lunedì 26 novembre 2018

Cane di Paglia

Straw Dogs

di Sam Peckinpah.

con: Dustin Hoffman, Susan George, Peter Vaughan, T.P. McKenna, Del Henney, Jim Norton, Donald Webster, Ken Hutchinson.

Usa 1971
















La violenza come comune denominatore a tutti gli esseri umani; se c'è una "morale" in "Cane di Paglia" sembra essere proprio questa presa di posizione, netta e cinica; un'affermazione secca dello "stato di natura" come componente inscindibile dall'essere umano. E Peckinpah, di certo, sapeva cosa voleva dire, proprio lui più volte accusato di amare la violenza, di esserne un cantore orgoglioso e compiaciuto; nulla di più falso: in "Cane di Paglia", così come nel successivo "Voglio la Testa di Garcia!", Peckinpah elabora un apologo a-morale di stampo smaccatamente pessimista, che ritrae, certo, la materia senza filtri, in modo scomodamente esplicito, ma senza mai cadere nella trappola del compiacimento che tanto cinema exploitation, cui viene solitamente accostato, invece prende in pieno.



Un apologo che parte dalla contrapposizione di due stili di vita, quello moderno e quello più gretto ed arretrato; laddove il west per Peckinpah è un luogo arcaico dove però vige un codice d'onore che rende civile chi lo abita, la remota compagna inglese è invece una bolla fuori dal tempo e dallo spazio, abitata da personaggi preistorici, uomini persi nei propri vizi e nella propria pochezza.
In un contesto di celebrata bassezza, viene introdotto un elemento alieno, il matematico David Summer, incarnato dal volto comune e dal fisico emaciato di un Dustin Hoffman semplicemente perfetto. Summer è in tutto e per tutto l'antitesi dei locali: basso, occhialuto, timido, visibilmente a disagio in un posto che non conosce. Sua controparte è lo schietto Charlie Venner (Del Henney), ex spasimante di sua moglie Amy (Susan George): un omaccione dai lineamenti duri e dal fisico imponente.



Una contrapposizione tra civile e primordiale che prende le forme dell'insulto sottile, dell'invidia per la "res" detenuta da Summer, ossia la sua bellissima moglie, oggetto del desiderio di tutti gli altri maschi del luogo. Da qui, appunto, una divisione tra il "noi" della comunità rurale ed il "loro", gli esterni, ma anche coloro che non possono omologarsi, come John Niles, il matto del villaggio oggetto perenne dell'odio del resto della comunità.
Una contrapposizione che prende le forme dapprima della sottomissione muta: tramite piccoli gesti e parole, i locali si pongono in una posizione di superiorità rispetto a Summer. Contrapposizione che si fa conflitto quando il mite padrone di casa viene letteralmente espropriato di ciò che è suo, ossia la sua donna.



La violenza, sebbene faccia come prima vittima in assoluto il gatto della coppia, si consuma davvero solo quando è Amy ad esserne oggetto, in una sequenza che all'epoca destò scandalo per l'audacia nella messa in scena, ma in cui Peckinpah è in realtà alquanto parco con il mostrato. Il rapporto tra la donna-oggetto ed i suoi carnefici viene descritto in modo complesso e spiazzante. Dapprima, Amy è lusingata dalle attenzioni del suo ex, anche perché visibilmente infastidita dal comportamento sin troppo mite del marito; ma Charlie, quando ne ha l'occasione, riesce a concupirla solo mediante lo stupro, sottomettendola, appunto, con la forza, strappandole letteralmente i vestiti di dosso; pur tuttavia, quella che inizialmente si consuma come violenza, diviene ben presto rapporto volontario, abbandono ai sensi di una donna che trova nel contatto fisico una nuova ragione di vita.
Ma, in un contesto brutale come quello descritto dal film, l'abbandono dei sensi non può che portare, di nuovo, ad una forma di violenza: l'atto d'amore si fa nuovamente stupro, appropriazione forzata di un oggetto del desiderio in una società che non conosce il rispetto dell'altro, neanche quando questi è un membro effettivo della società stessa.



La donna, di conseguenza, benché tentatrice irredenta, personaggio quasi negativo nell'economia generale del racconto (durante l'assedio cercherà più volte di convincere il marito a cedere pur di salvarsi), resta la prima vittima della violenza, intesa come esplicitazione della grettitudine dell'uomo.
La quale prenderà forma completa nel terzo atto, la lunghissima e complessa sequenza dell'assedio.



In una logica da western, Peckinpah trincera i personaggi all'interno di un ideale fortino assediato dai locali; la goccia che fa traboccare il vaso è quasi pretestuosa: il linciaggio dell'altro "alieno" della comunità, quel Niles che, sebbene macchiatosi dell'omicidio della disinibita figlia del maschio alfa, non ha davvero colpe. La difesa dell'innocente prende il posto della difesa della res: benchè David affermi di voler difendere ciò che è suo, sta di fatto difendendo un altro sé stesso, un'altra vittima della cattiveria della società.
La violenza prende le forme più disparate: corpi che letteralmente volano a causa delle fucilate, fatti a pezzi da tagliole o percossi a morte, in un vortice di isteria dove il ruolo di vittima designato di David viene fagocitato dal suo status primordiale di maschio alfa; la metamorfosi è completa, la maschera della civiltà cade: David è feroce quanto gli assalitori e, al suo pari, anche il mondo in cui si muove si rivela per quello che è, ossia una landa primordiale dove può vincere solo il più forte.



E con la perdita della distinzione tra vittima e carnefici, viene meno anche la distinzione tra buoni e cattivi. In questo west europeo non ci sono eroi: di certo, David non è tale, non è davvero mosso da un alto senso di giustizia in senso stretto, se non dalla volontà di rivalsa verso gli assalitori. Non c'è legge che tenga: il giudice è il primo a cadere sotto il fuoco dei "selvaggi"; non c'è giusta vendetta: Amy non si vendicherà dei suoi assalitori, limitandosi ad uccidere l'ultimo sciacallo solo per salvare la vita al marito.
Ciò che resta è solo il primordiale fuoco distruttivo, la volontà, ai limiti della follia, di difendere l'amor proprio, un personalissimo e primitivo senso del giusto non codificato in alcun modo, che è in realtà pura e semplice riaffermazione del diritto del più forte.
Un fuoco che porta ad una realizzazione devastante, quella della propria natura animalesca, oltre che di quella del prossimo; da qui l'impossibilità di una ricomposizione della "quiete" originale, cui segue una corse verso il nulla: "Non conosco la via giusta" esclama Niles, "Non fa nulla... neanch'io" gli risponde Summer, ossia per entrambi non può esserci posto in quella società che li ha dapprima emarginati e poi plasmati in bestie.



Come accadeva per i massacri de "Il Mucchio Selvaggio", anche la lotta disperata del "cane mangia cane", per Peckinpah, ha la forma dell'assenza di forma; il linguaggio filmico viene nuovamente sconquassato, fatto a pezzi in una miriade di inquadrature sghembe e oblique che poi vengono riassemblate dal montaggio; così come la violenza fa deflagrare ogni certezza sui ruoli dei personaggi, allo stesso modo distrugge la narrazione canonica per divenire puro caos.
Un caos nel quale il grande autore americano si aggira con una lucidità sconvolgente: la sua è una presa di posizione netta e priva di rimpianti, in un discorso dalla modernità ancora oggi agghiacciante.

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