lunedì 17 dicembre 2018

Roma

di Alfonso Cuaròn.

con: Yalitza Aparicio, Marina de Tavira, Diego Cortina Autrey, Carlos Peralta, Marco Graf, Daniela Demesa, Nancy Garcia, Veronica Garcia.

Drammatico

Messico, Usa 2018

















Un film dovuto, forse, questo "Roma"; o, più semplicemente "doveroso", per Cuaròn. Un ritorno ad un cinema più piccolo, più a misura di persona, dopo il pluripremiato exploit di "Gravity", in una forma di cinema ad esso speculare: laddove lì erano gli effetti speciali a dominare e con essi, in un modo o nell'altro, uno sguardo rivolto costantemente al futuro (non per nulla il leitmotiv era la sopravvivenza), qui è il passato ad essere protagonista. Un passato che ha le forme di un bianco e nero che è messa in scena del ricordo, ossia la più personale delle esperienze.
E il ricordo di Cuaròn è quello del biennio 1970-1971, nel quartiere di Roma, Città del Messico, dove le vicende di una ordinaria famiglia borghese vengono appaiate a quella della servitù, tramite il punto di vista del personaggio di Cleo.




Due storie parallele, che si intrecciano sino a trovare un'unica catarsi. Da un lato la crisi familiare della sig.ra Sofia, la padrona di casa e madre di famiglia, piantata in asso dal marito medico di punto in bianco; dall'altro quella di Cleo, giovane donna messa incinta da un disadattato e scaricata per correre in seno alla guerriglia di estrema destra. In entrambe, un denominatore comune, quello di un uomo che abbandona le proprie responsabilità generando il dolore. Dolore personale che si associa a quello collettivo, dato dalle contestazioni dei primi anni '70: laddove i personaggi sanguinano, con loro lo fa un'intera nazione.



Il ricordo personale si confonde così con quello collettivo; il racconto si fa fluido, non ancorato allo schematismo proprio delle convenzioni; il tema dell'acqua, da sempre simbolo prediletto del regista messicano, diviene ideale sostanza di una messa in scena dove il centro dell'attenzione non è mai dato dal singolo personaggio, né dalla singola emozione, quanto per una collettività che si fa associazione di suoni, immagini e movimenti. La costruzione della scena si fa di conseguenza dinamica: ad una ricerca della profondità visiva quasi spasmodica, si associa un gusto per la panoramica laterale (sopratutto verso sinistra) che permette alla macchina da presa di immergere il personaggio nella situazione, senza escluderlo mai dalla stessa.



Allo stesso modo, Cuaròn alterna momenti di gioia ad altri di pura drammaticità: il Capodanno seguito dall'incendio nel bosco, la lezione di arti marziali che sfocia nell'abbandono definitivo, la corsa verso il cinema che culmina nell'incontro casuale con quella figura paterna in fuga; nonché il climax, dove alla tragedia sfiorata segue un momento di tranquillità ed è seguita da una presa di coscienza definitiva da parte di Cleo che la porterà a superare le perdite subite.
Il punto di riferimento cinematografico, meno esplicito di quanto si possa immaginare, è il Neorealismo italiano, con la distruzione della scrittura canonica e l'attenzione sublime per la messa in scena.



Ma, laddove la storia in sé risulta convincente, lo è molto meno il racconto. L'ossessione per la perfezione della messa in scena, dalla singola inquadratura al movimento di macchina passando per l'uso delle luci (è il regista stesso a firmare, per la prima volta nella sua carriera, la fotografia, al posto del fido Emmanuel Lubezki) finisce per affossare l'emozione: le immagini sono bellissime e al contempo fredde. Il dolore di Cleo e Sofia, le loro piccole gioie, le paure e speranze non filtrano a dovere verso lo spettatore, che per 135 minuti assiste inerte al loro dramma senza mai sussultare, commuoversi o ridere. Non ci si riesce davvero ad appassionare ad un'opera dove la forma sembra contare molto più della sostanza, dove ogni emozione viene controllata, lasciata sempre scorrere sottopelle anche quando dovrebbe deflagrare, senza, per questo, mai riuscire a smuovere quanto dovrebbe.



E se per Cuaròn questi sono ricordi, per il pubblico non possono che essere immagini nel senso peggiore del termine: pura forma astratta, bella nella sua sinuosità, ma del tutto incapace di comunicare qualcosa di vivo e pulsante.

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