giovedì 29 novembre 2018

The Place

di Paolo Genovese.

con: Valerio Mastandrea, Marco Giallini, Alessandro Borghi, Vittoria Puccini, Silvia D'Amico, Silvio Muccino, Alba Rohrwacher, Sabrina Ferilli, Rocco Papaleo, Vinicio Marchioni, Giulia Lazzarini, Andrea Iaia.

Italia 2017
















Fresco del successo di "Perfetti Sconosciuti", il film rivelazione dell'anno di grazia 2016, terzo maggiore incasso della stagione e stragista di premi e riconoscimenti vari, Paolo Genovese tenta il colpaccio, ossia decide di alzare la posta in gioco, rifare, in senso lato, il suo film più amato aumentandone esponenzialmente gli elementi caratterizzanti; l'unità di luogo diviene così totalizzante: il tavolino di un bar, il the place del titolo, con un unico personaggio al centro di tutto, un faust che ha il volto di Valerio Mastandrea e che di volta in volta ha un colloquio con svariati esempi di umanità/italianità-tipo, con una costruzione scenica ieratica, fissa nel campo/controcampo dei due, massimo tre soggetti coinvolti di volta in volta.
Un'operazione rischiosissima, che avrebbe potuto naufragare facilmente persino nelle mani di un cineasta esperto; e con Genovese al timone di tutto, la tempesta è impossibile da schivare: "The Place" vuole essere un dramma cinico, esistenzialista e morboso, ma riesce unicamente a configurarsi come un esercizio di stile insipido e incolore, privo di nerbo e, al solito, costituito da una drammaticità che si ferma prepotentemente sulla superficie dei personaggi e delle loro storie.



Il setting principale viene ripreso da una piccola serie televisiva americana "The Booth at the End"; da qui viene l'idea di uno sconosciuto che affida compiti particolari a soggetti in cerca di una personale felicità, chiamati a sporcarsi le mani con azioni spesso immorali; il fulcro della riflessione è presto servito: per raggiungere la felicità, le persone sono in grado di fare qualsiasi cosa.
L'Uomo è così una via di mezzo tra un demone tentatore ed un angelo redentore: c'è chi lo asseconda commettendo indicibili peccati, chi invece grazie a lui realizza di essere migliore di quanto crede; in un modo o nell'altro, tutti vengono toccati dalle sue parole e dai "compiti" affidati. E qui stanno i primi due problemi del film di Genovese.



Se la sua intenzione era quella di creare un dramma a tinte forti su di un'umanità che nasconde una ferocia bestiale sotto una coltre perbenista, uno spaccato impietoso di un gruppo di personaggi persi nelle proprie ossessioni, ha fallito miseramente; non solo molti di questi personaggi alla fin fine fanno sempre la scelta più umana, ma finiscono talvolta persino per divincolarsi facilmente dal giogo che questo strano personaggio sembra cingere loro. Non c'è, in buona sostanza, vero dramma, non c'è vera cattiveria nei personaggi e nelle loro azioni e quando la redenzione arriva è scontata, a volte telefonata, facilmente intuibile da una scrittura scialba, che non fa nulla per nascondere la propria pochezza.



Una pochezza che viene perorata ulteriormente dalla scelta stilistica di chiudere tutta la storia all'interno del bar: manca la drammaticità dell'esecuzione, manca la vera catarsi, manca la tensione  drammaturgica; la narrazione si fa così subito spenta, blanda, genuinamente noiosa; e non aiuta la superficialità con cui spesso vengono caratterizzati questi personaggi, i quali sembrano di conseguenza muoversi su binari tracciati per portarli automaticamente da un punto A ad un punto B anche quando compiono un vero e proprio arco caratteriale, cosa inedita per i protagonisti di un dramma nel "cinema" italiano.



Su tutto però svetta la scelta infelice di affidare un personaggio complesso come quello del protagonista ad un attore come Valerio Mastandrea, il cui volto perennemente accigliato schiaccia tutte le sue possibili sfumature; di tutte queste, Mastandrea non riesce mai a comunicare il senso di minaccia, sottile ma costante, che questo strano Mefistofele dovrebbe emanare, chiuso com'è nella sua classica espressione stanca, che toglie ulteriormente forza alla narrazione.




In 101 minuti si assiste così all'inesorabile crollo dell'intero schema narrativo, fatto a pezzi in primis da una scrittura maldestra, in secondo luogo da perfomance non sempre ispirate; tolto Mastandrea, il cui miscasting è ovvio sin dai primi fotogrammi, il resto del cast si divide tra prove riuscite ed altre più incolori. Senza voler citare tutti, Marco Giallini, chiamato a recitare questa volta in un ruolo più nelle sue corde rispetto alla precedente collaborazione con Genovese, non buca lo schermo quanto dovrebbe; Alba Rohrwacher, nei panni di una suora afflitta da una crisi di fede, sfoggia un sorrisetto un po' sornione che non si capisce da dove esca; Vinicio Marchioni e Rocco Papaleo, a cui sono affidati i due personaggi più complessi, eseguono il loro lavoro senza sbavature, ma viene da chiedersi cosa sarebbero stati in grado di fare se la costruzione drammaturgica non li avesse limitati a stare sempre seduti ad un tavolo; piccola rivelazione è invece la prova di Silvio Muccino, che riesce miracolosamente ad essere sempre credibile.



Vien da chiedersi, alla fine della visione, che cosa sia davvero questo "The Place", se un semplice esercizio di stile travestito da dramma piuttosto che un divertissement per un pubblico finto-impegnato. Una cosa è certa: se questo è il cinema che piace fare ai cineasti italiani, se davvero costoro credono di poter propinare all'infinito versioni scolorite e scipite di opere estere ("The Booth at the End" come "Cena tra Amici" per "Perfetti Sconosciuti"), allora forse è arrivato il tempo per il pubblico di smetterla di sostenere il nostro cinema, di recuperare gli imprint originali che Genovese e company saccheggiano piuttosto che buttare soldi e tempo per delle loro versioni imbastardite e, in fin dei conti, utili solo a reinvestire i proventi del finanziamento pubblico.
Visto che gli autori non hanno rispetto per il pubblico, tanto vale che il pubblico non rispetti gli autori. E se questo cinema fatto di personaggi dove i personaggi non ci sono, fatto di drammi dove il dramma è assente, fatto di visioni sull'Italia e sulle persone dove la visione è sbilenca e compiaciuta è davvero il cinema italiano, allora tanto vale smettere di fare cinema in Italia. Anche se, per fortuna,  per ogni Paolo Genovese c'è almeno un Garrone che ha capito cosa il cinema ed il dramma siano davvero. E per questo, quasi spiace avere una presa di posizione tanto radicale, eppure incredibilmente necessaria.

lunedì 26 novembre 2018

Cane di Paglia

Straw Dogs

di Sam Peckinpah.

con: Dustin Hoffman, Susan George, Peter Vaughan, T.P. McKenna, Del Henney, Jim Norton, Donald Webster, Ken Hutchinson.

Usa 1971
















La violenza come comune denominatore a tutti gli esseri umani; se c'è una "morale" in "Cane di Paglia" sembra essere proprio questa presa di posizione, netta e cinica; un'affermazione secca dello "stato di natura" come componente inscindibile dall'essere umano. E Peckinpah, di certo, sapeva cosa voleva dire, proprio lui più volte accusato di amare la violenza, di esserne un cantore orgoglioso e compiaciuto; nulla di più falso: in "Cane di Paglia", così come nel successivo "Voglio la Testa di Garcia!", Peckinpah elabora un apologo a-morale di stampo smaccatamente pessimista, che ritrae, certo, la materia senza filtri, in modo scomodamente esplicito, ma senza mai cadere nella trappola del compiacimento che tanto cinema exploitation, cui viene solitamente accostato, invece prende in pieno.



Un apologo che parte dalla contrapposizione di due stili di vita, quello moderno e quello più gretto ed arretrato; laddove il west per Peckinpah è un luogo arcaico dove però vige un codice d'onore che rende civile chi lo abita, la remota compagna inglese è invece una bolla fuori dal tempo e dallo spazio, abitata da personaggi preistorici, uomini persi nei propri vizi e nella propria pochezza.
In un contesto di celebrata bassezza, viene introdotto un elemento alieno, il matematico David Summer, incarnato dal volto comune e dal fisico emaciato di un Dustin Hoffman semplicemente perfetto. Summer è in tutto e per tutto l'antitesi dei locali: basso, occhialuto, timido, visibilmente a disagio in un posto che non conosce. Sua controparte è lo schietto Charlie Venner (Del Henney), ex spasimante di sua moglie Amy (Susan George): un omaccione dai lineamenti duri e dal fisico imponente.



Una contrapposizione tra civile e primordiale che prende le forme dell'insulto sottile, dell'invidia per la "res" detenuta da Summer, ossia la sua bellissima moglie, oggetto del desiderio di tutti gli altri maschi del luogo. Da qui, appunto, una divisione tra il "noi" della comunità rurale ed il "loro", gli esterni, ma anche coloro che non possono omologarsi, come John Niles, il matto del villaggio oggetto perenne dell'odio del resto della comunità.
Una contrapposizione che prende le forme dapprima della sottomissione muta: tramite piccoli gesti e parole, i locali si pongono in una posizione di superiorità rispetto a Summer. Contrapposizione che si fa conflitto quando il mite padrone di casa viene letteralmente espropriato di ciò che è suo, ossia la sua donna.



La violenza, sebbene faccia come prima vittima in assoluto il gatto della coppia, si consuma davvero solo quando è Amy ad esserne oggetto, in una sequenza che all'epoca destò scandalo per l'audacia nella messa in scena, ma in cui Peckinpah è in realtà alquanto parco con il mostrato. Il rapporto tra la donna-oggetto ed i suoi carnefici viene descritto in modo complesso e spiazzante. Dapprima, Amy è lusingata dalle attenzioni del suo ex, anche perché visibilmente infastidita dal comportamento sin troppo mite del marito; ma Charlie, quando ne ha l'occasione, riesce a concupirla solo mediante lo stupro, sottomettendola, appunto, con la forza, strappandole letteralmente i vestiti di dosso; pur tuttavia, quella che inizialmente si consuma come violenza, diviene ben presto rapporto volontario, abbandono ai sensi di una donna che trova nel contatto fisico una nuova ragione di vita.
Ma, in un contesto brutale come quello descritto dal film, l'abbandono dei sensi non può che portare, di nuovo, ad una forma di violenza: l'atto d'amore si fa nuovamente stupro, appropriazione forzata di un oggetto del desiderio in una società che non conosce il rispetto dell'altro, neanche quando questi è un membro effettivo della società stessa.



La donna, di conseguenza, benché tentatrice irredenta, personaggio quasi negativo nell'economia generale del racconto (durante l'assedio cercherà più volte di convincere il marito a cedere pur di salvarsi), resta la prima vittima della violenza, intesa come esplicitazione della grettitudine dell'uomo.
La quale prenderà forma completa nel terzo atto, la lunghissima e complessa sequenza dell'assedio.



In una logica da western, Peckinpah trincera i personaggi all'interno di un ideale fortino assediato dai locali; la goccia che fa traboccare il vaso è quasi pretestuosa: il linciaggio dell'altro "alieno" della comunità, quel Niles che, sebbene macchiatosi dell'omicidio della disinibita figlia del maschio alfa, non ha davvero colpe. La difesa dell'innocente prende il posto della difesa della res: benchè David affermi di voler difendere ciò che è suo, sta di fatto difendendo un altro sé stesso, un'altra vittima della cattiveria della società.
La violenza prende le forme più disparate: corpi che letteralmente volano a causa delle fucilate, fatti a pezzi da tagliole o percossi a morte, in un vortice di isteria dove il ruolo di vittima designato di David viene fagocitato dal suo status primordiale di maschio alfa; la metamorfosi è completa, la maschera della civiltà cade: David è feroce quanto gli assalitori e, al suo pari, anche il mondo in cui si muove si rivela per quello che è, ossia una landa primordiale dove può vincere solo il più forte.



E con la perdita della distinzione tra vittima e carnefici, viene meno anche la distinzione tra buoni e cattivi. In questo west europeo non ci sono eroi: di certo, David non è tale, non è davvero mosso da un alto senso di giustizia in senso stretto, se non dalla volontà di rivalsa verso gli assalitori. Non c'è legge che tenga: il giudice è il primo a cadere sotto il fuoco dei "selvaggi"; non c'è giusta vendetta: Amy non si vendicherà dei suoi assalitori, limitandosi ad uccidere l'ultimo sciacallo solo per salvare la vita al marito.
Ciò che resta è solo il primordiale fuoco distruttivo, la volontà, ai limiti della follia, di difendere l'amor proprio, un personalissimo e primitivo senso del giusto non codificato in alcun modo, che è in realtà pura e semplice riaffermazione del diritto del più forte.
Un fuoco che porta ad una realizzazione devastante, quella della propria natura animalesca, oltre che di quella del prossimo; da qui l'impossibilità di una ricomposizione della "quiete" originale, cui segue una corse verso il nulla: "Non conosco la via giusta" esclama Niles, "Non fa nulla... neanch'io" gli risponde Summer, ossia per entrambi non può esserci posto in quella società che li ha dapprima emarginati e poi plasmati in bestie.



Come accadeva per i massacri de "Il Mucchio Selvaggio", anche la lotta disperata del "cane mangia cane", per Peckinpah, ha la forma dell'assenza di forma; il linguaggio filmico viene nuovamente sconquassato, fatto a pezzi in una miriade di inquadrature sghembe e oblique che poi vengono riassemblate dal montaggio; così come la violenza fa deflagrare ogni certezza sui ruoli dei personaggi, allo stesso modo distrugge la narrazione canonica per divenire puro caos.
Un caos nel quale il grande autore americano si aggira con una lucidità sconvolgente: la sua è una presa di posizione netta e priva di rimpianti, in un discorso dalla modernità ancora oggi agghiacciante.

R.I.P. Bernardo Bertolucci




Forse lui l'ultimo imperatore lo era davvero, l'ultimo esponente di un modo di fare cinema, qui in Italia, squisitamente autoriale, dove "d'autore" voleva dire "arte", lontana da ogni pretenziosità, sempre vicina alla sperimentazione e, prima ancora, alle urgenze del reale, magnificamente filtrate da un occhio attentissimo all'estetica.
Inutile dire che con Bertolucci se ne va un pezzo di cinema, si estingue definitivamente la stagione del grande cinema italiano.



La Comare Secca (1962)

Esordio da regista, tra Pasolini (che scrive) ed i postumi del noerealismo, con un occhio al poliziesco, in un dramma a tinte foschissime, che merita di essere riscoperto.



Il Conformista (1970)

Portando su schermo le pagine del romanzo omonimo di Moravia, Bertolucci crea un affresco ai limiti dell'apocalittico: è stato facile per gli Italiani divenire fascisti, preoccupati com'erano unicamente dal loro desiderio di benessere. Ad oggi, il suo capolavoro più grande.



Ultimo Tango a Parigi (1972)

Famoso per mari e per monti come "il film dello scandalo", la cui notorietà ne ha eclissato la bellezza. Complice un Marlon Brando semplicemente superbo, Bertolucci crea un melodramma sull'amore a tratti genuinamente commovente e conturbante, intimista ed audace come pochi.



Novecento (1976)

I primi 50 anni del XX secolo in 5 ore e 20 minuti circa; solo che della Belle Epoque e della Grande Guerra non c'è traccia alcuna. Militante nel PCI della prima ora, Bertolucci crea un affresco orgogliosamente fazioso, che si fa pura propaganda nel finale. Un'opera che in pochi hanno il coraggio di stroncare o, semplicemente, di descrivere per ciò che è, ma che ha dalla sua un coraggio non comune neanche per il cinema europeo di quegli anni.



La Luna (1979)

Altro dramma intimista, altro scandalo, questa volta ingenerato dalla descrizione esplicita di un amore incestuoso tra madre e figlio. Più freddo rispetto a "Ultimo Tango", resta lo stesso un'opera coraggiosa e spiazzante.



La Tragedia di un uomo ridicolo (1981)

All'inizio del decennio delle "chiavi in mano", Bertolucci disseziona la figura di un grosso imprenditore nostrano, imbelle e sciocco nella sua pochezza, senza però prendere le parti di nessuno, passando al tritacarne sia le vittime che i carnefici con un'onestà intellettuale da fare invidia.



L'Ultimo Imperatore (1987)

Cronaca della vita dell'ultimo imperatore della Cina prima della rivolta maoista; un uomo cresciuto nel lusso e per questo avulso da tutto, primo fra tutti da sé stesso. Tra dramma da camera e affresco storico attento ai dettagli e alla messa in scena, Bertolucci crea la sua opera più premiata ed apprezzata dal pubblico internazionale.

domenica 25 novembre 2018

R.I.P. Nicolas Roeg



Nell'eterno dibattito su cosa significhi davvero essere un autore, Roeg avrebbe davvero potuto dire la sua. Dotato di un talento naturale per l'estetica, ha attraversato quattro decenni come filmmaker, cinque se si conta la sua attività come operatore di macchina in pellicole del calibro de "Il Dottor Zivago" e "Casino Royale", dirigendo film spesso spiazzanti, curiosi, non sempre riusciti ma sempre, genuinamente belli.



A Venezia... un dicembre rosso shocking! (1973)

Stralunato (e al solito fuori luogo) titolo italiano per un thriller dalla sottile atmosfera sovrannaturale. A Venezia, Donald Sutherland e Julie Christie inseguono quello che sembra il fantasma della figlioletta da poco deceduta. Celeberrimo il prologo, tutto basato su di un montaggio analogico delle immagini.



L'Uomo che cadde sulla Terra (1976)

Non il primo film di David Bowie, ma quello che lo ha reso celebre anche sul grande schermo. Roeg abbandona ogni volontà narrativa canonica per raccontare la strana storia dell'alieno Thomas Jerome Newton tramite immagini evocative, in un racconto sicuramente sconnesso e altalenante, ma altrettanto evocativo.




La Signora in Bianco (1985)

Albert Einstein, Marilyn Monroe, Joe DiMaggio e il senatore McCarthy si ritrovano, per caso o per magia, nella stessa stanza d'albergo e tra i primi due scoppia un'inedita ed impensabile complicità, in una storia solo apparentemente pretenziosa.



Mille Pezzi di un Delirio (1988)

La solo apparentemente tranquilla vita di coppia di due coniugi americani viene sconvolta dall'arrivo di un giovane londinese che ne sovvertirà le certezze; tra ricoperta di umori sopiti e catarsi materne surrogate, uno strano dramma familiare interpretato da un cast in stato di grazia.



Chi ha paura delle Streghe? (1990)

Da un classico per l'infanzia di Roald Dahl, un classico del horror per ragazzi, con streghe dall'aspetto luciferino e bambini trasformati in topolini.



Cuore di Tenebra (1993)

Dopo "Apocalypse Now", Roeg riporta su schermo il capolavoro di Joseph Conrad, lasciandone intatta storia e ambientazione africana; un viaggio lungo il fiume che ha la cadenza della follia e della paranoia, con due attori, Tim Roth e John Malkovich, semplicemente strepitosi.

venerdì 23 novembre 2018

Aprile

di Nanni Moretti.

con: Nanni Moretti, Silvio Orlando, Renato De Maria, Daniele Luchetti, Silvia Nono, Pietro Moretti, Silvia Bonucci.

Italia 1998



















"La sera 28 Marzo del 1994, quando vinse la destra, per la prima volta in vita mia mi feci una canna". Forse il senso ultimo di "Aprile" è tutto in questa frase di (quasi) apertura e nel relativo contesto; è la sera della vittoria, trionfale e schiacciante, del Cav alle elezioni del '94, il paese si avvia a vivere lo sfacelo della Seconda Repubblica; Moretti, preso atto dell'ennesima debacle della tanto amata/odiata sinistra, decide di distrarsi, di stordirsi, di allontanarsi dalla realtà per cercare conforto in una dimensione interiore, che si fa subito privata.
"Aprile" è sicuramente un film politico, in tutti i sensi, ma è al contempo e sopratutto un film privato, non solo perché porta in scena una porzione della vita privata del suo autore, quanto se non più il precedente "Caro Diario" (sua ideale "prima parte"), ma sopratutto perché mai come ora è Moretti ad essere il centro di tutto, il suo pensiero, la sua megalomania, il narcisismo spinto e, su tutto, la sua intima ed irrefrenabile voglia di fregarsene di tutto e di tutti.



Perché di menefreghismo pur sempre si tratta. Mentre il governo di destra crolla, la "cosa" è sempre più arroccata in posizioni fallimentari e l'Italia intera è in preda ad una trasformazione che la sfigurerà permanentemente, Moretti si astrae, per quattro anni si ritira a vita privata, cercando ossessivamente di creare un qualcosa che non ha forma, in una crisi creativa che ha quasi le forme di quella di "8 e 1/2" e che si sostanzia in un documentario mai portato a termine sulla situazione politica.
Crisi dettata dal rifiuto di voler accettare la realtà che lo circonda, quei cambiamenti roboanti che hanno le forme della campagna elettorale-farsa della Lega, con la dichiarazione d'indipendenza della "padania" filmata con un distacco quasi ironico. A Moretti, la crisi del sistema-paese non interessa più di tanto: al bando quindi i ritagli di giornale così avidamente conservati, al diavolo le dichiarazioni di Berlusconi ed i silenzi imbarazzanti di D'Alema e finanche a quel paese il cinema americano brutto e vuoto (che poi si tratti di film come "Heat" e "Strange Days" poco importa) c'è spazio solo per una parantesi umanitaria per quei migranti che già all'epoca solcavano i mari della speranza; ecco dunque che il buon Nanni si ritira in una dimensione piccola, per affrontare un tema universale, quello della paternità.



Ed è nell'approccio allo status di padre che Moretti ritrova l'unica forma narrativa ancora per lui possibile, quella del reale, dell'esperienza vissuta in privato e rivissuta per la macchina da presa, unica esperienza che vale la pena raccontare, almeno dal suo punto di vista; ed è qui che "Aprile" mostra la sua vera forza, quella di un ritratto gioviale di un momento di passaggio essenziale nella vita di un uomo, con le nevrosi più comuni che rivivono negli "sketch" più riusciti.
La paternità diviene quindi unico punto di interesse in una vita afflitta dal senso di responsabilità; la responsabilità di un autore assillato costantemente dal suo pubblico, amicale ed intellettuale che sia, per la produzione di un nuovo film, che magari testimoni le contraddizioni italiane oramai deflagranti. Ai quali, Moretti risponde come Aldo Palazzeschi con un compiaciuto "E lasciatemi divertire!", preferendo il caffellatte alla politica.



Un atteggiamento, il suo, fieramente qualunquista, un menefreghismo ad oltranza divertito e divertente, riuscito per un solo, unico e tragicomico motivo: è figlio della delusione più pura. D'altro canto, non è stato proprio Moretti, negli anni '80, il cantore più disperato della fine dei valori della sinistra? E non sono forse davvero sue quelle lettere mai spedite nelle quali rimproverava la miopia di una classe politica più interessata ai proclami che alla sostanza?
Moretti, in fondo, può qui ancora permettersi di essere un cantore degli umori del populino; e a sua discolpa va almeno detto che questa volta usa toni più leggeri rispetto a "Caro Diario". La sua sfrenata voglia di nulla, l'irrefrenabile "ballo" del pasticcere trozkista, in fondo, ha un motivo di esistere in quegli anni '90, visto che il peggio lo si sarebbe toccato solo nel decennio successivo, durante il quale dirigerà un film come "Il Caimano" dove, invece, a sostenere il peso della svogliatezza non è più la delusione, quanto la codardia.




La differenza, in fondo, è tutta qui: in "Aprile" il buon Nanni dà forma alla disillusione con il privato e lo fa sicuramente in modo egocentrico ed egoista, ma anche sincero; ne "Il Caimano" a sorreggere il giochino è, forse, la sola codardia. E se entrambi i film possono essere tacciati come delle "sciocchezzuole d'artista", sterili e alla fin fine inutili nella loro pochezza, perlomeno "Aprile" riesce a dare una forma digeribile a questo poco, configurandosi come un'opera genialmente ipocrita.

lunedì 19 novembre 2018

La Ballata di Buster Scruggs

The Ballad of Buster Scruggs

di Joel e Ethan Coen.

con: Tim Blake Nelson, Liam Neeson, James Franco, Zoe Kazan, Clancy Brown, Brendan Gleeson, Tom Waits, Stephen Root, Bill Heck, Grainger Hines, Saul Rubinek.

Usa 2018















Un West anomalo, quello dei Coen, che pur si erano già cimentati con i paesaggi infiniti e desolati della frontiera con "Non è un Paese per Vecchi" e "Il Grinta"; un West che del luogo magico e leggendario cantato da John Ford e Sergio Leone ha tutto e al contempo nulla: ci sono i pistoleri ed i cowboy, le risse nei saloon, gli indiani armati di tomahawk e frecce, i cercatori d'oro dalla barba lunga, le diligenze affollate e le praterie sterminate, finanche le vette gelide e innevate; eppure, in tutti e sei gli episodi che compongono questa antologia, a svettare su tutto è qualcos'altro, un elemento che fa passare gli altri categoricamente in secondo piano: la morte.
"La Ballata di Buster Scruggs" nasce dalla volontà dei Coen di omaggiare il cinema antologico italiano degli anni '60 e '70; intento che si concretizza nella frammentazione del racconto, affidato a sei storie che non hanno personaggi ricorrenti, né situazioni similari e che sono, anzi, rigidamente rinchiuse all'interno di sei racconti distinti, ognuno introdotto, come nel cinema americano classico, da una mano che sfoglia le pagine di un libro; il fil rouge di tutta la narrazione diviene così il solo tema della morte, nelle sue forme più disparate, dalla più buffa alla più truce, dalla più concreta a quella più esoterica e filosofica. Allo stesso modo, ogni episodio ha una forma in parte diversa, uno stile a suo modo unico.



Si parte con quello che dà il titolo al film, "La Ballata di Buster Scruggs", il più singolare tra tutti, un western che ha cadenze e forma del musical, in un mash-up di generi che riprende il discorso che i Coen avevano lasciato con il divertente "Ave, Cesare!".
Buster Scruggs è il pistolero più veloce del west, la cui velocità di estrazione viene eguagliata solo dalla sua ugola d'oro; Scruggs non è un eroe, non ha nulla di romantico e la sua moralità può essere ridotta alla semplice frase "essere migliore degli altri"; è un personaggio che, pur vestito di bianco e addobbato da un atteggiamento gioviale, altro non è se non un antipatico narcisista, uno scavezzacollo che riesce sempre a cavarsela grazie alla sua mano svelta; egli è, almeno inizialmente, l'incarnazione più terrena della morte: in un mondo dove la violenza e la sopraffazione del più forte sul più debole sono un imperativo, essere il migliore vuol dire essere il più letale, essere il più brillante vuol dire essere il più violento. Ed i Coen parodizzano tali concetti ritraendo il loro protagonista come un cartone animato vivente, che canta ogni volta che può e che distrugge gli avversari in modi talmente truci da sforare nel grottesco più cupo.
Ma, ovviamente, non si può essere al top per sempre: ecco che anche per Scruggs arriverà il momento di fare i conti con un rivale molto più veloce di lui; e anche per lui arriverà il momento di stramazzare al suolo, con solo un'ultima canzone per congedarsi dal pubblico. La morte diviene così quotidiana forma di affermazione, compagna che segue i personaggi ad ogni passo, con la violenza pronta ad esplodere da un momento all'altro senza preavviso; una morte svuotata di ogni parvenza maligna per divenire comica, ma pur sempre atroce.



Il secondo capitolo, "Near Algodones" è anche il più coeniano dei sei. Al centro troviamo James Franco nei panni di uno sfortunato rapinatore che, catturato a seguito di un colpo, si ritrova con la corda al collo pronto per essere impiccato, solo per poi essere salvato prima dall'intervento di un gruppo di comanche che stermina la posse incaricata dell'esecuzione, poi da un gioviale vaccaro che lo libera dalla forca; destino vuole, tuttavia, che quel simpatico cowboy altro non sia se non un ladro di bestiame, che pianta in asso il neo sopravvissuto, il quale, paradossalmente, si ritrova di nuovo con una corda al collo e, sul patibolo della sua morte, non può che ammirare una bella ragazza prima di spirare.
Non c'è un senso nella storia di questo giovane bandido sfortunato; non ci sono forze occulte all'opera che ne muovono il destino, né lezioni da imparare dagli eventi; questi altro non sono se non una sequela di incidenti che si parano lui innanzi e che lo portano costantemente allo stesso punto, quello di morte, che può essere evitata quanto si vuole, ma mai fuggita del tutto. Come in "A Serious Man", non esiste una sovrastruttura teologica. né ideologica: le azioni degli uomini sono governate dal caso e le loro storie possono tranquillamente essere prive di senso alcuno.



Terzo capitolo, "Meal Ticket", il più intimista e toccante, nonché il più semplice sul piano narrativo, probabilmente ispirato a "La Strada" di Fellini. Nel profondo nord costantemente innevato, troviamo un anziano imbonitore di folle, interpretato da Liam Neeson, girare per villaggi ed avamposti facendo esibire un giovane londinese privo di arti, il quale recita con cuore i versi di Shelley; tra i due non c'è complicità che non sia dettata dal puro utilitarismo, tanto che non si scambiano neanche una parola durante i loro viaggi. Una relazione, la loro, gelida quanto i paesaggi che attraversano e ancora più desolata, che culminerà nell'unico modo possibile: trovata una letterale gallina dalle uova d'oro, l'imbonitore si disfà del fenomeno senza rimpianti, continuando dritto per la sua strada come se niente fosse successo.
Come ne "I Compari" di Robert Altman, anche per i Coen nel west, ora, non ci sono eroi romantici, né morti spettacolari: tutto viene dettato dalla logica del profitto, vita e morte compresi; al di là d essa, c'è il nulla, la desolazione più nera, eguagliata solo da quella morale dei suoi protagonisti.



"All Gold Canyon", forse il più enigmatico dei racconti; protagonista assoluto è un vecchio cercatore d'oro, interpretato da Tom Waits; assistiamo alla sua pervicace ricerca del "signor filone", alle sue giornate fatte di scavi e pranzi alla bene e meglio, alle notti al freddo nella natura selvaggia del "Canyon dorato"; fino a quando il tanto agognato filone non si rivela... assieme ad un giovane scroccone che gli pianta una pallottola nella schiena.
Ma di punto in bianco, ecco il vecchio tornare in vita, combattere forsennatamente per il suo oro fino ad averla vinta contro il rivale, solo per poi abbandonare il canyon con il bottino e lasciare che la natura se ne reimpadronisca.
Qual'è il significato delle azioni del vecchio? O, meglio, queste ne hanno davvero uno? Quel che è sicuro è che a muovere questo cupido vegliardo altro non è che la sete d'oro, che lo porta persino a resuscitare pur di possedere l'agognato "signor filone".



"The Girl who got Rattled" è il più crudele dei sei episodi. Seguiamo la triste vicenda della signorina Longabaugh (Zoe Kazan), unitasi ad una carovana diretta verso l'Oregon con la promessa di un matrimonio di interesse. Lungo il viaggio, tuttavia, suo fratello muore all'improvviso, lasciandola sola e con un debito di 400 dollari da saldare. A prendersi cura di lei ci sono solo due cowboy, il vecchio Arthur (Grainger Hines) ed il giovane Billy Knapp (Bill Heck).
Capitolo più lungo dell'antologia, è un dramma che i Coen conducono con un distacco quasi ironico, caricando di tragedia in tragedia la vita della sua protagonista, donna in un ambiente tipicamente mascolino quale quello del west; una donna, quindi, vittima predestinata degli eventi, che si vede sottratta di tutto proprio quando sembrava che la fortuna cominciasse a girare per lei. D'altro canto, le parole della didascalia che accompagna l'episodio dicono già tutto: "Arthur non sapeva cosa dire a Billy Knapp", ossia non ci sono ragioni, talvolta, per la tragedia, essa arriva e si consuma per caso ed in un battito di ciglia, senza un perché che sia uno.



Ultimo episodio, "The Mortal Remains", è anche il più astratto dei sei; i Coen abbandonano gli spazi aperti consumati dal sole ed isolano un pugno di personaggi all'interno delle quattro pareti di una diligenza, ricostruendo il tutto in studio. Cinque personaggi, un trapper, una vecchia vedova, un giocatore d'azzardo di origine francese e due cacciatori di taglie, si confrontano su quale che sia il significato della vita. Ma il loro viaggio verso la meta è puramente simbolico: ad attenderli non c'è nulla se non un albergo vuoto.
Il viaggio diviene così metafora della vita, condotta da un cocchiere taciturno ed imperscrutabile, la quale conduce per tutti ad un'unica meta: la tomba.



La scrittura dei Coen è al solito eccelsa: i simbolismi si rincorrono costantemente, anche quando non rappresentano, di fatto, nulla, o, meglio, il nulla. La loro "Ballata" è un'antologia crudele che non vuole essere né spettacolare, né moralista: non ci sono ragioni che portano alla dipartita dei personaggi, né grandi piani in movimento; mai come ora, quella dei Coen è una vera e propria "narrazione del nulla", del vuoto pneumatico che sottostà alle azioni dei personaggi; è, di conseguenza, l'esito più nichilista del loro cinema, ancora più di "A Serious Man" e "Non è un Paese per Vecchi", un piccolo-grande pugno allo stomaco dello spettatore, che rilegge il mito del west in modo disilluso, andando oltre il mero crepuscolarismo, per farsi puro cinismo.
Un cinismo dannatamente divertente, ma pur sempre cinico.

giovedì 15 novembre 2018

Faccia a Faccia

di Sergio Sollima.

con: Gian Maria Volontè, Tomas Milian, William Berger, Joalnda Modio, Gianni Rizzo, Carole Andrè, Angel De Pozo, Aldo Sambrell.

Spaghetti Western

Italia, Spagna 1967












"Faccia a Faccia", ossia un confronto serrato tra due personalità opposte, quasi speculari. E l'anima del piccolo western del compianto Sollima Sr. si fonda totalmente su questa contrapposizione, quella tra due personaggi che, almeno all'inizio, sono agli antipodi. E lo fa affidandosi alle performance di due interpreti straordinari.




Da un lato Brad Fletcher (Volonté), professore di storia del New England che, per curare una cronica malattia polmonare, si trasferisce in Texas; dall'altra Solomon "Beuregard" Bennet (Milian), bandido a capo di un violento gruppo di pistoleri; il loro incontro è casuale, o forse voluto dal destino, non è dato saperlo, né importa: quel che conta è il modo in cui l'uno influenzerà l'altro e verrà a sua volta cambiato da questa strana amicizia.




Fletcher, uomo educato e passivo, diventerà pian piano uno spietato pistolero; le forti critiche allo stile di vita "selvaggio" del West cedono ben presto il posto al fascino per la totale libertà, la piena affermazione del sé data dalla possibilità di poter ottenere tutto quel che si desidera usando semplicemente la forza. E a Fletcher, questa forza di certo non manca, né, sopratutto, sul piano intellettivo: la sua intelligenza, non comune per le coordinate del selvaggio West, così come la sua preparazione, gli permettono di divenire subito un membro di punta della gang; la sua è pura capacità di adattamento, immersione totale nel contesto sociale in cui si trova a muoversi; non per nulla viene paragonato ad un parassita "umile tra gli umili e violento tra i violenti", il cui cambiamento viene sottolineato da Volonté tratteggiandolo come un Mussolini del West.




Bennet, d'altro canto, ha un'indole violenta e rozza, che di punto un bianco cambierà in civilizzata; è un bandito che non cerca la redenzione, che vive la sua vita senza particolari ideali che non siano la pura sopravvivenza; è un maschio alfa in tutto e per tutto, che tuttavia verrà pian piano detronizzato dal suo amico, solo per scoprire un codice d'onore che forse non sospettava neanche di avere.




Se le due personalità dei protagonisti sono ben tratteggiate, più meccanico e forzato appare il loro scontro, il quale resta, malauguratamente, sempre fermo alla superficie, portato avanti unicamente da dialoghi che male approfondiscono le effettive differenze di veduta tra i due.
"Faccia a Faccia" resta così un western non profondo, ma quantomeno originale nel volersi basare totalmente sulla contrapposizione di due personalità distinte; un piccolo gioiellino che avrebbe potuto essere davvero grande.

giovedì 8 novembre 2018

Il Mio Godard

Le Redoutable

di Michel Hazanavicius

con: Louis Garrel, Stacy Martin, Béréncie Bejo, Micha Lescot, Grégory Gadebois, Guido Caprino, Félix Kysyl, Arthur Orcier.

Francia, Birmania 2017

















Un'operazione come quella de "Il Mio Godard" porta con sé un interrogativo pesante: quanto un autore può giocare con l'eredità del passato prima di romperla, di ridurla, appunto, ad un mero giocattolo con il quale divertire il suo pubblico e purgarla di ogni effettivo valore?
Michel Hazanavicius non è di certo nuovo ad operazioni del genere: il suo "The Artist", acclamato e oramai quasi dimenticato, in fondo altro non era se non un elegante giochino cinefilo nel quale i miti del muto rivivevano in uno spettacolo moderno; ma se nel suo film premio Oscar c'era una forma di venerazione verso quel modo di fare cinema, che si traduceva in un omaggio vivo e sentito il quale, a sua volta, diveniva bel cinema, quello de "Il Mio Godard" è decisamente un risultato più modesto, che appiattisce tutto ciò che narra sui binari della "dramedy" compiaciuta, con il solo intento di intrattenere il proprio pubblico.




Basato sull'autobiografia di Anne Wiazemsky, "Un Anno Cruciale", il film si apre sul set de "La Cinese": un Godard 37enne (Garrel) incontra una 19nne Anne (Stacy Martin) e se innamora perdutamente, a sua volta ricambiato; ma Anne ama Jean-Luc, non Godard; ma chi è davvero Jean-Luc e chi Godard? Chi è l'artista? Chi il rivoluzionario? Chi l'intellettuale e chi l'intellettualoide?




"Godard non esiste. Io sono un attore che interpreta Godard"; con questa frase Hazanavicius apre la danza degli specchi con cui intesserà il film; la confusione, sempre voluta, tra narrato e narrazione si fa gioco nel quale tornano tutti i topoi del cinema di Godard: i colori sgargianti, i nudi eleganti, le scritte "slogan" portatrici di significato, la divisione del narrato in capitoli e persino la passione cinefile (sullo schermo scorrono le immagini di "La Passione di Giovanna D'Arco" come in "Questa è la mia Vita"). Ma la sfilata di rimandi non si fa mai narrazione: il tutto si riduce a mera estetica, ad una calligrafica sfilata di cliché un tanto al chilo dati in pasto al pubblico per dimostrare di aver metabolizzato quel cinema. Il problema è quel "quel cinema" usava quei "cliché" come forma espressiva, ognuno dei quali aveva un peso specifico nella forma narrativa; peso qui assente, che li trasforma automaticamente in orpelli dall'inutilità compiaciuta.




Vien da ridere se si pensa a questa operazione di collezionismo feticista come ad un omaggio, quando è chiaro come Hazanavicius di quei feticci non ha capito la portata; e sotto sotto sembra quasi che voglia deriderli volontariamente, in una specie di vendetta di quel cinema finto-intellettuale tanto odiato da Godard verso quella sorta di anti-cinema intimamente rivoluzionario che con il grande artista della Nouvelle Vague trovava la sua voce più dirompente ed incontenibile.
Se il cinema di Godard viene così sbeffeggiato, ridotto ad un soprammobile un po' polveroso da guardare con un filo di malizia, la figura di Godard stesso viene totalmente distrutta.




Il Godard-uomo non esiste; il Godard-artista è perso nei meandri del Godard-intellettuale, unica figura davvero "raccontata" da Hazanavicius; il quale porta su schermo uno dei periodi cruciali della sua attività, ossia la fondazione del collettivo "Dziga Vertov" sino al suo (quasi immediato) conseguente fallimento, stretto tra il radicale "La Cinese" e poco prima dell'ancor più radicale "One plus One". Ma questo intellettuale non è che una sagoma di cartone,un personaggetto perso nelle sue stesse elucubrazione che mal cela una scarsissima confidenza in sé stesso. Non c'è traccia della sua effettiva vena politica, né dell'esteta raffinato; il Godard che appare su schermo è un semplice sessantottino compiaciuto della propria nullità (proprio lui, che nella realtà storica tanto sbeffeggiò i veri sessantottini), che si diverte a criticare tutto ed il contrario di tutto propagandando una fantomatica "rivoluzione" che non sembra neanche conoscere; non c'è nulla del sincero maoista deluso dal Maggio, né dell'intellettuale seriamente preoccupato della deriva "borghese" di tanto cinema europeo. Tutte le paure del vero Godard vengono ridotte a mere nevrosi, usate poi per metterlo alla berlina, facendolo somigliare, in modo al quanto sinistro, alla maschera tipo di Woody Allen piuttosto che ad un uomo di cultura alla deriva; ed è qui che il gioco di specchi e rimandi mostra il fianco alla critica più ovvia: quello su schermo non è Jean-Luc Godard, né una sua interpretazione, quanto una parodia, leziosa e faziosa, che con la realtà storica dell'uomo e dei fatti che lo hanno visto protagonista non ha nulla a che fare.




Lo stesso uso dei "cliché" godardiani, di conseguenza, colora il giochino cinefilo in modo simile ad un insulto mal celato; di sicuro, i titolisti italiani questa volta ci hanno azzeccato: questo non è che il Godard di Hazanavicius, che con quello vero ha solo una vaga somiglianza estetica (anzi, da questo punto di vista viene persino da ridere quando ci si accorge che la Martin, con un caschetto bruno alla Anna Karina, non assomiglia neanche per sbaglio alla Wiazemsky); questo, in sostanza, non è un omaggio, ma una parodia compiaciuta.
E quando Hazanavicius decide di andare oltre, di ritrarre anche Marco Ferreri e Bernardo Bertolucci come delle caricature, il suo intento si fa chiaro: creare una pura commedia che prenda in giro il cinema d'autore francese e, in generale, europeo degli anni '60.
Cosa ci sia da prendere in giro, data la caratura dei nomi coinvolti, non è dato saperlo; men che meno il perché bisognerebbe ridere di quel cinema, che, rivisto oggi, talvolta acquista persino un valore maggiore di quanto ne avesse all'epoca.
Una cosa è però certa: di quello straordinario periodo, Hazanavicius dimostra di aver capito poco e nulla. Forse anche per questo, il vero Godard ha definito il suo film come "stupido", dimostrando, ad 87 anni suonati, di avere ancora una visione chiara dello stato dell'Arte.