lunedì 24 dicembre 2018

Una Poltrona per Due

Trading Places

di John Landis.

con: Dan Aykroyd, Eddie Murphy, Jamie Lee Curtis, Denholm Eliott, Ralph Bellamy, Don Ameche, Nicholas Guest, Robert Curtis Brown.

Commedia

Usa 1983















Era la Vigilia del 1997 quando Mediaset decise di inaugurare una delle ricorrenze più durature e amate nel suo palinsesto, ossia la riproposizione, per i successivi due decenni almeno, di "Una Poltrona per Due" come film di Natale di Italia 1, la rete "giovane" del biscione, che già all'epoca tanto giovane più non era. Ad oggi, per 21 anni, il gioiello di John Landis è divenuto sinonimo di festività natalizia in Italia, mancando all'appello solo nel 2008, quando fu sostituito dalla saga classica di "Star Wars".
Tuttavia, chiunque abbia visto ed amato il film non può che trovare una tale scelta a dir poco stramba, se non addirittura spiazzante. Se si pensa che con le feste si è soliti guardare film buoni e finanche buonisti, come il classico della tv americana "La Vita è Meravigliosa"; persino l'horror per famiglie "Gremlins", altro classico americano degli anni '80, risulta, bene o male, più consono alle festività natalizie rispetto al film di Landis. E, a dirla tutta, sinanche un vero e proprio horror come "Batman- Il Ritorno" meglio rappresenta lo spirito natalizio rispetto a "Una Poltrona per Due". Questo perché il film di Landis è la quintessenza della commedia sporca, cattiva e acida che nel 1983 già andava scomparendo dagli schermi americani, ma che qui graffia ancora a dovere.



L'anno di produzione è in tal senso essenziale: siamo nel pieno della Reaganomics, l'economia finanziaria ha sostituito quella produttiva e gli yuppies si sono definitivamente impadroniti della ricchezza. L'edonismo sfrenato, alimentato da fiumi di coca e tonnellate di sesso, ha sostituito ogni valore possibile in Occidente. Ciò che conta è il guadagno, l'affermazione economica, sia che si viva a New York che a Milano, l'importante è trasformare un dollaro in un dollaro e mezzo. Chi resta indietro, chi non ha i mezzi per mungere la vacca della ricchezza, è un perdente, in un trionfo del calvinismo sociale compiaciuto.
Landis, dal canto suo, in quell'anno di grazia, conoscerà il successo grazie alla collaborazione con Michael Jackson in "Thriller" e l'orrore più genuino con l'incidente sul set di "Ai Confini della Realtà"; da buon anarchico, non può che trovare il lato buffo nel genocidio sociale che si sta consumando per le strade d'America e decide di portare in immagini uno script non suo, una sorta di rilettura de "Il Principe e il Povero" di Mark Twain dove a farla da padrone non è né il destino, né l'autodeterminazione dei due protagonisti, quanto un crudele gioco al massacro inscenato da due vecchi magnati, i fratelli Duke. Vittime della scommessa "da un dollaro" sono il rampollo dell'alta società Louis Winthorpe (Aykroyd) e lo "straccione" Billy Ray Valentine (Murphy).



E già dalla premessa, il tono della pellicola risulta più che chiaro: la società è costituita e guidata da un gruppo di vecchi bastardi che si divertono a rovinare la vita di un giovane arrivista per il proprio ludibrio; il vedere una vita distrutta, fatta letteralmente a pezzi, provoca gioia in questo due di speculatori che dalla vita ha preso tutto e che ora si crede come Dio, in grado di poter manipolare a piacimento il destino di due uomini; persino la scalata sociale del nero Valentine non è un'opera di bene, non è ridistribuzione di quella ricchezza in un modo o nell'altro sottratta allo strato più povero della società, quanto una mera burletta inscenata per il proprio divertimento.
Se i due "villain" sono pura cattiveria sociale, non migliori sono i due protagonisti. Non c'è redenzione per loro, né la realizzazione dell'oscenità del male, non c'è crescita interiore, né una presa di coscienza dinanzi allo "scherzo" subito; c'è unicamente la cara, vecchia e sempre viva vendetta, una rivincita che li porta a perpetrare a loro volta quello stesso male che hanno subito: laddove Winthorpe è stato privato dei suoi agi, a sua volta priva dei loro agi i Duke, trasformandoli in derelitti; e laddove i Duke ridevano dei danni causati a Winthorpe, lui e Valentine ridono della miseria in cui i due fratelli sono caduti alla fine della storia. Non c'è giustizia, né riconciliazione, solo una rivincita, un "occhio per occhio" lontano anni luce dal messaggio di pace e perdono che di solito viene associato al Natale. Se si pensa che persino in un film cinico come "Babbo Bastardo", il protagonista compie un percorso di redenzione, ci si rende di come quello di Landis non sia un film natalizio neanche per sbaglio.



E di fatto, l'unico collegamento con le festività natalizie viene dato dall'ambientazione. La quale viene a sua volta sovvertita e svuotata di ogni funzione salvifica: è durante il Natale che Winthorpe tenta addirittura di uccidersi, raggiungendo il pozzo nero della disperazione dal quale viene salvato, per puro caso, dalla Ophelia di Jamie Lee Curtis, personaggio che, incarnato dal corpo sensuale della sua interprete, è tutto fuorché il canonico "angelo del focolare".
"Una Poltrona per Due", in sostanza, non è e non vuole essere un film natalizio, quanto una commedia cattiva e irriverente. Ed in questo è perfettamente riuscita: il tocco di Landis è ancora sensazionale, anche quando si affida all'istrionismo di Eddie Murphy; da antologia, in tal senso, la gag che lo introduce, con il falso invalido "sgamato" dalla polizia; o tutto il terzo atto, con la rincorsa in treno con il gorilla perfetto esempio di commedia demenziale.



Vien da chiedersi, dunque, il perché di una tale tradizione natalizia da parte della televisione berlusconiana, che di solito tende a far credere allo spettatore di essere dalla parte dei valori tradizionali: perché usare una commedia al vetriolo come film di Natale?
Al di là dell'ambientazione natalizia, forse c'è una risposta più profonda e al contempo più sinistra. Forse il film di Landis incarna al meglio i finti valori che le reti Fininvest prima, Forza Italia poi, hanno diffuso nel paese. Il valore dell'arrivismo, il valore della vendetta, il valore dello yuppismo a tutti i costi e finanche il valore del sesso come filosofia di vita. Di fatto, stiamo parlando pur sempre di un film dove il lieto fine è dato dai protagonisti che, su una spiaggia caraibica e circondati da bellissime donne seminude, si fanno beffe dei vecchi nemici ridotti in miseria. Non è difficile immaginare la stessa scena ambientata in una certa villa in Sardegna.

lunedì 17 dicembre 2018

Roma

di Alfonso Cuaròn.

con: Yalitza Aparicio, Marina de Tavira, Diego Cortina Autrey, Carlos Peralta, Marco Graf, Daniela Demesa, Nancy Garcia, Veronica Garcia.

Drammatico

Messico, Usa 2018

















Un film dovuto, forse, questo "Roma"; o, più semplicemente "doveroso", per Cuaròn. Un ritorno ad un cinema più piccolo, più a misura di persona, dopo il pluripremiato exploit di "Gravity", in una forma di cinema ad esso speculare: laddove lì erano gli effetti speciali a dominare e con essi, in un modo o nell'altro, uno sguardo rivolto costantemente al futuro (non per nulla il leitmotiv era la sopravvivenza), qui è il passato ad essere protagonista. Un passato che ha le forme di un bianco e nero che è messa in scena del ricordo, ossia la più personale delle esperienze.
E il ricordo di Cuaròn è quello del biennio 1970-1971, nel quartiere di Roma, Città del Messico, dove le vicende di una ordinaria famiglia borghese vengono appaiate a quella della servitù, tramite il punto di vista del personaggio di Cleo.




Due storie parallele, che si intrecciano sino a trovare un'unica catarsi. Da un lato la crisi familiare della sig.ra Sofia, la padrona di casa e madre di famiglia, piantata in asso dal marito medico di punto in bianco; dall'altro quella di Cleo, giovane donna messa incinta da un disadattato e scaricata per correre in seno alla guerriglia di estrema destra. In entrambe, un denominatore comune, quello di un uomo che abbandona le proprie responsabilità generando il dolore. Dolore personale che si associa a quello collettivo, dato dalle contestazioni dei primi anni '70: laddove i personaggi sanguinano, con loro lo fa un'intera nazione.



Il ricordo personale si confonde così con quello collettivo; il racconto si fa fluido, non ancorato allo schematismo proprio delle convenzioni; il tema dell'acqua, da sempre simbolo prediletto del regista messicano, diviene ideale sostanza di una messa in scena dove il centro dell'attenzione non è mai dato dal singolo personaggio, né dalla singola emozione, quanto per una collettività che si fa associazione di suoni, immagini e movimenti. La costruzione della scena si fa di conseguenza dinamica: ad una ricerca della profondità visiva quasi spasmodica, si associa un gusto per la panoramica laterale (sopratutto verso sinistra) che permette alla macchina da presa di immergere il personaggio nella situazione, senza escluderlo mai dalla stessa.



Allo stesso modo, Cuaròn alterna momenti di gioia ad altri di pura drammaticità: il Capodanno seguito dall'incendio nel bosco, la lezione di arti marziali che sfocia nell'abbandono definitivo, la corsa verso il cinema che culmina nell'incontro casuale con quella figura paterna in fuga; nonché il climax, dove alla tragedia sfiorata segue un momento di tranquillità ed è seguita da una presa di coscienza definitiva da parte di Cleo che la porterà a superare le perdite subite.
Il punto di riferimento cinematografico, meno esplicito di quanto si possa immaginare, è il Neorealismo italiano, con la distruzione della scrittura canonica e l'attenzione sublime per la messa in scena.



Ma, laddove la storia in sé risulta convincente, lo è molto meno il racconto. L'ossessione per la perfezione della messa in scena, dalla singola inquadratura al movimento di macchina passando per l'uso delle luci (è il regista stesso a firmare, per la prima volta nella sua carriera, la fotografia, al posto del fido Emmanuel Lubezki) finisce per affossare l'emozione: le immagini sono bellissime e al contempo fredde. Il dolore di Cleo e Sofia, le loro piccole gioie, le paure e speranze non filtrano a dovere verso lo spettatore, che per 135 minuti assiste inerte al loro dramma senza mai sussultare, commuoversi o ridere. Non ci si riesce davvero ad appassionare ad un'opera dove la forma sembra contare molto più della sostanza, dove ogni emozione viene controllata, lasciata sempre scorrere sottopelle anche quando dovrebbe deflagrare, senza, per questo, mai riuscire a smuovere quanto dovrebbe.



E se per Cuaròn questi sono ricordi, per il pubblico non possono che essere immagini nel senso peggiore del termine: pura forma astratta, bella nella sua sinuosità, ma del tutto incapace di comunicare qualcosa di vivo e pulsante.

sabato 8 dicembre 2018

Il Grande Silenzio

di Sergio Corbucci.

con: Jean-Louis Trintignant, Klaus Kinski, Vonetta McGee, Frank Wolff, Mario Brega, Luigi Pistilli, Marisa Merlini.

Spaghetti Western

Italia 1968
















Un mondo gelido, cristallizzato nella neve cangiante di Cortina, ideale body-double dello Utah, dove si muove un'umanità regredita allo stato bestiale. Se "Django" era stato il film della svolta nell'ambito dello spaghetti-western, dove la violenza diveniva quasi tangibile, esagerata sino ai limiti del grottesco, con "Il Grande Silenzio" Corbucci crea una sorta di anti-western, dove tutto viene estremizzato, sino a creare qualcosa di originale e ad un passo dal crepuscolare.



Al bando i terreni bruciati dal sole, a fare da sfondo alla vicenda è la neve perenne nel nord degli Stati Uniti; giganteschi paesaggi innevati in cui i personaggi quasi si perdono nell'immensità del bianco. Ribaltamento geografico che porta con sé anche il totale rovesciamento dei ruoli "classici" dello spaghetti western. Il periodo storico in cui viene ambientata la storia, per una volta, è essenziale e ben definito: la fine del XIX secolo, gli ultimi ruggiti del far west, con la civilizzazione che spazza via la barbarie di quella terra una volta culla di pionieri e idealisti.
Una civiltà che, come nel cinema di Peckinpah, porta con sé solo una violenza ancora più feroce e codarda, votata a schiacciare chiunque non si conformi; ecco dunque che i bandidos che vivono al di fuori della città, asserragliati sulle montagne, non sono più dei sanguinari briganti, ma un manipolo di poveracci, composto più che altro da vecchi e perdenti. Nell'urbe, il potere viene detenuto da un vero e proprio signorotto, un banchiere che si diverte a distruggere il prossimo offrendo ricche taglie ai bounty killer, quanto mai spietati e assetati di denaro. Tra questi, il peggiore è il Tigrero, un Klaus Kinski mai così mellifluo e sadico, la cui compostezza cela a dovere una natura vorace, la cui sete per il denaro viene perorata dalla sete di sangue. In mezzo, c'è lui, il canonico "pistolero senza nome" venuto per fare giustizia, Silenzio, assassino prezzolato muto ma non meno feroce dei tanti aguzzini che sguazzano nella neve.



I due stereotipi, tipicamente leoniani, del pistolero solitario e del villain sadico vengono riscritti: il primo è una vittima che si è fatto carnefice, assassino di assassini la cui indole violenta viene mitigata soltanto da una forma di idealismo dettata dal ruolo che di volta in volta ha negli eventi, quasi sempre quello di "giustiziere" chiamato a riaddrizzare i torti subiti; un "duro" che ha il volto dolente e che porta sul suo corpo le cicatrici del passato, chiuso in un mutismo che non ne accentua la presenza, ma che al contrario quasi ne ridimensiona il ruolo su schermo. Da qui anche la decisione di farlo impersonare a quel Jean-Louis Trintignat che si cimenta praticamente per la prima volta con il cinema di genere.
Il cattivo, d'altro canto, non è sadico per il gusto di esserlo, né un folle privo di intelletto, più semplicemente è un figlio dei propri tempi, avvantaggiato dalla possibilità di poter lucrare tramite la morte altrui; mestiere che porta avanti con zelo ed arguzia. Da manuale l'interpretazione di Kinski, che nasconde la sua usuale carica folle sotto una compostezza sottilmente inquietante.
La figura del cacciatore di taglie, dell'assassino legalizzato che agisce per avarizia, contrapposta a quella del pistolero idealista, permette a Corbucci di creare un affondo alle istituzioni, in quel '68 dove la politica aveva già colorato i territori del western con "Quén Sabe?" e che qui resta come traccia sottopelle all'intera vicenda.



Se la violenza di "Django" era urlata e iperrealistica, quella de "Il Grande Silenzio" è più sadica, più dolorosa anche per chi osserva: c'è una forma di vero sadismo implicito a quelle immagini in cui i pollici vengono fatti saltare dalle pallottole, le mani abbrustolite, i volti sfigurati dai carboni ardenti. Una violenza figlia di un mondo ormai allo sbando, dove la voracità del profitto ha fatto regredire gli uomini a belve pronte a scannarsi a vicenda pur di intascare la tanto agognata taglia.
In un mondo del genere, dove il sistema retribuisce degli assassini per fare una giustizia sommaria, non c'è spazio per i deboli, ma neanche per i "buoni", per coloro che cedono alla propria umanità. Da qui il massacro finale, con il trionfo definitivo del "male", del sistema del profitto su tutto e tutti, in un duello che è coreografato come un'esecuzione, al pari della carneficina finale del quasi coevo "Il Mucchio Selvaggio".



Ne consegue un'originalità estrema, appaiata da uno stile di regia mai così moderno. Gli esterni innevati, d'altro canto, non permettevano l'uso di più ciak per una medesima scena. Corbucci dovette così adattarsi usando più macchine da presa e dirigendo il tutto al montaggio. Le scene divengono così spezzate, ma anche dinamiche, ritmate da una cadenza inusuale per uno spaghetti western.



E "inusuale" è forse il termine più adatto per un vero e proprio capo d'opera. "Il Grande Silenzio" è un western che getta via ogni convenzione per imporsi come una delle opere più originali di una stagione cinematografica che ha fatto della ripetizione ad oltranza dei cliché il suo stile. Da qui la sua freschezza anche a cinquant'anni dalla sua uscita in sala.

domenica 2 dicembre 2018

Bohemian Rhapsody

di Bryan Singer e Dexter Fletcher.

con: Rami Malek, Gwylin Lee, Lucy Boynton, Ben Hardy, Jospeh Mazzell, Aidan Gillan, Mike Myers, Allen Leech, Tom Hollander.

Biografico

Inghilterra, Usa 2018
















Non è stato facile portare i Queen sul grande schermo. Non tanto per una presunta incompatibilità tra la loro musica ed il cinema: basti ricordare come l'album del rilancio, "A Kind of Magic" del 1986, altro non fosse che una OST del cult "Highlander- L'Ultimo Immortale". Il vero problema, che ha lasciato nel limbo produttivo questo "Bohemian Rhapsody" per quasi 10 anni, è stata l'ingerenza di Brian May e Roger Taylor, perennemente scontenti delle visioni di registi, sceneggiatori e finanche attori, che ha causato persino l'allontanamento di Sacha Baron Cohen dal progetto. Una visione, quella dei due Queen, che inizialmente non teneva neanche in conto la figura di Freddie Mercury, il quale sarebbe dovuto morire addirittura a metà film, per poi lasciare spazio all'elaborazione del lutto da parte della band.
Un progetto che, sulla scarta, sembra sbagliato più che altro. Certo è che sarebbe stato comunque più interessante del prodotto finito, il quale altro non è se non il più convenzionale dei biopic, che arriva finanche a piegare la realtà dei fatti per inseguire una drammaticità sin troppo insistita e a tratti persino codarda.



Ci sono davvero tutti i luoghi comuni del biopic "tipo" in questo exploit; la storia segue la rotta preimpostata da centinaia di altri progetti simili: le umili origini della band e del loro frontman, il conflitto tra Mercury e la famiglia, il successo, la scoperta dell'omosessualità, la caduta in disgrazia e il successivo ritorno alla ribalta con finalone lieto e trionfante. 15 anni di storia dei Queen ridotti all'osso e reimpastati alla bene e meglio per seguire un copione già scritto mille altre volte. Il genio di Mercury e May viene relegato alle prove generali delle varie hit, dove la band viene descritta come una famiglia vera e propria, sempre unita ed affiatata, senza sottolineare davvero l'apporto essenziale che ciascun membro ha dato al gruppo: si glissa prepotentemente persino sulla storica ed estenuante sessione di registrazione della stessa "Bohemian Rhapsody", ridatta, giusto ad un paio di gag, con la conseguenza che il genio musicale del gruppo e la loro incredibile capacità di mischiare generi musicali ed influenze non traspare mai.



Ancora peggio è il lavoro svolto sulla descrizione del Mercury-uomo, della persona fragile eppure energica che viveva al di fuori del palco. Sebbene Rami Malek somigli parecchio al vero Freddie Mercury, ne sappia replicare a dovere i movimenti e le espressioni facciali (benché abbia un fisico visibilmente più emaciato rispetto all'originale), il suo personaggio altro non è che una macchietta, uno showman dedito agli eccessi e ad una forma di autodistruzione nemmeno poi tanto sconvolgente.
Il che, per quello che fu il vero Freddie Mercury, è ai limiti del canzonatorio.



Non c'era una vera vena autodistruttiva in Mercury, quanto la costante ricerca di un piacere scaturito dalla mancanza di vero affetto. Il suo amore per Mary Austin e quello per il suo ultimo compagno, Jim Hutton (qui ritratto come un cameriere e figura salvifica) nel film fagocita le relazioni che ebbe, nella realtà, con altri partner, inseguiti non tanto per smania erotica, quanto per sconfiggere la solitudine che lo attanagliava, la quale viene data sempre per scontata.
Paradosso puro risiede nel fatto che, nonostante l'insistita voglia di sottolinearne gli eccessi, le famose e faraoniche feste del gruppo e i veri eccessi di Mercury non vengono neanche ritratti con la necessaria efficacia: davvero poca cosa è quella festicciola che ad un certo punto il Mercury di Singer e Malek indice in casa sua, dove i famosi freaks, le supermodelle, i giovani di bell'aspetto e le attrici porno restano timidi sullo sfondo.
Ad urtare e spiazzare, semmai, è la rappresentazione dell'omosessualità del protagonista vista quasi come una maledizione, con i passaggi più drammatici della sua vita e carriera enfatizzati dalle sue camminate nei gay club o nei bagni delle stazioni di servizio.



Come se non bastasse, la ricerca dell'effetto drammatico porta persino a riscrivere la storia del gruppo e delle dinamiche al suo interno. L'allontanamento di Freddie nel secondo atto per inseguire la carriera da solista, con conseguente arrabbiatura di May e Taylor, è il classico cliché utile a portare il protagonista a venire a patti con sé stesso; e sarebbe una trovata innocua, se non fosse che gli stessi May e Taylor, nella realtà, avevano prodotto un album da solisti ben prima di Mercury ("Starfleet Project" del 1983), che Mercury non ha mai litigato con la band e, anzi, nel 1984 erano tutti impegnati nel controverso "The Works Tour" e che, in sostanza, la performance al Live Aid di Bob Geldof del 1985 non è mai stata una reunion del gruppo.
Vien da chiedersi perché invece non si sia deciso di sottolineare la mancanza di ispirazione che tra il 1982 e il 1985 colpì band, con album come "The Works" e "Hot Space" che, nonostante le vendite al solito esorbitanti, erano sottotono rispetto al resto dei loro lavori; il rilancio effettivo del gruppo, da un punto di vista musicale, sarebbe arrivato nel 1986 con il già citato "A Kind of Magic" ed il successo del conseguente "Magical Mystery Tour" sarebbe stato un lieto fine decisamente più veritiero.
Più facile è stato invece usare la contrazione del HIV come pretesto drammatico per il terzo atto, la notizia della stessa come collante per far riunire la band, piegando nuovamente i fatti (la malattia fu diagnosticata a Mercury solo nel 1987) per creare un affetto drammatico artificioso e sterile.



Cosa resta dunque alla fine di "Bohemian Rhapsody"? Poco o nulla. Di certo vanno lodate le prove degli attori ed il loro lavoro di mimesi verso le controparti reali. Ed è impossibile non muoversi a tempo ogni volta che un pezzo dei Queen viene suonato durante il film, ma queste sono d'altronde ovvietà. Resta, quindi, un biopic convenzionale e malriuscito, dal quale è impossibile cogliere l'effettiva portata della grandezza di una rock band mai troppo lodata.




EXTRA 

Piccolo e gustoso "inside joke" per Mike Myers che, vestendo i panni del boss della EMI Ray Foster, esclama come "Bohemian Rhapsody" non sia il tipo di canzone che fa "scuotere la testa degli adolescenti al volante della loro auto".



In "Wayne's World", che lo rese celebre, Myers e soci sono impegnati a scatenarsi sulle note del capolavoro di Mercury e soci mentre attraversano la città in auto.