sabato 6 ottobre 2018

BlacKkKlansman

di Spike Lee.

con: John David Washington, Adam Driver, Laura Harrier, Alec Baldwin, Jasper Paakkonnen, Ryan Eggold, Topher Grace, Robert John Burke, Micahel Buscemi, Ashlie Atkinson, Isaiah Whitilock Jr., Harry Belafonte, Nicholas Turturro, Corey Hawkins.

Drammatico

Usa 2018















Definire "discontinuo" un autore come Spike Lee sarebbe ingiusto nei riguardi di una filmografia che, tra alti e bassi, presenta opere sempre e comunque interessanti, anche quando del tutto non riuscite. Basti pensare ai suoi ultimi exploit, lontani anni luce dai fasti di opere quali "La 25ma Ora" o "Fà la cosa giusta"; "Oldboy" era un remake dal fiato cortissimo di un piccolo capolavoro amato ad ogni latitudine, ma che perlomeno era rispettoso del materiale di partenza, il quale non veniva nè snaturato, tantomeno edulcorato; "Da Sweet Blood of Jesus" era un altro remake, diel piccolo cult della blaxploitation "Ganja & Hess", nel quale Lee adoperava in modo a dir poco maldestro il registro orrorifico, ma che aveva il pregio di portare all'attenzione del pubblico moderno un piccolo gioiello ingiustamente sottovalutato.
Grande era l'attesa, dunque,  per "BlacKkKlasnman", opera più vicina al cinema degli esordi di Lee, che portava in scena una storia talmente improbabile da poter solo essere vera, quella di un poliziotto di colore che si infiltra ne Ku Klux Klan e ne scala la gerarchia. E che si rivela come un ritorno in piena forma per Lee.



Impossibile non giocare sull'assurdità di un assunto del genere; e Lee si diverte ad usare un registro talvolta altamente sarcastico, ad immergere il suo Ron Stallworth in situazioni ai limiti della commedia demenziale, lasciando tuttavia sempre un asciuttezza di fondo che ci ricorda di come queste situazioni, per quanto paradossali, sono lo stesso vere.
Stallworth è un personaggio stretto tra due poli, quello bianco e quello nero; da una parte il KKK, gli zotici di provincia, ritratti come veri e propri "ritardati" che si esprimono solo a parolacce e frasi razziste; dall'altro le Pantere Nere, la loro ossessione per l'affermazione di una dignità del popolo nero che non conosce confini e con le quali in parte simpatizza. Al contempo, Satllworth di trasforma, si tramuta da nero calmo e cosciente della situazione razziale al suo opposto, quel bianco ottuso che per forza di cose deve essere incarnato dal vivo da Flip Zinnerman che ne diviene un'emanazione (d'obbligo la visione in lingua originale, dove la diversa parlata dei neri è tratto essenziale della caratterizzazione dei due personaggi).



Stallworth è al altresì un avatar di Spike Lee, che tramite la sua storia ed il contesto storico in cui avviene (l'America dei primi anni '70) parte da una critica feroce del Ku Klux Klan per compiere un discorso completo sull'assurdità ed universalità della forza distruttrice dell'odio.
Ad aprire il film è infatti la scena della propaganda, con Alec Baldwin a dare corpo e voce alla dottrina dell'odio divulgata in modo scolastico, antesignana dei discorsi che verranno intavolati dal gran maestro David Duke nel corso del secondo e terzo atto. Ed in modo analogo, Lee da voce all'odio cinto dall'altra parte della barricata, quello delle Pantere Nere che nel reclamizzare la dignità del nero propagandano parimenti lo scontro armato con i bianchi. E' nelle affinità elettive tra i due opposti che sta in punto di vista di Lee, quello di un nero che sta certamente dalla parte dei neri, ma che condanna non tanto la xenofobia in sè, quanto l'odio inteso come sentimento universale vero portatore di drammi.
Un odio che per il Klan ha le forme cinematografiche di "Nascita di una Nazione", il cui contenuto razzista ispiratore viene flagellato pubblicamente. E che per i neri ha la forma del vittimismo incontrollato, quello della storia del linciaggio da parte di Harry Belafonte, il divo del cinema "nero" degli anni '50 e '60 che esorta le folle nere all'odio al pari di Duke; da cui l'indifferenza verso quegli slogan "White Power/Black Power" fin troppo simili tra loro.



Un odio che nasce sicuramente prima del 1917 e del successo del film di Griffith, ma che di sicuro non ha smesso di fare presa sulla gente; sono le ultime immagini, quelle vere, le più scioccanti, con le manifestazioni dei suprematisti bianchi contrapposte a quelle dei neri ed il ricordo delle vittime dell'odio (anche bianche) che gettano un ponte ideale con il passato. Un passato che ha la voce del presente, con gli slogan "America first", "Make America great again" e "America love it or leave it" che ci ricordano di come l'era di Trump sia figlia del bigottismo, di come al di là della barricata di politically correct eretta ipocritamente da Hollywood, la ghettizzazione autoproclamata sia ancora una piaga sociale (come sottolineava Jordan Peele in "Get Out", che qui troviamo nelle vesti di produttore).



Lee, in sostanza, torna a condannare l'odio così come faceva con "Malcolm X" e "Fà la cosa giusta", senza distinzioni di razza o sesso (anche le donne hanno un ruolo centrale nelle due organizzazioni), riproponendo quell'obiettività e profondità di sguardo che ne ha fatto grande il cinema e che ancora oggi risulta attuale. Al punto che, nell'Italia che idolatra Salvini e la xenofobia leghista, un film come "BlacKkKlansman" andrebbe proiettato nelle scuole.

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