giovedì 31 gennaio 2019

Glass

di M.Night Shyamalan.

con: James McAvoy, Bruce Willis, Samuel L.Jackson, Anya-Taylor Joy, Sarah Paulson, Spencer Treat Clark.

Usa 2019



















Un universo strano, quello del cinema di Shyamalan, dove coesistono due estremi, quello della spettacolarità pura e il suo opposto, ossia la perfetta de-costruzione di ogni forma di spettacolarizzazione. Un universo condiviso che fa il verso a quello della Marvel Studios, adagiandosi sui cliché più noti del cinema di supereroi, ossia scene post-credit, scontri spettacolari tra personaggi titanici, caratterizzazioni archetipiche quando non smaccatamente (ma sempre volutamente) stereotipate; dove però questi cliché vengono puntualmente e gustosamente fatti a pezzi, passati in un ideale tritacarne filmico che ne demolisce ogni portata per creare una forma narrativa nuova, quasi un nuovo genere all'interno del filone. E "Glass" non è che la perfetta quadratura di quest'idea di cinema squisitamente anti-spettacolare, dove allo scontro fisico si predilige quello identitario.
Un cinema che nasce dalle ceneri del blockbuster puro, dall'abuso sistematico di CGI e trame inutilmente involute; quel cinema che Shyamalan aveva tentato di far suo con "L'Ultimo Dominatore dell'Aria" e "After Earth", fallendo miseramente; da qui la reazione, il ritorno a quella dimensione più intima di "Unbreakable", più vicina ai personaggi piuttosto che alle loro azioni e, di conseguenza, più teorica. Una dimensione che de-mitizza il concetto stesso di supereroe, portandone alla luce, per paradosso puro, la dimensione genuinamente mitologica, per poi iscriverla in un contesto di pura verosomiglianza, al confronto della quale anche la trilogia del "Cavaliere Oscuro" nolaniana sembra fantascienza allo stato puro.




Non per nulla, "Glass" si apre con un'ideale chiusura, lo scontro tra l'eroe e il villain annunciato in "Split", solo per deviare immediatamente verso un territorio altro, un luogo chiuso (l'ospedale psichiatrico) nel quale i due, assieme al "mastermind" Mr.Glass, verranno ridotti a folli, cavie di un ideale laboratorio nel quale il superuomo non trova la sua origin-story, quanto la sua ideale morte.
Da qui anche l'idea della telecamera di sicurezza, quell'occhio "altro" rispetto alla macchina da presa, chiamato ad investigare il reale: laddove la macchina da presa è l'occhio del regista, quindi dell'autore che proietta nell'opera una sua visione che, per forza di cose, è fantasia, la camera è un puro occhio indagatore del reale, che si limita ad assistere passivamente al dipanarsi degli eventi. Ma più che giocare sulla dicotomia vero/immaginario, Shyamalan preferisce focalizzarsi sui tre personaggi, insieme opposti e complementari come l'idea di cinema che porta avanti.




Un eroe senza macchia e senza paura, indistruttibile, fisso in un'espressione di granitica bontà; un cattivo che è pura frantumazione, distruzione di quell'unità identitaria che diviene a sua volta forma identitaria perfetta nella continua dissociazione del sé, fino a trovare un'identità definitiva nella "bestia", ossia nel male puro; un demiurgo che è villain onnisciente, quasi creatore palesatosi nel suo stesso mondo. Lo scontro tra i tre è il punto focale, ma resta fuori scena per quasi tutto il film; e quando arriva, non è roboante e apocalittico come da tradizione, bensì piccolo, quasi innocuo.
Shyamalan preferisce focalizzarsi su di un altro scontro, quello tra i superuomini e i "normali", tra coloro che dovrebbero ispirare gli uomini e questi ultimi, i quali preferiscono sopravvivere come mediocri. Lasciando però l'ultima parola a quel trio di affetti/spettatori, i quali decidono l'ultimo atto della storia, prendono in mano le redini del raccontano e lo portano ad un finale che ri-crea quello stesso mondo in cui tutto è cominciato.




Una de-spettacolarizzazione, la sua, che però non è mai pernacchia, quanto lettera d'amore sentita e orgogliosa verso un universo cartaceo la cui forma archetipica per una volta viene riconosciuta in pieno; e che si fa così omaggio intelligente, imperfetto (troppo lungo e a tratti ridondante) ma lo stesso incredibilmente coeso e affascinante.

venerdì 25 gennaio 2019

Van Gogh- Sulla Soglia dell'Eternità

At Eternity's Gate

di Julian Schnabel.

con: Willem Dafoe, Rupert Friend, Oscar Isaac, Mads Mikkelsen, Mathieu Amalric, Emanuelle Seigner, Niels Arestrup, Vincent Perez.

Svizzera, Inghilterra, Francia, Usa, Irlanda 2018

















Otto anni di silenzio, per Julian Schnabel; otto anni passati lontano dalla macchina da presa dopo che il controverso "Miral" ha suscitato reazioni contrastanti, talvolta inviperite, a Venezia. Una parentesi silenziosa rotta con quello che potrebbe essere un ritorno alle origini per lui che, ventidue anni fa, esordì con la biografia di un altro artista, "Basquiat", e che ora si confronta con una delle figure più importanti della pittura, Van Gogh. Ma definire "At Eternity's Gate" come una biografia sarebbe sbagliato; in questo Schnabel è chiaro sin dall'inizio: non c'è una vera cronistoria dell'uomo dietro il pittore, né una ricostruzione filologica della sua vita, in un racconto che, anzi, si distanzia palesemente dal vero nel finale. Quello di Schnabel è semmai un ritratto vero e proprio, la ricostruzione di una porzione della biografia del genio fiammingo che ne vuole restituire i tormentati stati d'animo, riflettendo al contempo sul concetto (o sui concetti) di arte. E lo fa adoperando uno stile volutamente contraddittorio, ma efficace.



C'è una tensione costante, che percorre tutto il film, quella del protagonista verso l'infinito. Una concezione dell'eternità come stato successivo e altro rispetto alla propria esistenza. E così come Van Gogh creava i suoi dipinti con pennellate rapide e decise, Schnabel porta in scena tale tensione con movimenti di macchina nervosi, quasi brutali, perfetta espressione del febbrile stato d'animo del personaggio. Il punto di vista diviene a tratti quello dello stesso Van Gogh, con soggettive parzialmente sfocate (come avveniva ne "Lo Scafandro e la Farfalla") a testimoniarne la visione "altra" rispetto al reale; più spesso, la regia prende per mano lo spettatore e si fa testimone invisibile dei gesti del pittore, come a spiarlo nella propria intimità. Si arriva così ad un contatto pieno e totale con il narrato, dove le sole immagini riescono perfettamente a convogliarne impressioni e sensazioni.



Alle immagini oniriche, quasi surreali, vengono contrapposte intense sessioni dialogiche nelle quali, confrontandosi dapprima con Gauguin, poi con altri personaggi minori, Van Gogh diviene lo strumento di Schnabel per intessere una fitta riflessione sul concetto di arte. A cui consegue un didascalismo dalla forte staticità che stride, volutamente, con la dinamicità della pura contemplazione, per creare un racconto volutamente sincopato, quasi cacofonico nel suo incedere. Ed è questo il vero limite di una visione che altrimenti riesce con efficacia a portare in scena sensazioni e sentimenti solitamente difficili da rappresentare.



Visione dalla quale emerge un Van Gogh sensibile e stanco, lontano in parte dalla classica rappresentazione di burbero esteta che solitamente viene propinata. Un pittore schiavo della sua stessa forza d'animo, la quale, tesa com'è verso la costante ricerca dell'infinito, genera una debolezza di carattere per lui insostenibile. Debolezza che Willem Dafoe riesce perfettamente a cogliere tramite sguardi trasognati e sorrisi dolorosi, immergendosi al solito totalmente nel personaggio, con una mimesi come sempre straordinaria, limitata unicamente dalla differenza anagrafica con la sua controparte.



Stretto tra riflessione e contemplazione, pura immagine e fluente dialogo, "At Eternity's Gate" è un'opera densa e scostante, profonda ma a tratti leggermente pretenziosa, che vive di contraddizioni e contrapposizioni, riuscendo però ad essere sempre riuscita.

sabato 19 gennaio 2019

Vice- L'Uomo nell'Ombra

Vice

di Adam McKay.

con: Christian Bale, Amy Adams, Sam Rockwell, Steve Carell, Eddie Marsan, Allison Pill, Tyler Perry, LisaGay Hamilton, Jesse Plemons.

Biografico

Usa 2018














C'è un interrogativo sotteso a tutto "Vice", inespresso e senza risposta, per questo doppiamente inquietante: perché Dick Chaney insegue così ostinatamente il potere assoluto? Perché questo politicante, che definire "controverso" sarebbe a dir poco eufemistico, vuole diventare, nelle parole dello stesso McKay, un "divoratore di mondi"?
E' proprio questo uno degli aspetti più sorprendenti di "Vice", ossia il voler descrivere la carriera cinquantennale del perfetto burattinaio della politica americana, senza voler mai davvero dare un giudizio netto verso di lui.
McKay, dal canto suo, usa uno stile al sempre acido e irriverente, quello di una vera e propria pernacchia verso il potere. Adopera come punto di vista quello di un uomo qualunque, chiamato senza apparente motivo (almeno inizialmente) a raccontare una storia dalla quale dista centinaia di miglia, saldamente arroccata com'è nei palazzi del potere americano, la quale, per forza di cosa, appare incredibile, lontana anni luce da ogni possibile logica.



Il Dick Chaney al centro del racconto è ritratto con impietosa rigidità: un fallito, un alcolizzato proveniente da uno degli stati più remoti del Nordamerica (il Wyoming), il cui unico ruolo apparente è quello di essere il biglietto di ingresso nella società degli uomini per l'ambiziosa moglie Lynne (Amy Adams), la cui forte ambizione la eleva al di sopra del classico ruolo di "Lady MacBeth" a vera e propria figura formativa per Chaney. Il quale si ritrova, forse senza neanche sapere il perché, come lacchè di quel Donald Rumsfeld (Steve Carell) che a sua volta diverrà suo sottoposto.
Un uomo qualunque, anzi uno "stronzo" (sempre parole di McKay) che si ritrova nei corridoi del potere di Nixon, solo per poi divenire uomo di punta dell'amministrazione Reagan in primis, di Bush padre in secondo luogo.
E come scherzosamente suggerito, il film potrebbe finire qui, potrebbe chiudersi con un Chaney che si ritira a vita privata, come CEO della compagnia petrolifera Halliburton e buon padre di famiglia, se non fosse stato per l'ingerenza di un George W.Bush (un Sam Rockwell la cui mimesi fa a gara con quella di Bale) che, per distanziarsi dal padre, decide di gareggiare per la Casa Bianca con Chaney come vice, aprendogli la possibilità di divenire davvero l'uomo più potente del mondo.



Un Dick Chaney che Christian Bale ritrae per il tramite di una metamorfosi fisica al solito sconvolgente, ma senza mai eccedere nell'overacting, restando sempre clamorosamente tra le righe, anche quando il contesto narrativo oltrepassa i limiti del grottesco.
Un grottesco che rappresenta null'altro che la realizzazione dell'anarchia del potere: non c'è un'idea guida alla base delle azioni dei personaggi, tant'è che quando un giovane Chaney chiede al mentore Rumsfeld in cosa loro credano davvero, riceve come unica risposta una fragorosa risata. Persino i valori fondamentali solitamente accostati alla destra americana di "Dio, patria e famiglia" vengono gettati fuori dal finestrino: benché Chaney sia un pio padre di famiglia al punto di accettare tranquillamente l'omosessualità della figlia maggiore, non arriva mai ad adoperare il valore familiare come portabandiera della sua stessa politica.
McKay si diverte a polverizzare costantemente la quarta parete, a chiamare in causa continuamente lo spettatore, quasi ad interrogarlo su quanto assiste; come nella scena post-credit, dove immagina la reazione di un gruppo d'ascolto che vede una possibile sovrapposizione tra il passato recente americano ed il presente di Trump, con tanto di disinteresse della "massa", distratta dalle quisquilie di turno. Bisogna quindi chiedersi sempre il perché delle azioni del protagonista, anche quando sembrano chiare e cristalline.



Poiché sarebbe facile liquidare la cattiva politica di questo supremo manipolatore come una sorta di "lunga mano" della lobby petrolifera (la quale, come il film ci ricorda alla fine, vede un incremento del 500% del valore delle proprie azioni grazie alla campagna militare in Iraq) o, ancora, come una semplice forma di colonialismo spinto dal clima di terrore post-11 Settembre. Politica che ha portato alla morte di migliaia di soldati americani, altrettanti civili e all'ascesa dell'Isis e del suo leader Al-Zarquawi, praticamente creato ad hoc dai vertici del potere americano. Ma McKay decide saggiamente di andare oltre la semplice speculazione, ritraendo la follia del potere in modo vivido e selvaggio, per questo incredibilmente grottesco, quasi ridicolo nelle proprie azioni sconsiderate (benché il tono nella seconda parte si faccia decisamente più serio). Una realtà talmente folle da poter essere descritta con efficacia solo tramite un registro altrettanto grottesco, il quale finisce inevitabilmente per raggiungere il suo scopo: gelare il sangue di chiunque sia assennato.



Si assiste così impietriti alle azioni del burattinaio dell'era Bush, si è sconvolti dalla sua sconsideratezza, dalla sua scaltra capacità di riuscire a convincere chiunque a compiere le azioni più folli e prive di senso, tutte rigorosamente documentate. Tanto che, alla fine, sembra quasi di essere dinanzi ad un vero e proprio docu-drama in cui gli attori sono mere controfigure dei personaggi reali.
McKay crea così una perfetta commedia sul potere, dove però non si ride mai, anzi si vorrebbe quasi gridare dalla paura. Un film che fa a pezzi ogni possibile struttura narrativa canonica nella scrittura, gioca costantemente con i ruoli dei personaggi e i conseguenti registri narrativi, per creare un affresco spaventoso, ma sempre, rigorosamente, verosimile.

lunedì 14 gennaio 2019

Aquaman

di James Wan.

con: Jason Momoa, Amber Heard, Patrick Wilson, Nicole Kidman, Willem Dafoe, Dolph Lundgren, Yahya Abdul-Mateen II, Temuera Morrison, Graham McTavish.

Azione, Fantastico, Supereroistico

Usa, Australia 2018















E' opinione consolidata quella secondo cui Aquaman sia il supereroe più "sfigato" mai esistito. A cosa sia davvero dovuta tale nomea, non è dato saperlo. Forse a causa della sua descrizione nel vecchio cartoon sui "Super Amici", dove il simpatico uomo marino veniva dipinto come un gagliardo supertipo i cui poteri erano limitati al parlare con i pesci e a cavalcare qualche ippocampo. Più probabile si tratti di una sorta di archetipo nato dalla gag di Seth McFarlane secondo cui, fuori dall'acqua, il principe di Atlantide sarebbe sprovvisto di poteri, in un mondo dove vivono alieni antropomorfi dallo status divino, principesse amazzoni e velocisti scarlatti.
Si tratta, a ben vedere, di una pura gag, che induce al sorriso e talvolta alla risata di gusto (non si può certo negare la riuscita dello sketch di "Family Guy" in cui il biondo paladino dei mari non riesce a salvare una donna da uno stupro che avviene a giusto qualche metro dall'acqua), ma che non ha davvero corrispettivi all'interno della mitologia di un personaggio che, benché poco conosciuto dal grande pubblico, può vantare una carriera editoriale di tutto rispetto.



Nato durante la Golden Age dei comics USA, Aquaman esordisce nel 1941 su "More Fun Comics" e durante la sua carriera la sua origine verrà riconcepita più volte, come accaduto anche a Wonder Woman. Ben quattro sono infatti le varianti sulla sua nascita e la sua natura; nella primissima, Arthur Curry è il figlio di uno scienziato che ha scoperto le rovine di Atlantide e che gli ha insegnato a respirare sott'acqua e a comunicare con la fauna ittica. Una prima incarnazione che accompagna il personaggio per tutta la golden age, in avventure al solito solari e disimpegnate.
Ma con la Silver Age le cose cambiano; Arthur diviene il figlio di un guardiano di un faro e di una donna di origini atlantidee, dalla quale eredita i suoi superpoteri, tra i quali una forza fuori dal comune e la capacità di volare. Le sue avventure, benché sempre disimpegnate e rocambolesche, si fanno a tratti cupe e drammatiche: non è certo cosa di tutti i giorni vedere un supereroe piangere la morte del figlioletto per mano di un supervillain, né affrontare la conseguente crisi esistenziale. Questa seconda incarnazione del Protettore dei Mari anticipa in gran parte quelle che saranno le tematiche della Bronze Age dei comics, con storie dal taglio più esistenzialista e serio, benché sempre alternate ad avventure decisamente più digeribili dal pubblico di bambini per il quale sono destinate.



A partire dagli anni '90, Aquaman viene ricreato da Peter David e diviene l'erede al trono di Atlantide; oltre a sfoggiare un nuovo look, decisamente meno ortodosso rispetto al passato: capello selvaggio, barba da biker e un uncino al posto della mano sinistra, persa durante uno scontro contro Ocean Master, suo principale antagonista nonché fratellastro.
Ed è proprio questa incarnazione, più ruvida e selvaggia, a dare nuovo lustro al personaggio; sarà questo Aquaman a trovare la strada del grande schermo, prima in un cameo in "Batman v. Superman: Dawn of Justice" e poi in "Justice League"; ed il perché è presto detto: è stato decisamente semplice vendere al pubblico un Aquaman statuario ed affascinante, un "cattivo ragazzo" che ha il volto del Khal Drogo di "Game of Thrones" per la gioia di tutte le spettatrici. E d'altro canto, si può anche intuire il perché: era necessario restituire un'immagine credibile ad un personaggio divenuto una barzelletta nel sentire comune; la scelta di Momoa e della visione di Peter David appaiono quindi logiche, quasi scontate laddove si tenga conto anche del ruolo di "rude macho" che il personaggio ha ricoperto nell'ensamble del film sulla Justice League.




E nonostante il flop della sua prima comparsa su schermo, la Warner ha deciso lo stesso di dedicare  un film in solitaria al muscoloso uomo-pesce di Momoa, affidando la regia a James Wan, scelta al solito curiosa se tiene conto del suo background di artigiano del horror. Una vera e propria scommessa, quella di creare un blockbuster con al centro un personaggio poco conosciuto e sopratutto poco amato; che, nella migliore delle tradizioni, si è rivelata vincente, sbancando al botteghino di mezzo mondo. Peccato però che il film in sé sia poco più di una baracconata kitsch.




Più che una storia d'origini, quella di "Aquaman" è un'avventura a 360 gradi con protagonista il fascinoso Momoa, affiancato da una Amber Heard forse mai così bella, nonostante il look da cosplayer. Lo scheletro è quello del classico "cammino dell'eroe", ricalcato esplicitamente sul Mito Arturiano: Arthur prende il suo nome da Re Artù e deve estrarre un tridente da una roccia per poter governare sui popoli sottomarini. Trama basilare, condita da tutti i luoghi comuni possibili ed immaginabili.
C'è la love-story forzata di turno, un cattivo dalla statura che si vorrebbe machiavellica, ossia Ocean Master, fratellastro di Arthur, che decide di muovere guerra alla superficie perché stanco dell'inquinamento dei mari; c'è la ricerca del McGuffin, che porta Arthur e Mera in un giro del mondo che ricorda tanto le avventure di Indiana Jones e simili; ci sono i flashback sulla gioventù del protagonista e il suo addestramento da eroe, che sembrano ricalcati su "Highlander"; c'è un secondo villain, Black Mantha, che ha giurato vendetta; ci sono i duelli all'arma bianca in un novello thunderdome subacqueo, l'azione fracassona e l'umorismo stupidello, con tanto di gag su gabinetti e minzioni; c'è persino un inserto horror, che ci ricorda le origini di Wan. Insomma, in due ore e mezza, di carne al fuoco c'è ne è davvero per tutti i gusti.



Di tutte queste intuizioni e situazioni, nulla eccelle per davvero. La storia è fin troppo trita per essere davvero coinvolgente, anzi i risvolti più interessanti (la morale ecologista, il senso di colpa di Arthur per aver ucciso il padre di Black Mantha) vengono costantemente lasciati fuori scena, come se si avesse paura di dare al pubblico qualcosa che sia di più del puro intrattenimento gratuito. Si assiste così al dipanarsi di una trama che finisce inevitabilmente per ricordare quella di "Black Panther", solo a termini invertiti.
Per rendere il tutto interessante, si è così deciso di calcare la mano sull'umorismo e la componente spettacolare. Il primo, inutile sottolinearlo, è di grana grossissima, basato su battutacce che ironizzano sulle situazioni, ma che aiutano davvero a non prendere troppo sul serio quella che è, in fin dei conti, una parata di luoghi comuni ammantata da un'estetica che sulla carta dovrebbe essere ridicola, con personaggi bardati in armature d'oro stile "Cavalieri dello Zodiaco" che cavalcano ippocampi giganti mentre combattono contro uomini-granchio. La coscienza di trovarsi di fronte ad uno spettacolo volutamente sopra le righe e privo di vera consistenza, per una volta riesce a rendere il tutto digeribile e non irritante, cosa che invece spesso non accade in operazioni simili (basti vedere altri kolossal pomposi ed inconsistenti, come "Pan" o "Jupiter Ascending"). Mentre la grandiosità visiva, l'uso di colori e forme impossibili, appaga davvero i sensi, in un tripudio di estetica pop a metà strada tra "Avatar" e "Tron".



Se quindi da un lato c'è la volontà di creare di più di una semplice trasposizione di un supereroe a fumetti, evitando la solita scarnificazione propria dei comic-movie con una storia più varia e movimentata, dall'altra c'è un pieno abbraccio di tutti i luoghi comuni del cinema d'avventura e di intrattenimento, ammantato solo da un umorismo ai limiti del metareferenziale, che chiede costantemente a chi osserva di ridere con i personaggi, forse perché cosciente dell'assurdità del tutto. Con il risultato di creare quella che è, a conti fatti, nulla più di una simpatica cretinata. Se la si accetta come tale, ci si potrebbe perfino divertire.

sabato 12 gennaio 2019

Old Man & the Gun

The Old Man and the Gun

di David Lowery.

con: Robert Redford, Sissy Spacek, Casey Affleck, Danny Glover, Tom Waits, Tika Sumpter, Ari Elizabeth Johnson, John David Washington., Gene Jones, Keith Carradine, Elizabeth Moss.

Usa 2018
















Quando arriva davvero il tempo della pensione per un grande attore? Si potrebbe anche dire mai; ma non per Robert Redford, che, a 82 anni, ha deciso di non calcare più le scene, ritirarsi a vita privata dopo circa 80 apparizioni tra cinema e televisione. Di sicuro un peccato, se si tiene conto di come, a scapito dell'età anagrafica, il buon Robert non ha di certo perso un grammo della sua presenza scenica.
E' curioso, poi, che a chiudere le danze per la sua esperienza da protagonista sia un film tutto sommato piccolo come "The Old Man & the Gun", un'opera riuscita e ai limiti del celebrativo, ma che di certo non ha più di tante ambizioni dalla sua, se non quella di raccontare una storia (parzialmente) vera decisamente curiosa e di omaggiare la sua star con un ruolo che gli calza a pennello.



Forse solo Redford poteva incarnare il criminale gentiluomo Forrest Tucker, con il suo sorriso sornione, il suo sguardo magnetico e i suoi modi galanti. Tucker è, in un modo o nell'altro, figlio di quella tradizione americana di simpatici antieroi che si danno al crimine per ragioni del tutto personali, quasi condivisibili e che Redford ha già incarnato in passato, come nel mitico "La Stangata".
David Lowery ne ricalca la figura sulla gestualità e la presenza di Redford e lo caratterizza come un attempato ladro gentiluomo, una sorta di moderno Lupin che rapina banche senza mai sfoderare l'arma del titolo e senza mai mettere in soggezione le sue vittime. Un criminale per il quale la rapina non è strumento per vivere ma, parole sue, la vita stessa: un uomo che vive per il brivido dell'illecito, che trova nella sfida all'autorità la sua ragione di vita, quasi una versione attempata di quel "Nick Mano Fredda" che Redford ha sempre voluto interpretare.



Nel raccontarne le rocambolesche ed incredibili gesta, Lowery mischia registri e generi con efficacia. Se da un lato c'è la fascinazione per questo strambo personaggio "bigger than life", dall'altra c'è, sottopelle, una riflessione pacata e mai urgente sulla terza età, su quella fase della vita dove tutti siamo chiamati a confrontarci con le nostre scelte ed aspettative; e senza scadere nella retorica più scontata, il pietismo e la nostalgia vengono sapientemente evitati; al loro posto, c'è una forma di romanticismo guascone verso la "vita spericolata" di Tucker e soci, che pur giunti all'autunno dell'esistenza, hanno pur sempre bisogno di sentirsi vivi.



Al contempo Lowery omaggia il suo stesso totem Redford, ripercorrendone in parte la carriera. Basterebbe da solo quel primo piano estrapolato dal capolavoro di Arthur Penn "La Caccia" per capire il suo approccio al passato: non c'è volontà citazionista compiaciuta, né la pura riproposizione di stilemi e tematiche proprie della New Hollywood, quanto una forma di incorporazione di quei miti e quei registri. Il suo è un lavoro di assimilazione totale che lo porta a non cadere mai nella semplice nostalgia, né nella cinefilia spicciola, quanto a ripercorrere strade già battute in modo del tutto personale, sempre al servizio della narrazione, mai dell'estetica pura e semplice.



Manca, certamente, la volontà di stupire, di creare sequenze davvero adrenaliniche o tese, così come manca davvero la volontà di trasmettere una sensazione di incanto data dai dialoghi, in teoria brillanti. Lowery, da questo punto di vista, si appoggia troppo agli attori e al loro solido lavoro (oltre al monumentale Redford, sono da citare almeno una Sissy Spacek radiosa ed un Tom Waits divertito, oltre che un Casey Affleck letteralmente perso nel suo personaggio), ma riesce lo stesso a creare una pellicola riuscita.

martedì 8 gennaio 2019

Suspiria

di Luca Guadagnino.

con: Dakota Johnson, Tilda Swinton, Mia Goth,  Chloe-Grace Moretz, Malgosia Bela, Angela Winkler, Ingrid Caven, Jessica Harper.

Usa, Italia 2018


















---CONTIENE SPOILER---


Il progetto di un remake di "Suspiria" pare sia nato dalla volontà dello stesso Guadagnino di rimettere mano all'opera di Argento. Benché affidato ad un primo momento a David Gordon Green, che poi ha preferito dedicarsi all'ultimo "Halloween", sembra sia stato proprio il cineasta palermitano ad opzionare i diritti dell'originale dalle mani dello stesso Argento. E, nonostante il suo scarso entusiasmo, si deve proprio a quest'ultimo, in definitiva, il fatto che questo remake abbia visto il buio della sala: se davvero non credeva che fosse il caso di rifare uno dei suoi film più riusciti, tanto valeva non cederne i diritti di sfruttamento in prima istanza, piuttosto che lucrarci sopra solo per poi sparlare del risultato finale.





Ora, sull'originale "Suspiria" è stato detto di tutto, basti ora ribadire che, pur non essendo un film "perfetto", resta un vero e proprio capolavoro del cinema di genere, uno dei massimi apici della poetica argentiana (al pari del solo "Profondo Rosso"), nonché uno degli horror più squisitamente originali, anche non solo sul piano estetico, che si siano mai visti.
Sarebbe bene tenere a mente queste caratteristiche quando ci si approccia al lavoro svolto da Guadagnino. Almeno in prima istanza; se non fosse che il suo "Suspiria" sembra, già ad una prima e superficiale analisi, l'esatto opposto di quello che il film di Argento era: laddove l'originale raccontava una storia purgata da coordinate spazio-temporali precise per farsi fiaba gotica, il remake è saldamente stretto in un tempo e in un luogo precisi, la Berlino del 1977; laddove l'originale giocava con l'atmosfera gotica e folkloristica intessendo un'estetica originale e bizzarra, il remake ha un look livido, quasi naturalista nella sua freddezza; laddove l'originale sacrificava la caratterizzazione interiore dei personaggi sull'altare della pura emozione, il remake intesse intere sottotrame per parlare dell'interiorità dei protagonisti; se l'originale plasmava una fitta atmosfera onirica, il remake a tratti vorrebbe essere (ma non sempre) estremamente verosimile.
Se questo nuovo "Suspiria" fosse stato un semplice "negativo" dell'originale, avrebbe anche avuto una sua ragione d'essere; e, anzi, non ci si potrebbe neanche lamentare più di tanto: sempre meglio avere un remake che non sia la copia-carbone sbiadita dell'originale, che tenti un nuovo approccio alla stessa materia, magari aggiungendo elementi che aiutino a migliore l'originale.
Quello di Guadagnino, tuttavia, non è un semplice remake di un altro film, né vuole esserlo. Ed è proprio questo un nodo cruciale: è un film che, in ultima analisi, non sa davvero cosa voglia essere, che procede per tutta la sua durata come in preda ad una crisi identitaria perenne, accumulando elementi talvolta del tutto eterogenei alla costante ricerca di qualcosa da dire e che riesce sempre a risultare sbagliato o, nella migliore delle ipotesi, indigesto.




In Guadagnino non c'è volontà di creare di tensione con le immagini o con i suoni, né di trasmettere una vera sensazione funesta. Immagini e i suoni non vengono creati o usati per la loro efficacia nel trasmettere pathos o paura, bensì sulla scorta della mera ricercatezza estetica, ossia allontanandosi da quella che è la canonica narrazione "di genere". Non c'è, di conseguenza, tensione nelle sequenze in teoria più spaventose, non c'è la volontà di comunicare una sensazione di paura, né di ansietà, rendendo la visione piatta, priva di mordente quando dovrebbe, in teoria, coinvolgere sul piano emotivo più elementare, quello, appunto, dell'emozione.
Come se non bastasse, con una scelta invero alquanto discutibile, costruisce l'intero film come un anticlimax: nel primissimo atto introduce il concetto di streghe e stregoneria, non fa mistero di come, all'interno dell'accademia di danza frequentata da Susie, Sara e Patricia, operi una congrega dedita a riti satanici, tantomeno di come le ragazze siano i sacrifici da fare alla Mater Suspiriorum del titolo. Scelta azzardata non tanto se si opera un paragone con l'originale (inutile farlo: si sta parlando, nel caso in cui non lo si fosse capito, di due opere totalmente diverse, di conseguenza imparagonabili), quanto se presa in sé stessa: non c'è mistero in quelle immagini bizzarre che affolleranno lo schermo per le due ore successive, non c'è intrigo per lo spettatore che non è di conseguenza chiamato a partecipare attivamente alla visione, avendo già dall'inizio tutti gli strumenti per decodificarle. Ed anzi: con un vero e proprio diario-manuale che viene sfogliato di volta in volta, Guadagnino spiega in modo diretto simbologie e ruoli, come se lo spettatore fosse altrimenti incapace di decodificare anche i simboli più basilari, come il pentacolo usato con le strisce per segnare i movimenti durante la danza.




Pur tuttavia, una tale scelta narrativa non impedirebbe di creare una tensione nelle singole sequenze, di rendere partecipe lo spettatore nelle singole scene piuttosto che nella narrazione generale. Se non fosse che, come già anticipato, la costruzione delle scene di morte è anch'essa anticlimatica, mancando anche di vera suspanse, di vera tensione; Guadagnino non usa il mezzo filmico per comunicare lo stress del singolo personaggio chiamato a muoversi in un ambiente ostile e tetro, non vuole trasmettere l'ansia e l'angoscia delle singole vittime; si affida, alla fin fine, al solo shock visivo dato dall'effetto splatter, dai corpi martoriati delle ballerine, dalle ossa che fuoriescono dalle carni o dalle eviscerazioni.
Una violenza conclamata e urlata che, purgata com'è di ogni supporto emotivo, isolata da una costruzione dell'inquietudine emozionale, si fa presto gratuita. In buona sostanza, ad un uso "efficace" di immagini e suoni, se ne predilige uno "estetico", ricercando costantemente la forma più che la sostanza, fallendo nel riuscire a trasmettere emozioni e ripiegando sulla sola brutalità delle immagini come mezzo catartico.
Se, quindi, da un lato c'è un rifiuto della canonica costruzione orrorifica, dall'altro vi è il compiacimento del granguinolesco. Una contraddizione che porta questo "Suspiria" a voler al contempo essere e non essere un film dell'orrore e, in generale, una pellicola di genere.
Basterebbe tanto per bollare come "malriuscito" il lavoro di Guadagnino; ma sarebbe al contempo riduttivo e ingiusto nei confronti dell'autore. Perché il suo non è, appunto, mero cinema di genere, ma cinema intellettuale, "cerebrale" si potrebbe dire, dove l'orrore è in teoria messo a servizio della narrazione; ma anche qui, sono più i dubbi che le certezze a trionfare.




"Suspiria" è un racconto sospeso tra realtà è incubo, tra un mondo fin troppo reale dato dal nostro passato (il 1977), quello drammaticamente ancora reale dato dal passato dei personaggi (il Terzo Reich) e quello intangibile dato dai sogni e dalle suggestioni (gli incubi delle ragazze, le visioni orrorifiche che talvolta fanno capolino su schermo). Tre mondi che si confondono tra loro: ad immagini livide e fredde, che fotografano una Berlino talmente reale da divenire essa stessa un personaggio principale della storia, si giustappongono inserti ed elementi irrazionali, propri del mondo dell'inconscio, come le scritte prive di senso e il ritorno costante di date e numeri (l'11/11 è sia la data della prima di uno spettacolo di danza, sia la data di morte della morte della moglie del dott. Kemperer). Il racconto resta così sospeso tra sogno e veglia, ma gli elementi eterogenei non si amalgamano mai a dovere: l'atmosfera talvolta latita quando dovrebbe farsi pregnante, altre volte gli elementi surreali sono così insistiti da divenire ridicoli. Fin troppo grezzo è, su tutti, l'ingresso di Sara nell'alcova delle streghe ed il suo ferimento, svuotato di ogni vera sensazione di mistero e fascino; fin troppo esagerato e urlato è il montaggio delle visioni di Susie, che alterna praticamente ogni possibile simbologia accoppiandola con suoni sparati a mille, insistendo nel voler comunicare una sensazione di disagio che però diviene, al contrario, ridicola.



Il racconto e l'atmosfera divengono così schizofrenici; la volontà è quella di partire da un orrore vero, reale e tangibile, l'orrore della storia che si riverbera nei decenni sino a toccare di nuovo i personaggi, che si fa per questo orrore universale, benché perfettamente iscritto in precise coordinate spazio-temporali; si cerca, altresì, di riflettere sul concetto stesso di orrore, su come forme di mistificazione perfettamente razionali possano avere i medesimi effetti di una forza sovrannaturale (il Reich e la sua follia collettiva come forma secolare della stregoneria). Ma ogni pretesa di riflessione cade a vuoto nel momento stesso in cui si rivela come le streghe e la magia siano reali e tangibili, trasformando tutti i potenziali spunti di interesse in pura velleità autoriale.
Velleità che si fa insostenibile quando, all'interno di un racconto tutto sommato piatto, Guadagnino introduce simbolismi e tematiche sulla contrapposizione del gender e del ruolo madre/figlia che lasciano sempre il tempo che trovano. Primo fra tutti, la trovata di far interpretare a Tilda Swinton il triplice ruolo dell'amante, del padre e della madre.




Nel ruolo di Madame Blanc, la Swinton è, appunto, un amante che non vuole condividere il proprio oggetto del desiderio, che circuisce la giovane Susie per farne quasi un giocattolo, che salti a suo piacimento, che si muova sotto la guida dei suoi fili invisibili (i movimenti della danza), finanche che parli una lingua ad ella più confacente (il francese, la "lingua del ballo").
In quello di Kemperer, la Swinton è il padre/marito, ossia colui che salva la donna, sia essa moglie che figlia putativa; un uomo che insegue testardamente il suo ruolo, presupponendo ad errore l'incapacità del femminile di avere una sua precisa e completa identità e che per questo viene punito, obbligato ad assistere ad un sabba che è puro trionfo della rivalsa del femminino, pura affermazione della propria completezza.
Nel ruolo di Helena Markos, la Swinton è la madre manipolatrice, l'essere che castra ogni possibile ambizione della sua creatura per la pura e semplice affermazione di sé (da qui la specularità con la madre naturale); una creatura divina, che siede sempre in una posizione di predominanza rispetto all'oggetto (anche se la Markos viene sempre ritratta in basso rispetto a Susie, la vera madre la sovrasta continuamente) e che vuole letteralmente svuotarla, consumarne il corpo e l'anima per rigenerarsi, ossia, appunto, affermare sé stessa a suo discapito.
Tre ruoli diversi che avrebbero in comune il tratto oppressivo; tuttavia, se quella della Markos è una forma di distruzione dell'ego vero e proprio, quelle della Blanc e di Kemplerer sono più che altro incomprensioni in cui il rapporto uomo/donna gioca, bene o male, un ruolo di complicità; non si può davvero tacciare di cinismo o vedere come un tormento l'azione di un uomo che cerca di aiutare qualcuno in difficoltà. Mentre l'azione dell'amante come "possessore" rimanda alla mente, giocoforza, il miglior cinema di Fassbinder (citato anche per la presenza di Ingrid Caven), ma non riesce mai a concretizzarsi come asfissiante o realmente opprimente nel racconto. L'aver messo quindi la medesima attrice in tre ruoli solo nominalmente uguali, il cui story-arc risulta anche malriuscito, è quindi una pura pretesa autoriale che non aggiunge nulla di significativo alla materia.




Se quindi da un lato c'è la volontà di spaventare, dall'altro c'è il rifiuto categorico dell'uso di un registro di genere per riuscirci. Se da una parte Guadagnino vorrebbe davvero girare un horror, intessendo anche forti metafore psicoanalitiche e antropologiche, dall'altro c'è una sorta di ritrosia, di vergogna nel lasciarsi andare ad un puro racconto di genere, come se il cinema d'autore debba per forza di cose essere sempre e comunque "alto", mai far davvero leva sui sentimenti più primordiali, debba necessariamente essere "bello", senza potersi mai permettere davvero di essere efficace, debba sempre e comunque raccontare altro rispetto alla pura e semplice paura, debba necessariamente tirare in ballo i fantasmi della Storia all'interno della storia, quasi a voler rendere aulica una materia altrimenti indegna perché popolare, viscerale, quasi volgare; pur tuttavia, al contempo, volendo usare una violenza grafica estrema per il solo gusto di provocare, di trasmettere una sensazione senza voler creare una vera emozione, in una provocazione, quindi, del tutto fine a sé stessa.
Se il cinema di genere è cinema popolare, nella sua universalità sia emotiva che tematica, quello di Guadagnino è un cinema perfettamente borghese, arroccato nel compiacimento per il bello fino alla freddezza, impaurito dalla possibilità di poter trasmettere un sentimento basilare come paura e che per questo cerca sempre di avere un tono impegnato anche quando non dovrebbe, per di più senza riuscire mai davvero a creare una metafora forte e credibile. In questo, il buon Guadagnino avrebbe molto da imparare da Refn ed il suo "The Neon Demon", dimostrazione recente e perfetta di come sia possibile sintetizzare un racconto puramente orrorifico con le pretese autoriali più urgenti.

domenica 6 gennaio 2019

Spider-Man: Un Nuovo Universo

Spider-Man- Into the Spider-Verse

di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman.

Cinecomic/Animazione/Supereroistico/Azione

Usa 2018














E' spiazzante constatare come nel 2018, grazie a questa nuova incarnazione dell'Arrampicamuri, si ripresenti un fenomeno già sperimentato negli anni '90; era infatti il 1993 quando la Warner, fresca del successo ancora travolgente della serie animata di Batman ad opera, tra gli altri, di Paul Dini, decise di creare un lungometraggio animato e proiettarlo finanche in sala; uscito il 25 dicembre 1993, "Batman- La Maschera del Fantasma" era un cartoon dai toni adulti, che scavava nella psiche dei personaggi come mai prima d'ora per presentare un Batman incredibilmente adulto e, ancora di più, una storia che riusciva a condensare, in appena 76 minuti, tutti gli elementi vincenti del personaggio, dall'azione alle atmosfere noir, dai personaggi tormentati al look dark-retrò che fece la fortuna della serie animata. Quando, un anno e mezzo dopo circa, uscì nelle sale la controparte "live-action" del personaggio, con il "Batman Forever" di Schumacher, il pubblico restò basito per l'infantilità del tutto, in uno spettacolo che teoricamente doveva essere stato pensato anche un pubblico adulto e che falliva persino nel creare una visione affascinante del personaggio.
23 anni dopo, la storia si ripete con Spider-Man: laddove il recente "Homecoming" è essenzialmente un film che potrebbe piacere unicamente ad un pubblico di infanti, che veicola una visione del personaggio piatta e, prima ancora, sbagliata, presentando persino una storia priva di spunti di interesse, figuriamoci inserti visionari, "Into the Spider-Verse" riesce a creare una origin-story simpatica per una nuova incarnazione del personaggio calandola in una storia sicuramente di servizio, ma graziata da uno stile unico e vincente.




Siamo in un mondo dove Spider-Man è esistito per più di dieci anni; il Peter Parker che tutti conosciamo è praticamente lo stesso della trilogia di Raimi, omaggiata nella sequenza iniziale, che si diverte a salvare la città dal cattivone di turno come sempre. Ma al centro del palcoscenico, questa volta non c'è lui, bensì il giovane Miles Morales, personaggio che i fan più accaniti di sicuro conoscono e adorano fin dalla sua prima apparizione.
Nato sulle pagine di "Ultimate Spider-Man", Morales è il primo vero successore di Peter Parker nei fumetti: morto lo storico nerd, in una scena dall'alto tasso di violenza grafica, il giovane afroamericano è chiamato a vestirne i panni nell'universo Ultimate, divenendo subito amatissimo dai fan. E la ragione è in realtà alquanto sciocca: da un punto di vista caratteriale, non esistono differenze tra Parker e Morales; entrambi sono adolescenti dotati di una grande intelligenza e di un coraggio non comune ed entrambi hanno "superproblemi" in famiglia. Facile è stato, dunque, sostituire lo storico Uomo Ragno con uno un pelo più giovane e inesperto, utile anche ad avvicinare i lettori più giovani alla testata, i quali meglio possono identificarsi con un eroe a loro più anagraficamente vicino.




E, di fatto, anche nella sua controparte filmica, Morales ricopre il ruolo del giovane eroe chiamato alla battaglia, in una storia lineare; solo che questa volta, a differenza di "Homecoming", la maturazione arriva non per far colpo su di una figura paterna da quattro soldi, ma come vera presa di coscienza delle proprie possibilità, una maturazione, appunto, vera e propria, non dissimile da quella che qualsiasi adolescente potrebbe sperimentare nella vita reale. E già questo basterebbe per rendere "Into the Spider-Verse" come una trasposizione riuscita delle gesta del giovane arrampicamuri. Il film, però fa di più.




Riprendendo il concetto di multi-verso che da decenni imperversa nel mondo dei comics e che per la prima volta trova applicazione sul Grande Schermo, lo script introduce alcune delle varianti più pacchiane e divertenti dell'Uomo Ragno che si siano mai viste: il comicamente dark Spider-Man Noir, lo strambo Spider-Ham, sintesi tra Peter Parker e Porky Pig, Peni Parker, sorta di Spider-Man "manga" che nei fumetti faceva addirittura comunella con i ragazzi problematici di "Neon Genesis Evangelion"; oltre che un'altra favorita dei fan, l'ormai onnipresente Spider-Gwen, versione "spidermanizzata" della storica fidanzata di Peter Parker, nata sull'onda del successo di "The Amazing Spider-Man".
Pletora di personaggi che purtroppo non sempre ha un ruolo chiave negli eventi. Noir, Peni e Ham sono introdotti solo per fini meramente comici, Spider-Gwen è, all'inizio, il deus-ex machina chiamata a salvare la situazione, il cui ingresso nella storia è tra l'altro forzato ed improbabile.
Decisamente più gustoso e riuscito è il ruolo dei "classici" Peter Parker: quello originale, sorta di mentore putativo bello e perfetto, muore nel primo atto, lasciando il giovane Morales in balia di un suo alter ego, Peter B.Parker, più vecchio e fuori forma, uno Spider-Man disilluso e ai limiti del menefreghismo impossibile da non amare.




Ma laddove il film convince davvero è nello stile; abbandonata ogni velleità di fotorealismo nella CGI, i tre registi optano per una stilizzazione totale di personaggi e immagini, creando un cinecomic vero e proprio, dove a farla da padrone sono i colori irreali e brillanti, soluzioni visive ardite come split-screen ed inquadrature rovesciate, oltre che rimandi espliciti ai "sovraccarichi di energia" di Jack Kirby e alle forme impossibili di Frank Miller (su tutti, il Kingpin è uscito pari pari dal bellissimo "Amore e Guerra"). Il risultato finale è una gioia per gli occhi, un film semplicemente bello da vedere, la cui estetica salva la visione anche quando la storia si fa più prevedibile o stantia.




Nonostante il target infantile, non si può non restare allibiti dinanzi al lavoro svolto. Benché semplicistico, "Into the Spider-Verse" resta un bell'esempio di cinecomic, dove la spettacolarità dell'ibridazione dei linguaggi viene davvero ben sfruttata.

giovedì 3 gennaio 2019

The House that Jack Built

di Lars Von Trier.

con: Matt Dillon, Bruno Ganz, Uma Thurman, Riley Keogh, Siobhan Fallon Hogan, Sofie Grabol, Jeremy Davies, Jack McKenzie.

Danimarca, Francia, Germania, Svezia 2018



















Era il 2011 quando Von Trier venne bandito dal Festival di Cannes. Il motivo, in teoria, era anche condivisibile, ossia l'aver "lodato" la sistematica della ferocia nazista. Di certo, non ci si poteva aspettare di meno da un autore per il quale la provocazione è quasi un vizio, una ragione di vita, forse. Fatto sta che, nel 2018, esauritosi il bando settennale, l'ex padre del Dogma è tornato sulla croisette con "The House that Jack Built", scatenando ben più pacate polemiche.
Polemiche in fondo non dissimili da quelle che avevano accompagnato l'uscita del dittico di "Nymphomaniac", solo che ad essere la pietra dello scandalo è ora la violenza. E che, proprio come accadde con il precedente lavoro, si sciolgono come neve al sole dinanzi alle immagini del film, dove la violenza è di fatto ben poca cosa (ed è bene ribadire come Von Trier abbia mostrato molta più graficità in "Antichrist", tutt'oggi la sua opera più disturbante).
Ma non per questo, "The House that Jack Built" risulta essere un film semplice, né sul piano tematico, tantomeno come esperienza filmica.



Jack è un assassino seriale. Jack è anche un comune attrezzo, la traduzione dell'italiano "cric". Jack porta il nome del famoso squartatore di White Chapel e proprio come lui racconta di cinque vittime, prediligendo le donne. Jack è anche un artista e, in senso lato, un filosofo. La sua è una confessione fatta ad un misterioso interlocutore, Verge (Bruno Ganz) ma dalla quale pare non voglia ricavare perdono alcuno, solo illustrare il suo punto di vista.
Quella di Jack è una metafora mai velata: è lui lo stesso Von Trier, che usando per la prima volta in anni un alter ego maschile, decide di confessarsi allo spettatore, mostrargli il suo punto di vista sull'arte e sulla provocazione in sé stessa, provocandolo, appunto, con gusto, ma immergendo al contempo il tutto in un umorismo nerissimo eppure efficace.
Tramite Jack, Von Trier si confessa. La metafora dell'assassinio è un esamotage che gli permette di provocare la reazione più intima del pubblica: da un lato il disgusto, dall'altro l'ammirazione per i piani sempre più elaborati che vengono imbastiti; d'altronde Jack è sia l'ingegnere architetto mancato che tenta di realizzare una casa perfetta, sia l'attrezzo rozzo e rotto; ecco perché si comincia con il più brutale e semplice degli omicidi per arrivare ad un piano elaborato a puntino.



La confessione di Von Trier tocca i punti più controversi senza tirarsi indietro su nulla. Posto speciale, ovviamente, viene riservato alla polemica sul nazismo, alla sua fascinazione per Albert Speer e l'architettura del regime; ma, oltre, tutte le dittature vengono appaiate alla forza dell'arte per la loro capacità di creare icone.
Altra "pietra dello scandalo" è la misoginia, da sempre a lui attribuita e che si palesa nell' "incidente" di Simple, ossia "sciocca" (interpretata da Riley Keough). La donna è qui sempre vittima, agnello dilaniato dalla tigre e, per di più, spesso ingenua o sciocca. Ma tacciare il film, così come il suo autore, di vera misoginia per questa confessione sarebbe quantomai riduttivo.



"The House that Jack Built" è anche il racconto di una mente deviata o, per meglio dire, lucida nella sua infinità malvagità, che ne riprende in tutto e per tutto il punto di vista. Di conseguenza, tutto ciò che è altro rispetto ad esso e alla sua natura è per forza di cose un qualcosa di "inferiore", indegno, stupido appunto. E la descrizione di questo mefistofelico "artista" è anche la parte più sconcertante del film.
Cucendo il personaggio addosso ad un Matt Dillon mai davvero così in parte, Von Trier dipinge un killer privo della ben più basica empatia, un essere umano che vede i suoi simili alla stregua del materiale da lavoro con il quale costruire un'opera. Un uomo perso nella propria malvagità, la cui catabasi altro non è se non un'ulteriore presa di coscienza della propria natura.



Il racconto scorre così sui due binari della metafora e della descrizione, imponendosi in modo vivido in entrambi. Le immagini, come da tradizione, vengono scisse in elaborati quadri in movimento, dove la plasticità viene ricercata in modo spasmodico, appaiati a ruvide scene con la fida camera a mano, creando, mai come ora, un risultato stordente, ameno, che trova un'ulteriore punto di interesse nell'uso dei primi piani. Mai nel cinema di Von Trier le inquadrature sono state così vicine al soggetto, mai sono state al contempo più pittoriche.



Non sarebbe quindi errato dire di come questa sua ultima fatica viva di due anime: la riflessione sull'arte, propria e altrui; la descrizione morbosa, scioccante, di un personaggio limite. Anime che si congiungono in quel finale, con il negativo che trasforma il personaggio, l'uomo, l'artista, nell'opera, in una quadratura perfetta, quasi un punto d'arrivo per l'intero cinema dell'autore danese.