia 1981



















Dopo i due cult generazionali "Io sono un Autarchico" e "Ecce Bombo", per Moretti giunge il momento di fermarsi, di fare autoanalisi e capire quali siano i limiti del suo modo di pensare.
O forse no: con "Sogni d'Oro", un Moretti sicuramente più maturo ma al contempo poco incline all'autocritica usa uno sguardo al solito acido per sviscerare una crisi interiore che è al contempo crisi di un intero sistema-paese. E riesce di nuovo a centrare il segno.




Sono tre i binari narrativi su cui si sviluppano gli eventi; il primo, più convenzionale, vede l'alter ego morettiano Michele Apicella nei panni dello stesso Moretti, ossia di un giovane regista intellettualoide a cui viene sovente rimproverato di dirigere film troppo autoreferenziali. E' qui che il buon Nanni mette in scena, al solito, le sue ossessioni più stringenti, per prima, appunto, la paura di non essere capito, di essere rifiutato da un pubblico sempre più alieno e da una classe intellettuale sempre più accondiscendente verso il buco nero di trashume televisivo e filmico che già allora inghiottiva la Penisola. Non per nulla, sono gli anni delle tv regionali e degli spettacoli di rivista un tanto al chilo sparati a mille in prima serata, con la conseguenza di un crescente e costante disinteressamento (o della paura dello stesso) del pubblico verso forme narrative ed espressive più complesse: al bando il cinema impegnato, a farla da padrone deve essere il musical o al massimo il dibattito televisivo votato all'idiozia più pura.




Nonostante sia questa la parte più convenzionale di tutto il film, Moretti riesce lo stesso a dare uno spaccato impietoso di un Italia che, in fondo, non è mai cambiata: incommensurabile è la sequenza dello scontro catodico tra Apicella ed il suo rivale, dove vince chi riesce a carpire meglio i gusti di un pubblico oramai assuefatto alla volgarità più pura.
Ma Apicella è anche caricatura di Moretti e di tutte le sue nevrosi, prima fra tutte la frustrazione di un intellettuale un pò troppo radical chic che mal sopporta chiunque lo circondi. Ed è qui che giunge una punta di autocritica: Apicella è ora personaggio antipatico, che schiva qualsiasi confronto che non si riduca all'insulto e che si diverte ad umiliare due poveri fratelli aspiranti filmmaker per il solo gusto di sfoggiare la propria frustrazione. L'affondo è verso quella classe di giovani intellettuale distaccatisi da tutto e da tutti, arroccati nelle proprie posizioni ultrapolemiche e non più in grado di comunicare qualcosa al proprio pubblico. Ed è qui che Moretti diviene anche profetico, basti pensare alla fase più recente della sua carriera, dove non è più riuscito a dar corpo ai veri conflitti ed orrori che affliggono l'Italia.




Il secondo binario narrativo è quello di "La Mamma di Freud", il film che Apicella cerca di dirigere, metafora del rapporto conflittuale tra il regista e la madre; nonchè parodia del cinema intellettuale nostrano, perso in elucubrazioni del tutto sganciate con il reale, lontano non solo e non tanto da quel pubblico che forse cerca forme di intrattenimento migliori (il bracciante lucano, il pastore abruzzese e la casalinga di Treviso, più volte evocati dal critico e che si manifestano alla prima del film) quanto verso una realtà di sicuro più articolata. Una parabola, quella del Freud edipico, del tutto decostruttiva, che lo vede finire a vendere ninnoli per la strada, metafora della fine dell'intellettualismo forzato.




Ultima dimensione narrativa è quella dell'inconscio, del sogno: laddove "La Mamma di Freud" è il sogno dell'Apicella autore, l'Apicella personaggio sogna una storia decisamente meno pretenziosa, più vicina ai canoni del romanzo popolare, ma non per questo meno attuale, ossia la love-story tra un giovane e burbero professore ed una bella ed emancipata studentessa. Altro "film nel film" che è viaggio nel subconscio dell'autore, che ama non corrisposto qualcosa di bello (l'arte, il cinema), la quale finisce sempre per sfuggirgli, fino ad un duplice finale: dapprima la disperazione di un regista che ha paura di non aver più nulla da dire, poi la dichiarazione d'amore, ilare nella sua demenzialità, del mostro alla bella.




Ed è proprio il tocco grottesco più marcato a rendere questa terza fatica morettiana ancora più gustosa e a caratterizzarla in modo più irriverente rispetto agli esordi. Un film forse sottovalutato, questo "Sogni d'Oro", dove l'intelligenza di Moretti si palesa in modo diretto forse anche più che in passato.

sabato 14 luglio 2018

Django

di Sergio Corbucci.

con: Franco Nero, Josè Bòdalo, Loredana Nusciak, Angel Alvarez, Eduardo Fajango, Gino Pernice, Simòn Arriaga.

Spaghetti Western

Italia, Spagna 1966















Sergio Leone ha creato lo spaghetti western con tutti i suoi crismi; eppure non è stato lui a perfezionarlo, a virarlo verso quella violenza esplicita che ne lo ha reso celebre. Merito invece di Sergio Corbucci ed il suo "Django", che stilizza ulteriormente personaggi e trovate di sceneggiatura aumentando a dismisura il tasso di sadismo. Formula che prende le mosse da Leone, dal cui stile tornano anche l'occhio per il montaggio, le zommate e la predilezione di una composizione pittorica dell'inquadratura, ma che viene esasperata sino a diventare altro, un nuovo DNA del genere che lo renderà ancora più celebre.
Il successo di "Django" fu all'epoca enorme ed il suo lascito incalcolabile; basti pensare che, oltre al celebre "Django Unchained" di Tarantino o al "Sukiyaki Western Django" di Takashi Miike, già immediatamente dopo la sua uscita nelle sale fioccarono i titoli apocrifi, che si impadronivano del celebre nome del protagonista per vendere al meglio prodotti che con lo stesso non avevano nulla a che fare; non per nulla, il quello di Franco Nero è tutt'oggi uno dei volti più celebri del western all'italiana, scalzato dal podio solo a quelli leoniani di Clint Eastwood e Lee Van Cleef.
Ma al di là dell'importanza storica e del suo lascito, quanto c'è di davvero riuscito nel film di Corbucci? Non proprio tutto.




Al di là del modo in cui Corbucci ridisegna lo spaghetti western e lo devia verso l'estremo, c'è davvero poco in "Django" che valga la pena di essere ricordato. A cominciare dalla trama, derivata in modo imbarazzante da quella di "Per un Pugno di Dollari": al confine con il Messico, il pistolero di nero vestito si trova in mezzo ad una lotta di potere tra un ex generale sudista razzista ed un rivoluzionario messicano, ovverosia due fazioni in lotta che verranno annichilite dalla sua azione, proprio come avveniva nel film di Leone.
Lo stesso Django è ricalcato sullo stereotipo del pistolero senza nome: laconico fino quasi al silenzio, veloce di mano, violento per vocazione, con uno sguardo glaciale e pronto a tutto pur di perseguire i suoi obiettivi. La differenza con il personaggio di Clint Eastwood risiede in fondo solo nella caratterizzazione estetica e nel fatto che Django ha una vendetta da compiere, nulla più.
La sceneggiatura non è neanche scevra da buchi e nonsense: dalla scelta di far tradire il colonnello Hugo solo per far procedere la storia verso il terzo atto ad un finale sin troppo veloce e ludico, passando per la scelta di caratterizzare Jackson come una sorta di generale del ku klux klan anti-messicano... che affida i propri risparmi proprio ai tanto odiati messicani.




La regia di Corbucci, neanche a dirlo, non ha la raffinatezza di quella di Leone; a momenti ispirati, con inquadrature ricercatissime, si affianca una costruzione della scena talvolta sciatta, data da un montaggio un pò casuale o da movimenti di macchina frettolosi, con campi lunghi inutili.
A rendere "Django" memorabile resta così solo l'estetica; a partire da quella del protagonista, pistolero-becchino che trascina una bara contenente una mitragliatrice e della dinamite, ammantato in un cappotto ed un cappello nero ed agghindato con pantaloni dell'esercito yankee, il suo è un look che farà scuola, tanto da essere ripreso persino da John Carpenter per il suo Snake Plissken.




Ancora più riuscito è il lavoro sugli ambienti, quanto mai sporchi e decadenti. La città senza nome in cui il pistolero compie la sua vendetta è immersa nel fango perenne, sembra una città fantasma, abitata da poche anime perdute. Un luogo dove la violenza raggiunge vette inusitate, con litri di sangue versato, orecchie mozzate e mani fracassate in segno di punizione.
Una violenza della quale la prima vittima è una donna, la bella mezzosangue innamoratasi del pistolero, che ha si un ruolo ancillare nella vicenda, ma che rappresenta uno dei pochi esempi di personaggio femminile di rilievo in un genere altrimenti totalmente maschile.





"Django" va di conseguenza apprezzato più per il suo lascito che per il suo effettivo valore; resta uno spaghetti western divertente, ma poco riuscito, interessante ma a tratti sciatto. Corbucci, dal canto suo, riuscirà a fare molto meglio con il bellissimo "Il Grande Silenzio".

venerdì 13 luglio 2018

Unsane

di Steven Soderbergh.

con: Claire Foy, Amy Irving, Joshua Leonard, Juno Temple, Sarah Stiles, Zach Cherry, Matt Damon.

Thriller

Usa 2018
















La sperimentazione sfrenata non sempre porta a buoni risultati, anche per un cineasta eclettico come Steven Soderbergh; basti ricordare, in proposito, quell'immenso strafalcione che fu l'esperimento di "Intrigo a Berlino", dove la voglia di ricreare un cinema d'altri tempi con i mezzi di una volta non era accompagnato da uno script all'altezza. Lo stesso si potrebbe dire per "Unsane", che propone soluzioni tecniche ardite a fronte di una storia piuttosto banale, non tanto nella premessa quanto nello sviluppo.
Eppure, questa volta la mano di Soderbergh è ferma e ispirata, riuscendo così a filmare un thriller canonico ma lo stesso interessante.



L'avvio della vicenda è quanto mai intrigante: la giovane Sawyer (Claire Foy) chiede un consulto ad uno psichiatra a causa di un recente episodio di stalking; il che porterà inavvertitamente ad un suo ricovero forzato in una struttura psichiatrica dove nulla è ciò che sembra.
La paura, quanto mai attuale nella società americana, di un TSO abusivo ed intrusivo si materializza in pieno, lasciando però, almeno nelle battute iniziali, lo spazio per una squisita ambiguità: non è dato sapere se ciò che accade sia reale o il frutto di una mente plagiata da manie di persecuzione. Alla comparsa repentina dello stalker possono essere attribuite ragioni del tutto paranoiche, lasciando lo spettatore letteralmente in balia degli eventi.
Il punto di riferimento è lo splendido "Il Corridoio della Paura" di Fuller, che ritorna anche nelle forme della sottotrama che vede un giornalista internarsi volontariamente per studiare i metodi di custodia dell'ospedale. Ma manca quell'attenzione per i personaggi secondari, così come uno stile visionario a dare corpo alla follia.



Soderbergh predilige infatti una messa in scena oggettiva, con solo qualche concessione espressionista nelle scene di furore della protagonista; movimenti chirurgici (tra cui l'uso di una steady "kubrickiana") ed una insistita profondità di campo danno vita allo straniamento di Sawyer in modo diretto, ma mai virato verso l'espressionismo, restando sempre ancorati ad una percezione ai limiti dell'oggettivo della realtà.
Laddove la messa in scena è attenta, altrettanto non si può dire per lo script, che abbandona quasi subito l'ambiguità di fondo per virare verso territori più convenzionali e rassicuranti, rendendo il tutto prevedibile.



Più interessante è invece il discorso che Soderbergh sembra voler fare sul mezzo filmico; o, meglio, sulla ripresa digitale; lui, uno dei pionieri dell'uso del digitale già ai tempi di "Bubble" (2002), ora osa ancora di più ed usa per l'intero film un iPhone al posto della macchina da presa; le limitazioni sono subito avvertibili: la fotografia risente di cromatismi piatti anche quando ricercati (il blu del finale), mentre per creare le immagini profonde è stato comunque necessario adoperare obiettivi professionali.



Limiti a parte, Soderbergh ripensa la messa in scena filmica in un mondo che oramai vive attraverso il cellulare: sia esso strumento di comunicazione che mezzo per incontrare nuova gente o, finanche, unico appiglio di salvezza, lo smartphone è divenuto un vero e proprio filtro che l'essere umano usa per comunicare con il reale. Ne consegue che una messa in scena obiettiva non può prescindere da questo filtro, sorta di occhio cronenberghiano che si frappone tra il reale e lo spettatore; la realtà oggettiva diviene così quella ripresa dall'occhio del cellulare, anche quando è la paranoia ad inquinare la percezione della stessa da parte di chi la vive.



Più interessante che riuscito, "Unsane" resta thriller fin troppo convenzionale, che però riesce a dare un'adeguata lettura all'epoca del digitale e della realtà aumentata, della fine del cinema come lo conosciamo come rappresentazione calzante del reale e della nascita di un nuovo mezzo espressivo, certamente meno raffinato ma perfettamente calzante ai tempi che corrono.

domenica 8 luglio 2018

R.I.P. Carlo Vanzina







1951-2018

Si può davvero ricordare con affetto un personaggio come Carlo Vanzina? Colui che è stato il volto della morte della commedia all'italiana, pur figlio d'arte di Steno, che ha intossicato il nostro cinema con le commediacce un tanto al chilo?
No, sarebbe ipocrita cercare di trovare un che di valore in una carriera che anche nei picchi di maggior qualità ("Sotto il vestito niente", "I Fichissimi", "Febbre da Cavallo- La Mandrakata", "Il Pranzo della Domenica") ha sempre lambito la mediocrità.
Senza contare l'effetto deleterio che il suo lavoro ha causato: assieme al fratello Enrico, a Neri Parenti ed Enrico Oldoini è stato lui l'artefice della distruzione di un genere blasonato e che tanto aveva dato al cinema in generale.
E, come se già questo non fosse abbastanza, bisogna ricordare anche la sua ipocrisia nel paragonarsi a Spielberg o nel rimpiangere i tempi andati in film come "Il Cielo in una Stanza", dove rimpiangeva la spensieratezza degli anni '60 contro il cinismo degli anni '90, e "Torno indietro e cambio vita", dove invece rimpiangeva la bellezza degli anni '90 contrapposta al cinismo del 2015.
Bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare e non aver paura nel dire, anche di fronte alla sua scomparsa, che Vanzina è stato una sciagura per il nostro cinema, dal quale, oramai, è impossibile che si riprenda.

sabato 7 luglio 2018

Revenge

di Coralie Fargeat.

con: Matilda Lutz, Kevin Janssenss, Vincent Colombe, Guillaume Bouchède.

Francia 2017



















A margine della presentazione al Festival di Torino di "Revenge", l'esordiente Coralie Fargeat ha dichiarato: "[...] Si trattava davvero di simbolizzare la mutazione di un certo modo di rappresentare la donna al cinema, troppo sovente vista come semplice comprimario o come oggetto sessuale da svestire o sminuire. Inizialmente il film gioca con questo tipo di rappresentazione, spingendola però all'estremo fino a sfociare nella sua controparte brutale. A quel punto la protagonista diventa la vera figura forte del film, una supereroina donna e il motore dell’azione".
Che cos'è dunque questo suo esordio se non il più classico dei rape & revenge, con una donna bella che a causa della violenza subita si trasforma in una macchina di morte?
Esempi del genere, sarebbe anche inutile dirlo, c'è ne sono a bizzeffe: la Thana di "Ms. 45", la Madeline di "Thriller" o la Jennifer di "I Spit on your Grave", solo per citarne alcuni. Come rendere dunque interessante un film derivativo nei contenuti?
"Revenge" prova a buttarla sullo stile, psichedelico e sfrontato, riuscendo però solo in parte a spuntarla.



La stilizzazione massima è l'imperativo sin dalla prima inquadratura, un campo lunghissimo dai colori sgargianti che sfocia in un riflesso su di un paio di occhiali da sole ed una musica synth, come se si fosse in un film di Nicolas Winding Refn o Harmony Korine.
La protagonista Jen, interpretata dalla bellissima Matilda Lutz, appare in scena come una la caricatura di una Barbie, una bionda dagli abiti striminziti e lecca lecca in bocca, puro oggetto sessuale; i maschi, d'altro canto, sono ancora più bidimensionali: cacciatori arrapati e privi di empatia alcuna.
Stilizzazione che arriva all'apice con la violenza: al bando ogni forma di verosomiglianza, i personaggi eruttano ettolitri di sangue, cauterizzano ferite da perforazione con lattine di birra, infilano le proprie dita negli arti per strappare schegge di vetro e a tratti non sembrano sentire dolore.



Stilizzazione che si fa così provocazione, con una violenza talmente elevata da sfociare quasi subito nel parossistico: ogni personaggio fa letteralmente il bagno nella propria emoglobina in una versione laccata del teatro del Grand Guignol.
Ma la vendetta come presa di coscienza di sè e come atto di ribellione contro l'animalesca figura maschile è uno dei temi più vecchi che il cinema ricordi. Impossibile dunque non annoiarsi: una volta capito il gioco al rialzo, non ci si riesce più a divertire nel vedere la strage Jen, lineare come da copione, trionfante come da tradizione. La Fargeat non ricerca originalità alcuna che non sia nella messa in scena, finendo così per cascare nella trappola dell'ovvio.
Mancano sia il nichilismo di Ferrara che la complessità caratteriale di "Thriller", senza contare i simbolismi freudiani di "I Spit on your Grave"; non c'è nessuna voglia di dire qualcosa di interessante, solo di mostrare un mondo di cattiveria gratuita e per questo compiaciuta della propria pochezza; la provocazione svanisce presto nel gioco e la stessa cattiveria finisce per essere annacquata dallo stile iperbolico.



"Revenge" si configura così come un film-monito; non tanto contro l'uomo che si diverte a sottomettere la donna, quanto per il filmmaker alle prime armi che decide di affidarsi al genere puro per esordire: mai lasciare che sia il solo stile a parlare, sopratutto quando non si ha voglia di rinfrescare un intreccio visto fin troppe volte; pena la noia più totale.

martedì 3 luglio 2018

Non Essere Cattivo

di Claudio Caligari.

con: Luca Marinelli, Alessandro Borghi, Silvia D'Amico, Roberta Mattei, Alessandro Bernardini, Valentino Campitelli.

Italia 2015


















Il caso produttivo che purtroppo ha afflitto la lavorazione di "Non Essere Cattivo" può essere visto come un perfetto esempio di quanto ci sia di sbagliato nell'industria del cinema italiano. Un caos che parte da un episodio che definire doloroso sarebbe eufemistico: la morte di Claudio Caligari a riprese ancora non ultimate; lui, il grande escluso del cinema italiano, che con appena due lungometraggi di fiction è riuscito ad imporsi tra i filmmaker più interessanti degli ultimi 30 anni, se ne è andato fin troppo presto, come la riuscita del film dimostra.
Morte che getta la produzione in un limbo: la cabina di regia viene occupata dall'amico Valerio Mastandrea, ma il budget necessario ad ultimare riprese e post-produzione è introvabile; il che, per una produzione di appena 1 milione e 300 mila euro, è a dir poco vergognoso.
Per uscire dal pantano produttivo, Mastandrea lancia addirittura un appello a Martin Scorsese per ricevere aiuto; ma lo fa non tramite i canali tradizionali, bensì con una lettera aperta, come se il regista italoamericano fosse un mammasantissima nostrano qualsiasi. Ovvio che ad un'azione del genere non sia corrisposta alcuna reazione diversa dal silenzio.
E' stato così necessario creare una vera e propria cordata di produttori per finire il film: nessuno ha voluto farsi carico, da solo, dei pochi finanziamenti necessari, neanche si trattasse di un film maledetto o appestato da qualche rara malattia tropicale; senza pensare a come un investimento accompagnato da una buona campagna promozionale ben avrebbe potuto generare profitto. Ma si sa che l'Italia è qual paese dove "con l'arte non si mangia".
Polemiche a parte, l'opera postuma di Caligari svetta in un panorama filmico e televisivo che da qualche anno ha riscoperto il genere (grazie alle produzioni Sky), imponendosi come un perfetto spaccato sulla disperazione della periferia romana, terzo capitolo di un'ideale trilogia iniziata con "Amore Tossico" e proseguita con "L'Odore della Notte".



Il luogo è sempre quello, Ostia, questa volta nel 1995; un luogo che sembra fuori dal tempo, tanto che i due protagonisti, Cesare (Marinelli) e Vittorio (Borghi) entrano in scena come quelli di "Amore Tossico"; ma questa volta la storia è uguale e diversa: le due anime perse sono quelle di due piccoli spacciatori, pusherini da strapazzo che passano le giornate muovendosi per la periferia in cerca di un brivido, sia quello delle pasticche che quello di qualche rapina alla buona.
Finchè qualcosa cambia; Vittorio ha una catarsi durante un trip, realizza il vuoto che lo affligge e decide di cambiare vita, di lavorare onestamente, mettere su famiglia e allontanarsi dalla piccola criminalità.



Il ritratto è quello del vuoto pneumatico, di una vita votata al nulla. Ed il mondo in cui Vittorio e Cesare si muovono è in tal senso esemplare: una periferia da sempre afflitta dallo squallore, frequentata da personaggi inutili, donne sboccate in cerca solo di una botta di vita, piccoli gangster che si affaccendano tra piccoli furti e piccolo spaccio; persino il lavoro, la via d'uscita da quel mondo, è quello dei cantieri perenni, della speculazione dove tutti sono pagati a nero, con l'illegalità che diviene perfetto paradigma dello squallore morale e materiale che affligge Ostia e l'Italia intera.



Il riscatto, la risalita sociale e morale, è ardua: non sappiamo se alla fine Vittorio è davvero riuscito a cambiare vita; la sola speranza è per il futuro, per quei figli che, orfani o meno, meritano una vita migliore di quella fatta di stenti e violenza spicciola e dalla quale non è detto che riescano ad affrancarsi.
Vita che Cesare, a differenza dell'amico, abbraccia con tutto sè stesso: non c'è voglia di riscatto per lui, nè alternativa alla microciminalità. Pur toccato dalla tragedia, la perdita della sorella per prima, della nipote dopo, a causa del HIV, Cesare preferisce rispondere alla vita con la cattiveria da quattro soldi che la vita della borgata gli ha insegnato. Quel "non essere cattivo" resta un monito inascoltato, sino alle conseguenze estreme, con la tragedia che si ripete, inutile ma inevitabile.
La sua è un'indole autodistruttiva, che si compiace degli stenti in cui sguazza; un "matto", un uomo che foraggia avidamente i propri difetti per vivere alla giornata, persino nei rapporti con la propria amata. Una tragedia, la sua, che si consuma ben prima del finale, sin dalle prime battute, concretizzandosi nella ripetizione perenne ed ostinata di gesti autodistruttivi (la droga) o lesivi (le truffe, le rapine), generando una sarabanda di violenza spicciola che finisce per affogarlo.



E se il racconto è quello di uno spaccato di vita, Caligari usa un registro più vicino al noir che al dramma; non c'è stilizzazione, tuttavia, ma solo crudezza, una vicinanza al reale più simile a quella di "Amore Tossico" piuttosto che a "L'Odore della Notte". I movimenti di macchina fluidi e la bella fotografia restituiscono al narrato un respiro che da sempre manca al nostro cinema; mentre il ritmo, pur dilatato verso la fine, è sempre calzante.
La realtà, filtrata attraverso il registro di genere, diviene così iperbolica, eppure incredibilmente vera, in un'armonia di dissonanze che crea uno stile unico, personale, degno di un vero autore.