lunedì 11 febbraio 2019

Il Primo Re

di Matteo Rovere.

con: Alessandro Borghi, Alessio Lapice, Fabrizio Rongione, Massimiliano Rossi, Tania Garribba, Lorenzo Gleijess, Vincenzo Crea.

Italia, Belgio 2019


















E' fin troppo facile lodare lo sforzo produttivo e visionario alla base de "Il Primo Re"; è facile riconoscerne la forza prettamente cinematografica in un panorama nazionale dove la messa in scena filmica è strettamente ancorata  a luoghi comuni di origine teatrale e televisiva, dove, in sostanza, essa si risolve in attori inespressivi che declamano alla bene e meglio dialoghi scipiti mentre siedono ad un tavolo o si reggono in piedi davanti ad un divano. In un tale deserto artistico, è oltremodo facile (sul piano concettuale) immaginare storie che facciano dell' immagine e del movimento il proprio mezzo espressivo, anziché affidarsi alle sole parole.
A stupire, semmai, è il fatto che il fautore di una tale presa di posizione sia Matteo Rovere, regista i cui esordi non lasciavano presagire un tale amore verso il mezzo cinematografico: film come "Un Gioco da Ragazze" e "Gli Sfiorati" altro non erano che il classico "pastone italiano", che cercavano di imporsi all'attenzione del pubblico esclusivamente per merito di storie scomode e di tematiche scottanti, senza avere mai davvero un'idea precisa di cinema. Differente era, semmai, il precedente "Veloce come il Vento", che aveva già un'identità filmica precisa.
Ma se quel piccolo exploit sportivo non faceva altro che riprendere i topoi di tanto cinema sportivo americano e trapiantarli in un contesto italiano, vincendo facile sul piano della messa in scena, il lavoro dietro "Il Primo Re" appare, in contrasto, decisamente meno ortodosso. Non che non sia possibile tracciare anche in questo una serie di influenze che hanno sicuramente esercitato un certo fascino su Rovere ed i suoi collaboratori: basti pensare al "Vahlalla Rising" di Refn, all' "Apocalypto" di Mel Gibson (dal quale riprende l'idea dei dialoghi in lingua), senza contare l'influsso del "Revenant" di Ianarritu  o il successo di serial quali "Game of Thrones" e "Vikings", che fanno dell'ambientazione cruda e primordiale un tratto essenziale del proprio essere. Rovere, tuttavia, riesce ad andare oltre i debiti di ispirazione più ovvi e a creare una piccola epica italiana dotata di una propria identità estetica e filmica ben definita.



Quello de "Il Primo Re" è un universo ancestrale, un 753 a.C. più vicino all' "era Hyboriana" di Robert E.Howard che alla tradizione del "sandalone" nostrano. Un mondo dove non esiste civiltà se non in forma embrionale: i villaggi sono nuclei umani il cui numero di capanne si conta sulle dita di una mano, mentre la religione è professata all'aperto. Non esistono veri interni: tutta l'azione si svolge tra le paludi laziali, graziate da una magnifica fotografia naturalistica creata da Ciprì.
In questa "era prima delle ere", si muovono i due fratelli del mito, Romolo (Alessio Lapice) e Remo (Alessandro Borghi): braccati dagli uomini di Alba, i due si danno alla fuga con un gruppo di disperati, cercando di sopravvivere alla violenza e al fato.
La narrazione è scarnificata, primordiale quanto il mondo in cui è ambientata: il racconto è quello di due sopravvissuti che si scontrano a loro volta con due visioni differenti del potere. C'è, sin dal prologo, una tensione verso l'infinito, verso quel concetto di divinità tanto arcaica quanto arcana. Un concetto misterioso, per questo spaventoso, che ciascuno dei due fratelli tenta di comprendere e di far suo. Se Romolo è impossibilitato all'azione fino al terzo atto, Remo si fa motore degli eventi, giocoforza, rappresentando il punto di vista principale.




Un guerriero che agisce per la protezione del fratello, che si scontra con l'ostilità dell'ambiente e, prima ancora, con la superstizione, l'ombra di quel dio primigeneo (il fuoco) la cui ira, pur intangibile, viene avvertita da tutti i presenti. L'essere umano cerca così di sradicare l'idea di divino che si frappone alla sua affermazione: Remo diviene egli stesso divinità, compiendo dapprima azioni insperate (la caccia notturna, che salva Romolo e l'intero drappello di uomini), poi imponendosi come figura crudele e iraconda al pari di quel concetto trascendente che tanta fascinazione esercita sul popolo: la paura della sua forza è essa stessa forza con la quale soggiogare il prossimo, scacciando il divino per la creazione di una divinità del tutto immanente, così come nel futuro Impero essa sarà rappresentata dall'imperatore, dio di carne e sangue. Una presa di posizione che tuttavia non nasce dall'hybris, quanto dall'amore che egli porta dal fratello: è solo a seguito della profezia sulla loro futura lotta che il giovane guerriero decide di ribellarsi al fato e, con esso, al concetto di divino.



Una ribellione che, come la Storia ci insegna, è vana: il fato di Remo, quello di Romolo e di tutte le loro azioni è già scritto; la tensione, quindi, piuttosto che derivare dalla risoluzione degli eventi, discende da come il conflitto sarà effettivamente gestito dai due e da come gli eventi nei quali sono chiamati a muoversi ne forgeranno il carattere.
E Rovere dimostra di saper tenere bene questa tensione, con una regia precisa, attenta allo spettacolo, ma mai compiaciuta nella ricercatezza delle soluzioni estetiche. Questo fino all'ultimo atto.



E' nel confronto finale che tutto il lavoro fatto dall'autore va, in un modo o nell'altro, a rotoli; il confronto fraterno non ha la forza che dovrebbe, tantomeno la battaglia dove combattono rappresenta una catarsi soddisfacente, anche a causa di una bassezza nei valori produttivi che davvero comincia a farsi sentire, con poche comparse su schermo e soluzioni visive date da inquadrature strette che servono più che altro a mascherare la piccolezza degli eventi. Senza contare come, negli ultimissimi minuti, persino la mano di Rovere vacilla, con un drone che vola letteralmente senza controllo sulla testa dei personaggi ed un montaggio che si fa via via confusionario. Chiamato così a dare un senso a quanto narrato, il narratore si dimostra, purtroppo, afflitto da fiato corto che ne affossa in parte gli intenti epici.
Una caduta di stile che per fortuna non distrugge quanto di buono fatto nelle quasi due ore precedenti: la narrazione cruda e secca riesce davvero a comunicare quelle sensazioni di primordiale furia e disagio dei protagonisti, in una pellicola che riesce ad essere contemporaneamente scostante e affascinante.
E' però doveroso fare una precisazione: è inutile, come sempre, parlare di "rinascita del cinema italiano" dinanzi ad un simile lavoro. Esso è come sempre farina del sacco di un unico individuo, un unico autore non supportato da un sistema produttivo adeguato, la cui assenza, come sottolineata, ne castra persino gli intenti. Il cinema italiano tornerà ad essere tale solo quando verrà ripristinato un sistema produttivo effettivo, che non si basi sui soli finanziamenti pubblici e che faccia dell'economicità uno dei suoi pilastri. Sino ad allora, film come "Il Primo Re" resteranno delle meteore, dalla scia bellissima, ma lo stesso destinate a non lasciare traccia nel cielo dopo il loro passaggio.

2 commenti:

  1. È un bellissimo film. Una interessante riflessione sull'eterno conflitto tra spiritualità e razionalità.

    RispondiElimina