giovedì 29 novembre 2018

The Place

di Paolo Genovese.

con: Valerio Mastandrea, Marco Giallini, Alessandro Borghi, Vittoria Puccini, Silvia D'Amico, Silvio Muccino, Alba Rohrwacher, Sabrina Ferilli, Rocco Papaleo, Vinicio Marchioni, Giulia Lazzarini, Andrea Iaia.

Italia 2017
















Fresco del successo di "Perfetti Sconosciuti", il film rivelazione dell'anno di grazia 2016, terzo maggiore incasso della stagione e stragista di premi e riconoscimenti vari, Paolo Genovese tenta il colpaccio, ossia decide di alzare la posta in gioco, rifare, in senso lato, il suo film più amato aumentandone esponenzialmente gli elementi caratterizzanti; l'unità di luogo diviene così totalizzante: il tavolino di un bar, il the place del titolo, con un unico personaggio al centro di tutto, un faust che ha il volto di Valerio Mastandrea e che di volta in volta ha un colloquio con svariati esempi di umanità/italianità-tipo, con una costruzione scenica ieratica, fissa nel campo/controcampo dei due, massimo tre soggetti coinvolti di volta in volta.
Un'operazione rischiosissima, che avrebbe potuto naufragare facilmente persino nelle mani di un cineasta esperto; e con Genovese al timone di tutto, la tempesta è impossibile da schivare: "The Place" vuole essere un dramma cinico, esistenzialista e morboso, ma riesce unicamente a configurarsi come un esercizio di stile insipido e incolore, privo di nerbo e, al solito, costituito da una drammaticità che si ferma prepotentemente sulla superficie dei personaggi e delle loro storie.



Il setting principale viene ripreso da una piccola serie televisiva americana "The Booth at the End"; da qui viene l'idea di uno sconosciuto che affida compiti particolari a soggetti in cerca di una personale felicità, chiamati a sporcarsi le mani con azioni spesso immorali; il fulcro della riflessione è presto servito: per raggiungere la felicità, le persone sono in grado di fare qualsiasi cosa.
L'Uomo è così una via di mezzo tra un demone tentatore ed un angelo redentore: c'è chi lo asseconda commettendo indicibili peccati, chi invece grazie a lui realizza di essere migliore di quanto crede; in un modo o nell'altro, tutti vengono toccati dalle sue parole e dai "compiti" affidati. E qui stanno i primi due problemi del film di Genovese.



Se la sua intenzione era quella di creare un dramma a tinte forti su di un'umanità che nasconde una ferocia bestiale sotto una coltre perbenista, uno spaccato impietoso di un gruppo di personaggi persi nelle proprie ossessioni, ha fallito miseramente; non solo molti di questi personaggi alla fin fine fanno sempre la scelta più umana, ma finiscono talvolta persino per divincolarsi facilmente dal giogo che questo strano personaggio sembra cingere loro. Non c'è, in buona sostanza, vero dramma, non c'è vera cattiveria nei personaggi e nelle loro azioni e quando la redenzione arriva è scontata, a volte telefonata, facilmente intuibile da una scrittura scialba, che non fa nulla per nascondere la propria pochezza.



Una pochezza che viene perorata ulteriormente dalla scelta stilistica di chiudere tutta la storia all'interno del bar: manca la drammaticità dell'esecuzione, manca la vera catarsi, manca la tensione  drammaturgica; la narrazione si fa così subito spenta, blanda, genuinamente noiosa; e non aiuta la superficialità con cui spesso vengono caratterizzati questi personaggi, i quali sembrano di conseguenza muoversi su binari tracciati per portarli automaticamente da un punto A ad un punto B anche quando compiono un vero e proprio arco caratteriale, cosa inedita per i protagonisti di un dramma nel "cinema" italiano.



Su tutto però svetta la scelta infelice di affidare un personaggio complesso come quello del protagonista ad un attore come Valerio Mastandrea, il cui volto perennemente accigliato schiaccia tutte le sue possibili sfumature; di tutte queste, Mastandrea non riesce mai a comunicare il senso di minaccia, sottile ma costante, che questo strano Mefistofele dovrebbe emanare, chiuso com'è nella sua classica espressione stanca, che toglie ulteriormente forza alla narrazione.




In 101 minuti si assiste così all'inesorabile crollo dell'intero schema narrativo, fatto a pezzi in primis da una scrittura maldestra, in secondo luogo da perfomance non sempre ispirate; tolto Mastandrea, il cui miscasting è ovvio sin dai primi fotogrammi, il resto del cast si divide tra prove riuscite ed altre più incolori. Senza voler citare tutti, Marco Giallini, chiamato a recitare questa volta in un ruolo più nelle sue corde rispetto alla precedente collaborazione con Genovese, non buca lo schermo quanto dovrebbe; Alba Rohrwacher, nei panni di una suora afflitta da una crisi di fede, sfoggia un sorrisetto un po' sornione che non si capisce da dove esca; Vinicio Marchioni e Rocco Papaleo, a cui sono affidati i due personaggi più complessi, eseguono il loro lavoro senza sbavature, ma viene da chiedersi cosa sarebbero stati in grado di fare se la costruzione drammaturgica non li avesse limitati a stare sempre seduti ad un tavolo; piccola rivelazione è invece la prova di Silvio Muccino, che riesce miracolosamente ad essere sempre credibile.



Vien da chiedersi, alla fine della visione, che cosa sia davvero questo "The Place", se un semplice esercizio di stile travestito da dramma piuttosto che un divertissement per un pubblico finto-impegnato. Una cosa è certa: se questo è il cinema che piace fare ai cineasti italiani, se davvero costoro credono di poter propinare all'infinito versioni scolorite e scipite di opere estere ("The Booth at the End" come "Cena tra Amici" per "Perfetti Sconosciuti"), allora forse è arrivato il tempo per il pubblico di smetterla di sostenere il nostro cinema, di recuperare gli imprint originali che Genovese e company saccheggiano piuttosto che buttare soldi e tempo per delle loro versioni imbastardite e, in fin dei conti, utili solo a reinvestire i proventi del finanziamento pubblico.
Visto che gli autori non hanno rispetto per il pubblico, tanto vale che il pubblico non rispetti gli autori. E se questo cinema fatto di personaggi dove i personaggi non ci sono, fatto di drammi dove il dramma è assente, fatto di visioni sull'Italia e sulle persone dove la visione è sbilenca e compiaciuta è davvero il cinema italiano, allora tanto vale smettere di fare cinema in Italia. Anche se, per fortuna,  per ogni Paolo Genovese c'è almeno un Garrone che ha capito cosa il cinema ed il dramma siano davvero. E per questo, quasi spiace avere una presa di posizione tanto radicale, eppure incredibilmente necessaria.

2 commenti:

  1. Riguardo alla mancanza di rispetto dei cineasti nei confronti del pubblico, in questi giorni è uscito il trailer di Amici come prima, il film reunion di Boldi&De Sica.
    Praticamente hanno fatto il remake di Quasi amici, film francese di qualche anno fa (distribuito in Italia guarda caso da Medusa), con l'aggiunta dei topoi da cinepannetone e De Sica travestito da donna (come in Bellifreschi dell'87).
    Cioè non bastava il movie-clip di Ruffini, ci voleva anche un cinepanettone remake di un film francese, senza avere il coraggio di spacciarlo per quello che è.
    E questo è il massimo che Boldi&De Sica sono riusciti a fare, dopo un un separazione di ben 13 anni (!). E c'+ chi ancora il coraggio di andae a vedere sta roba.
    Tanto valeva utilizzare la sceneggiatura di Natale a Silent Hill (quella pubblicata su Nonciclopedia).
    Almeno avrebbe fatto ridere (sarebbe stato il primo cinepanettone, dopo trent'anni).

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    1. L'accostamento che fai è un po' forzato, ma calzante. Dopotutto, i cinepanettoni sono film fatti da decerebrati per un pubblico di decerebrati, i drammoni sono film fatti da impediti per uni pubblico di decerebrati che si crede intelligente.

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