martedì 8 gennaio 2019

Suspiria

di Luca Guadagnino.

con: Dakota Johnson, Tilda Swinton, Mia Goth,  Chloe-Grace Moretz, Malgosia Bela, Angela Winkler, Ingrid Caven, Jessica Harper.

Usa, Italia 2018


















---CONTIENE SPOILER---


Il progetto di un remake di "Suspiria" pare sia nato dalla volontà dello stesso Guadagnino di rimettere mano all'opera di Argento. Benché affidato ad un primo momento a David Gordon Green, che poi ha preferito dedicarsi all'ultimo "Halloween", sembra sia stato proprio il cineasta palermitano ad opzionare i diritti dell'originale dalle mani dello stesso Argento. E, nonostante il suo scarso entusiasmo, si deve proprio a quest'ultimo, in definitiva, il fatto che questo remake abbia visto il buio della sala: se davvero non credeva che fosse il caso di rifare uno dei suoi film più riusciti, tanto valeva non cederne i diritti di sfruttamento in prima istanza, piuttosto che lucrarci sopra solo per poi sparlare del risultato finale.





Ora, sull'originale "Suspiria" è stato detto di tutto, basti ora ribadire che, pur non essendo un film "perfetto", resta un vero e proprio capolavoro del cinema di genere, uno dei massimi apici della poetica argentiana (al pari del solo "Profondo Rosso"), nonché uno degli horror più squisitamente originali, anche non solo sul piano estetico, che si siano mai visti.
Sarebbe bene tenere a mente queste caratteristiche quando ci si approccia al lavoro svolto da Guadagnino. Almeno in prima istanza; se non fosse che il suo "Suspiria" sembra, già ad una prima e superficiale analisi, l'esatto opposto di quello che il film di Argento era: laddove l'originale raccontava una storia purgata da coordinate spazio-temporali precise per farsi fiaba gotica, il remake è saldamente stretto in un tempo e in un luogo precisi, la Berlino del 1977; laddove l'originale giocava con l'atmosfera gotica e folkloristica intessendo un'estetica originale e bizzarra, il remake ha un look livido, quasi naturalista nella sua freddezza; laddove l'originale sacrificava la caratterizzazione interiore dei personaggi sull'altare della pura emozione, il remake intesse intere sottotrame per parlare dell'interiorità dei protagonisti; se l'originale plasmava una fitta atmosfera onirica, il remake a tratti vorrebbe essere (ma non sempre) estremamente verosimile.
Se questo nuovo "Suspiria" fosse stato un semplice "negativo" dell'originale, avrebbe anche avuto una sua ragione d'essere; e, anzi, non ci si potrebbe neanche lamentare più di tanto: sempre meglio avere un remake che non sia la copia-carbone sbiadita dell'originale, che tenti un nuovo approccio alla stessa materia, magari aggiungendo elementi che aiutino a migliore l'originale.
Quello di Guadagnino, tuttavia, non è un semplice remake di un altro film, né vuole esserlo. Ed è proprio questo un nodo cruciale: è un film che, in ultima analisi, non sa davvero cosa voglia essere, che procede per tutta la sua durata come in preda ad una crisi identitaria perenne, accumulando elementi talvolta del tutto eterogenei alla costante ricerca di qualcosa da dire e che riesce sempre a risultare sbagliato o, nella migliore delle ipotesi, indigesto.




In Guadagnino non c'è volontà di creare di tensione con le immagini o con i suoni, né di trasmettere una vera sensazione funesta. Immagini e i suoni non vengono creati o usati per la loro efficacia nel trasmettere pathos o paura, bensì sulla scorta della mera ricercatezza estetica, ossia allontanandosi da quella che è la canonica narrazione "di genere". Non c'è, di conseguenza, tensione nelle sequenze in teoria più spaventose, non c'è la volontà di comunicare una sensazione di paura, né di ansietà, rendendo la visione piatta, priva di mordente quando dovrebbe, in teoria, coinvolgere sul piano emotivo più elementare, quello, appunto, dell'emozione.
Come se non bastasse, con una scelta invero alquanto discutibile, costruisce l'intero film come un anticlimax: nel primissimo atto introduce il concetto di streghe e stregoneria, non fa mistero di come, all'interno dell'accademia di danza frequentata da Susie, Sara e Patricia, operi una congrega dedita a riti satanici, tantomeno di come le ragazze siano i sacrifici da fare alla Mater Suspiriorum del titolo. Scelta azzardata non tanto se si opera un paragone con l'originale (inutile farlo: si sta parlando, nel caso in cui non lo si fosse capito, di due opere totalmente diverse, di conseguenza imparagonabili), quanto se presa in sé stessa: non c'è mistero in quelle immagini bizzarre che affolleranno lo schermo per le due ore successive, non c'è intrigo per lo spettatore che non è di conseguenza chiamato a partecipare attivamente alla visione, avendo già dall'inizio tutti gli strumenti per decodificarle. Ed anzi: con un vero e proprio diario-manuale che viene sfogliato di volta in volta, Guadagnino spiega in modo diretto simbologie e ruoli, come se lo spettatore fosse altrimenti incapace di decodificare anche i simboli più basilari, come il pentacolo usato con le strisce per segnare i movimenti durante la danza.




Pur tuttavia, una tale scelta narrativa non impedirebbe di creare una tensione nelle singole sequenze, di rendere partecipe lo spettatore nelle singole scene piuttosto che nella narrazione generale. Se non fosse che, come già anticipato, la costruzione delle scene di morte è anch'essa anticlimatica, mancando anche di vera suspanse, di vera tensione; Guadagnino non usa il mezzo filmico per comunicare lo stress del singolo personaggio chiamato a muoversi in un ambiente ostile e tetro, non vuole trasmettere l'ansia e l'angoscia delle singole vittime; si affida, alla fin fine, al solo shock visivo dato dall'effetto splatter, dai corpi martoriati delle ballerine, dalle ossa che fuoriescono dalle carni o dalle eviscerazioni.
Una violenza conclamata e urlata che, purgata com'è di ogni supporto emotivo, isolata da una costruzione dell'inquietudine emozionale, si fa presto gratuita. In buona sostanza, ad un uso "efficace" di immagini e suoni, se ne predilige uno "estetico", ricercando costantemente la forma più che la sostanza, fallendo nel riuscire a trasmettere emozioni e ripiegando sulla sola brutalità delle immagini come mezzo catartico.
Se, quindi, da un lato c'è un rifiuto della canonica costruzione orrorifica, dall'altro vi è il compiacimento del granguinolesco. Una contraddizione che porta questo "Suspiria" a voler al contempo essere e non essere un film dell'orrore e, in generale, una pellicola di genere.
Basterebbe tanto per bollare come "malriuscito" il lavoro di Guadagnino; ma sarebbe al contempo riduttivo e ingiusto nei confronti dell'autore. Perché il suo non è, appunto, mero cinema di genere, ma cinema intellettuale, "cerebrale" si potrebbe dire, dove l'orrore è in teoria messo a servizio della narrazione; ma anche qui, sono più i dubbi che le certezze a trionfare.




"Suspiria" è un racconto sospeso tra realtà è incubo, tra un mondo fin troppo reale dato dal nostro passato (il 1977), quello drammaticamente ancora reale dato dal passato dei personaggi (il Terzo Reich) e quello intangibile dato dai sogni e dalle suggestioni (gli incubi delle ragazze, le visioni orrorifiche che talvolta fanno capolino su schermo). Tre mondi che si confondono tra loro: ad immagini livide e fredde, che fotografano una Berlino talmente reale da divenire essa stessa un personaggio principale della storia, si giustappongono inserti ed elementi irrazionali, propri del mondo dell'inconscio, come le scritte prive di senso e il ritorno costante di date e numeri (l'11/11 è sia la data della prima di uno spettacolo di danza, sia la data di morte della morte della moglie del dott. Kemperer). Il racconto resta così sospeso tra sogno e veglia, ma gli elementi eterogenei non si amalgamano mai a dovere: l'atmosfera talvolta latita quando dovrebbe farsi pregnante, altre volte gli elementi surreali sono così insistiti da divenire ridicoli. Fin troppo grezzo è, su tutti, l'ingresso di Sara nell'alcova delle streghe ed il suo ferimento, svuotato di ogni vera sensazione di mistero e fascino; fin troppo esagerato e urlato è il montaggio delle visioni di Susie, che alterna praticamente ogni possibile simbologia accoppiandola con suoni sparati a mille, insistendo nel voler comunicare una sensazione di disagio che però diviene, al contrario, ridicola.



Il racconto e l'atmosfera divengono così schizofrenici; la volontà è quella di partire da un orrore vero, reale e tangibile, l'orrore della storia che si riverbera nei decenni sino a toccare di nuovo i personaggi, che si fa per questo orrore universale, benché perfettamente iscritto in precise coordinate spazio-temporali; si cerca, altresì, di riflettere sul concetto stesso di orrore, su come forme di mistificazione perfettamente razionali possano avere i medesimi effetti di una forza sovrannaturale (il Reich e la sua follia collettiva come forma secolare della stregoneria). Ma ogni pretesa di riflessione cade a vuoto nel momento stesso in cui si rivela come le streghe e la magia siano reali e tangibili, trasformando tutti i potenziali spunti di interesse in pura velleità autoriale.
Velleità che si fa insostenibile quando, all'interno di un racconto tutto sommato piatto, Guadagnino introduce simbolismi e tematiche sulla contrapposizione del gender e del ruolo madre/figlia che lasciano sempre il tempo che trovano. Primo fra tutti, la trovata di far interpretare a Tilda Swinton il triplice ruolo dell'amante, del padre e della madre.




Nel ruolo di Madame Blanc, la Swinton è, appunto, un amante che non vuole condividere il proprio oggetto del desiderio, che circuisce la giovane Susie per farne quasi un giocattolo, che salti a suo piacimento, che si muova sotto la guida dei suoi fili invisibili (i movimenti della danza), finanche che parli una lingua ad ella più confacente (il francese, la "lingua del ballo").
In quello di Kemperer, la Swinton è il padre/marito, ossia colui che salva la donna, sia essa moglie che figlia putativa; un uomo che insegue testardamente il suo ruolo, presupponendo ad errore l'incapacità del femminile di avere una sua precisa e completa identità e che per questo viene punito, obbligato ad assistere ad un sabba che è puro trionfo della rivalsa del femminino, pura affermazione della propria completezza.
Nel ruolo di Helena Markos, la Swinton è la madre manipolatrice, l'essere che castra ogni possibile ambizione della sua creatura per la pura e semplice affermazione di sé (da qui la specularità con la madre naturale); una creatura divina, che siede sempre in una posizione di predominanza rispetto all'oggetto (anche se la Markos viene sempre ritratta in basso rispetto a Susie, la vera madre la sovrasta continuamente) e che vuole letteralmente svuotarla, consumarne il corpo e l'anima per rigenerarsi, ossia, appunto, affermare sé stessa a suo discapito.
Tre ruoli diversi che avrebbero in comune il tratto oppressivo; tuttavia, se quella della Markos è una forma di distruzione dell'ego vero e proprio, quelle della Blanc e di Kemplerer sono più che altro incomprensioni in cui il rapporto uomo/donna gioca, bene o male, un ruolo di complicità; non si può davvero tacciare di cinismo o vedere come un tormento l'azione di un uomo che cerca di aiutare qualcuno in difficoltà. Mentre l'azione dell'amante come "possessore" rimanda alla mente, giocoforza, il miglior cinema di Fassbinder (citato anche per la presenza di Ingrid Caven), ma non riesce mai a concretizzarsi come asfissiante o realmente opprimente nel racconto. L'aver messo quindi la medesima attrice in tre ruoli solo nominalmente uguali, il cui story-arc risulta anche malriuscito, è quindi una pura pretesa autoriale che non aggiunge nulla di significativo alla materia.




Se quindi da un lato c'è la volontà di spaventare, dall'altro c'è il rifiuto categorico dell'uso di un registro di genere per riuscirci. Se da una parte Guadagnino vorrebbe davvero girare un horror, intessendo anche forti metafore psicoanalitiche e antropologiche, dall'altro c'è una sorta di ritrosia, di vergogna nel lasciarsi andare ad un puro racconto di genere, come se il cinema d'autore debba per forza di cose essere sempre e comunque "alto", mai far davvero leva sui sentimenti più primordiali, debba necessariamente essere "bello", senza potersi mai permettere davvero di essere efficace, debba sempre e comunque raccontare altro rispetto alla pura e semplice paura, debba necessariamente tirare in ballo i fantasmi della Storia all'interno della storia, quasi a voler rendere aulica una materia altrimenti indegna perché popolare, viscerale, quasi volgare; pur tuttavia, al contempo, volendo usare una violenza grafica estrema per il solo gusto di provocare, di trasmettere una sensazione senza voler creare una vera emozione, in una provocazione, quindi, del tutto fine a sé stessa.
Se il cinema di genere è cinema popolare, nella sua universalità sia emotiva che tematica, quello di Guadagnino è un cinema perfettamente borghese, arroccato nel compiacimento per il bello fino alla freddezza, impaurito dalla possibilità di poter trasmettere un sentimento basilare come paura e che per questo cerca sempre di avere un tono impegnato anche quando non dovrebbe, per di più senza riuscire mai davvero a creare una metafora forte e credibile. In questo, il buon Guadagnino avrebbe molto da imparare da Refn ed il suo "The Neon Demon", dimostrazione recente e perfetta di come sia possibile sintetizzare un racconto puramente orrorifico con le pretese autoriali più urgenti.

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