domenica 30 giugno 2019

Il Caimano

di Nanni Moretti.

con: Silvio Orlando, Margherita Buy, Jasmine Trinca, Nanni Moretti, Valerio Mastandrea, Michele Placido, Giuliano Montaldo, Antonello Grimaldi, Paolo Sorrentino, Matteo Garrone, Tatti Sanguinetti.

Italia, Francia 2006















Qual'è il modo migliore per descrivere il rapporto tra Nanni Moretti e il sistema politico italiano degli ultimi 15/20 anni?
Domanda dalla non facile risposta, poiché se in precedenza il buon Nanni era l'esponente di punta di quella generazione nata e cresciuta nei dettami del PCI e che a vent'anni già si scopriva parte attiva di quella borghesia che tanto dileggiava, per poi ritrovarsi, nel decennio successivo, in preda allo smarrimento totale per la trasformazione della sinistra, dalla caduta della Prima Repubblica sino all'avvento dell'Era Berlusconiana, non è facile capire quanto ci sia di sincero nelle sue posizioni e dichiarazioni a partire dal 2001, ossia nel periodo di massimo splendore del governo di centrodestra, sino alle recentissime elezioni politiche del 2018.
Perché se il Nanni Moretti il cui ritratto fuoriusciva da "Aprile" era un intellettuale deluso e sconfortato dall'intero sistema-paese, che si rifugiava nel privato per fuggire dagli orrori cosmici fuoriusciti nella Penisola, il Moretti la cui figura emerge da "Il Caimano", dai cosiddetti "girotondi" e dalle dichiarazioni rilasciate di recente sul PD appare quanto mai ambiguo nelle prese di posizione, quasi confuso sulla linea di pensiero da seguire.




Tralasciando, per il momento, quanto fatto in quello che è il film più celebre della sua filmografia recente, è bene concentrarsi per un attimo sul fenomeno dei girotondi. Nati nel 2002 per contrastare la politica antigiudiziaria del secondo governo Berlusconi, questi erano una manifestazione di piazza, ma anche di pura pancia, utilizzati solo per gridare il disappunto di chi non si riconosceva nel governo, ma che non per forza credeva nelle istituzioni. Ed è stato proprio questo il loro grande limite, quello di essere pura e semplice protesta compiaciuta e mai accompagnata da un decalogo ideologico vero e proprio, sia esso quello del centrosinistra in generale che di un possibile altro manifesto ideologico ad esso parallelo ed eventualmente connesso. Difetto che si riscontrerà in tutta la politica del centrosinistra, a partire da primi anni del PD sino all'avvento del governo Monti del 2011: in tutto questo periodo, la sinistra si è compattata unicamente in una funzione anti-berlusconiana che non ha retto la prova dei fatti, non riuscendo mai nell'intento di demolire l'avversario perché priva di veri valori, ideali o semplici idee; basti pensare alla battaglia persa per la questione morale e il conflitto di interessi, fattori che ancora oggi portano scompiglio sulla scena politica e istituzionale.




Nanni Moretti, dal canto suo, in un'intervista di qualche tempo fa, ha minimizzato il tutto con un semplice: "L'unica vera battaglia persa del PD è stata la questione dello ius soli", senza neanche accennare al fatto che, poco prima, il PD aveva rifiutato di allearsi con i 5 Stelle, garantendo l'ascesa al potere di Salvini, le cui conseguenze sono, oggi come oggi, sotto gli occhi di tutti; tale incapacità di prendersi la responsabilità per quel grande fallimento che è stato (ed è tutt'ora) il centro-sinistra cozza con quella sincerità spavalda che dimostrava nei primi lavori. Forse anche lui è invecchiato? Forse. O, molto più probabilmente, si ritrova nella situazione di non poter più davvero criticare un partito che, volente o nolente, lo ha sempre difeso e appoggiato.




Tenendo conto di tale situazione ideologica, un film come "Il Caimano", sia esso inserito nel contesto storico che lo ha visto uscire in sala, sia rivisto oggi con la coscienza di ciò che sarebbe poi avvenuto, rappresenta una visione a dir poco strana, bizzarra, che alterna momenti di estremo coraggio e veridicità ad altri di pura codardia, trovate estetiche geniali alla solita incapacità di messa in scena propria di tutto il cinema morettiano, configurandosi, quantomeno, come l'opera più complessa di tutta la filmografia del regista romano.




Scisso in tre piani narrativi quasi antitetici, "Il Caimano" non è un film su Berlusconi, né sull'effetto che questi ha avuto sull'Italia sino al 2006, quanto un film sullo stato delle cose nel cinema italiano, sull'impossibilità per lo stesso di poter esprimere qualcosa di sensato e attuale o anche più semplicemente di non eclissarsi a causa della sciatteria dilagante.
Centro nevralgico della narrazione è la figura di Paolo Bonomo, un Silvio Orlando chiamato a riversare tutti i suoi tic e la sua classica espressione da cane bastonato su di un personaggio ai limiti della macchietta. Bonomo è un ex produttore d'oro, fautore di cult quali "Maciste contro Freud" e "Mocassini Assassini", oramai caduto in disgrazia; e già con lui, non è davvero chiaro ciò Moretti voglia dire in merito al passato (glorioso?) del cinema italiano: c'è una sorta di fascinazione verso quei film popolari e sanguigni, che venivano etichettati come "fascisti" dalla critica sinistrorsa con fin troppa facilità, veri e proprio doppi dei cult di Lucio Fulci, Sergio Leone e Mario Bava. Eppure, l'iperbole adoperata per dar loro corpo appare sin troppo caricaturale, quasi beffarda, confondendo sull'effettiva visione che Moretti ha del cinema pop italiano: vi è davvero del buono in quel cinema "focoso" o è esso mera espressione di una libertà creativa perduta? Moretti gioca costantemente a nascondere le sue vere intenzioni, tanto che alla fine si resta spaesati.




Secondo piano narrativo è il film nel film, la ricostruzione di quelle pagine di sceneggiatura in cui si ripercorre l'ascesa al potere del Berlusconi imprenditore tra la fine degli anni '60 sino alla vigilia della "discesa in campo"; ed è qui che Moretti adopera uno stile più ricercato, più attento all'estetica, per dare vita alle vicende giudiziarie e non del Cav, alternando la fiction con i veri estratti delle figuracce rimediate al Parlamento Europeo, per creare un effetto straniante questa volta voluto e pungente; che nel finale si fa apocalittico, ma anche ai limiti dell'elegiaco, quasi come se Moretti volesse inginocchiarsi dinanzi al trionfo di un personaggio talmente negativo da aver distrutto un intero paese pur di farla franca. Il che fa calare una luce sinistra sull'intera opera, anche e sopratutto quando si considera il terzo piano narrativo.




E' di fatto in quest'ultimo piano che vive il cuore del film, o quantomeno la sua spina dorsale; si diceva come esso in realtà fosse la storia di un uomo alle prese con la creazione di un film, metafora dell'impossibilità di creare un effettivo film su Berlusconi in un paese che di Berlusconi ne ha piene le tasche. Da qui l'impossibilità di dare una lettura seria del personaggio: giacché le sue malefatte sono di dominio pubblico, le sue figure fecali internazionali vengono trasmesse in diretta televisiva e i suoi legami con la malavita sono ai limiti del cristallino, non ci sarebbe, di fatto, un pubblico per un film che già tutti conoscono a menadito. Posizione in parte condivisibile, in parte altamente controversa.



Con un j'accuse verso un pubblico dimentico di cosa il cinema sia (anche quello popolare) e incantato dalle nefandezze della politica, Moretti si vorrebbe schierare contro un popolo anestetizzato dalla tv spazzatura e da quell'edonismo anni '80 proprio del berlusconismo oramai entrato sottopelle a qualsiasi italiano. E lo fa mettendo in scena le difficoltà di Bonomo e della giovane regista Teresa, dando corpo alla disperazione creativa e alla povertà di mezzi e idee in cui il cinema italiano (ora come allora) sguazza. Ed è così che cade nella sua stessa trappola, creando un controsenso inquietante.
Poiché è lo stesso Moretti a non voler prendere posizione, a non volersi schierare davvero contro il tanto odiato Caimano, a non voler reagire a muso duro contro un establishment decadente e corrotto fin nel midollo; ciò nel momento in cui decide di non creare un film sulla figura di Berlusconi, ma sulla difficoltà di parlare di Berlusconi; tanto che il vero quesito è insito e nascosto in quella volontà di portare in scena una storia del genere: paura della censura politica? Paura di offendere qualche potente? Paura di essere frainteso dal proprio pubblico? Paura di divenire il volto di quell'antiberlusconismo della sinistra italiana dell'epoca? Quesiti senza risposta.
Resta tuttavia il paradosso di un autore che lamenta la difficoltà di creare un film libero, salvo poi fare quello che gli pare, senza alzare mai troppo il tiro e senza volersi assumere responsabilità alcuna.



Se l'intento di Moretti era quello di confessare una sua ritrosia a volersi inimicare l'ex premier, il risultato è riuscito; se l'intento era quello di mettere alla berlina il sistema produttivo cinematografico italiano del XXI secolo, è altrettanto riuscito; se l'intento era quello di sbeffeggiare il pubblico, anche così l'intento è riuscito. Ma se l'intento era quello di portare ad una forma di riflessione sullo stato delle cose, l'intento è del tutto malriuscito, incrostato com'è di quella paura di alzare la voce che troppo spesso la sinistra italiana dimostra. "Il Caimano" è, in buona sostanza, un girotondo di celluloide, ossia un atto totalmente compiaciuto, che vorrebbe essere eversivo, ma si sostanzia come puramente ludico.




Finiscono così per venire alla mente quei cineasti della Prima Repubblica che, contrariamente a Moretti, mettevano verve e vero e proprio sangue nei loro j'accuse (su tutti Elio Petri, che lo stesso Moretti cita), esponendosi in prima persona agli attacchi (talvolta persino fisici) della classe dirigente, senza mai cedere di un passo e, anzi, spesso rincarando la dose a ogni nuovo film. Ma, come ci confessa in "Aprile", al confronto politico a viso aperto e ai ritratti impietosi, Moretti spesso preferisce il caffelatte.

giovedì 27 giugno 2019

La Bambola Assassina

Child's Play

di Lars Klevberg.

con: Mark Hamill, Aubrey Plaza, Gabriel Bateman, Tim Matheson, Brian Tyree Henry, David Lewis, Beatrice Kitos.

Horror

Usa, Canada, Francia 2019













Quello di "Child's Play" è un franchise anomalo, che nasce con un primo capitolo figlio più dello sceneggiatore Don Mancini che di quel Tom Holland già regista del cult "Ammazzavampiri" e si impone come un piccolo horror dalle buone ambizioni e in parte riuscito; un piccolo film che ha dalla sua degli effetti speciali ancora oggi ottimi, che permettono al bambolotto serial killer Chucky di entrare subito nel pantheon delle maschere più riconoscibili del cinema horror tutto, anche se, alla fin fine, di memorabile in questo primo exploit non c'è davvero molto.




Il buon successo permette così lo sviluppo di un brand vero e proprio; i primi due sequel si rivelano però come delle fotocopie sbiadite del primo film, che cercano di compensare la mancanza di suspanse con un tono grottesco troppo blando per essere davvero divertente; le cose cambiano a partire dal quarto capitolo, quel "Bride of Chucky" diretto dal Ronnie Yu di "Freddy vs. Jason" che riesce davvero ad imporre una svolta para-demenziale alla serie, la quale si rigenera a nuova vita proprio come il suo protagonista, per arrivare alla fine alla bellezza di sette film, gli ultimi dei quali sono tutti diretti da Mancini in persona. E ad oggi, oltre ad una serie televisiva ad opera di quest'ultimo, giunge nelle sale persino un remake del primo film, figlio però di diversi genitori: non più Mancini allo script, né il grande caratterista Brad Dourif a donare la voce alla bambola assassina, sostituito da un comunque notevole Mark Hamill.
Questa nuova incarnazione non è però un semplice rifacimento del primo film, quanto una vera e propria re-interpretazione del concept di base, aggiornato al XXI secolo; il quale riesce a intrattenere bene, anche se al minimo sindacale.



Gli elementi di base sono gli stessi del primo film: ragazzetto (questa volta più grandicello) che vive in una famiglia non proprio da sit-com riceve in regalo un pupazzo che si darà ai massacri, perseguitando alla fine anche il padrone. L'esecuzione, tuttavia, è diversa: Chucky non è più il corpo ospite di un assassino patito di stregoneria vodoo, ma un semplice giocattolo dalla tecnologia para-futuribile al quale sono stati tolti tutti i protocolli di sicurezza. I guai cominciano così quando questa sorta di I-Bambola comincia ad evolversi, entrando sempre più in contatto con la realtà che la circonda: impara la violenza niente meno che dalla visione di "Non Aprite quella Porta 2", non discernendone , di conseguenza, il lato demenziale da quello distruttivo, comincia ad uccidere per fare del bene al proprio padrone e decide di vendicarsi solo quando viene da questi abbandonato.



Il Chucky del Terzo Millennio è quindi una sintesi di tutte le paure del cyberpunk moderno, ossia la fobia che quell'immensa rete multimediale che abbiamo creato nelle nostre case si rivolti, trasformandole in trappole mortali; di fatto, la maggior parte degli omicidi sono eseguiti grazie alla funzione di connettività del bambolotto con gli altri elettrodomestici, rendendolo una sorta di Alexa figlia di Hal9000 piuttosto che il prodotto del cinema horror anni '80.
Cinema d'antan del quale questo nuovo film non disconosce le origini, che anzi vengono omaggiate da valanghe di citazioni (il dito che si illumina e la felpa rossa di "E.T.", il gruppo di ragazzini che salva la situazione come ne "I Goonies"), senza però mai lasciare che queste divengono parte essenziale della narrazione o dell'estetica; persino i trascorsi grotteschi della saga trovano un rimando nell'omicidio del patrigno, virato subito al demenziale.



A creare la giusta atmosfera, ci pensa la bella fotografia di Brendan Uegama, che già aveva dato prova del suo talento in televisione firmando le immagini di "Riverdale" e "Le Terrificanti Avventure di Sabrina"; mentre la regia si appiattisce, malauguratamente, sul chlichè dei jump-scare, qualcuno ben azzeccato, ma per la maggior parte inutili.
Alla fin fine, lo spettacolo messo in scena riesce a non tediare e anzi a divertire, sopratutto grazie alla declinazione cyberpunk data al soggetto. E' proprio il caso di dirlo: se tutti i remake delle icone horror anni '80 fossero stati all'altezza di questo nuovo "Child's Play", le maschere ormai classiche del cinema dell'orrore moderno vivrebbero oggi una vera e propria seconda giovinezza.

domenica 23 giugno 2019

X-Men: Dark Phoenix

Dark Phoenix

di Simon Kinberg.

con: Sophie Turner, James McAvoy, Jessica Chastain, Jennifer Lawrence, Michasel Fassbender, Tye Sheridan, Nicholas Hoult, Alexandra Shipp, Evan Peters, Kodi Smit-McPhee.

Supereroistico/Azione/Fantastico

Usa 2019












Diciannove anni dopo il primo "X-Men", con sette capitoli ufficiali e cinque spin-off (tre su Wolverine, due su Deadpool) ed un nuovo film, "New Mutants", finito per il momento nel limbo distributivo, arriva il tempo della pensione per gli Uomini X della Fox. L'acquisizione da parte della Disney porterà ad uno scontato reboot per inserire i personaggi nel MCU e delle loro prime, imperfette ma tutto sommato divertenti, incarnazioni non resterà che il ricordo. Eppure, tutti i fan dei comic movie devono davvero molto a questa serie, che con il suo primo capitolo ha decretato l'inizio della golden age dei supereroi al cinema, spianando la strada per tutti gli adattamenti successivi.
Non è un caso che a dirigere quest'ultima incarnazione ci sia quel Simon Kinberg responsabile di tutti i progetti post "X-Men- L'Inizio" (e in parte anche di "Conflitto Finale") dei mutanti creati da Stan Lee e Jack Kirby, qui al suo esordio dietro la macchina da presa. Un esordio accolto freddamente e sicuramente meno riuscito rispetto ai migliori exploit della saga; ma, alla fin fine, "Dark Phoenix" è davvero il disastro che in molti credono?




Alla base della storia troviamo quella "saga della Fenice Nera" di Chris Claremont già portata malamente su schermo in "Conflitto Finale", questa volta adattata in modo più fedele alla controparte cartacea. Ambientata nel 1992 (ossia l'anno di grazia in cui gli X-Men hanno conosciuto il primo grande successo transmediale con il cartoon "Uncanny X-Men"), questa nuova incarnazione del celebre ciclo vede Jean Gray fondersi con un'ancestrale forza cosmica, forse responsabile addirittura del Big Bang, e affrontare successivamente i suoi demoni personali. Laddove in "Conflitto Finale" la Fenice era semplice supervillain da sconfiggere, qui troviamo una Jean Gray più complessa, onnipotente e al contempo fragile, chiamata ad essere sia l'eroina che l'antagonista della propria storia, anche se non in modo principale.




Lo script imbastito dal solo Kinberg è compatto, ma spesso claudicante. Primo su tutti, non regge l'inclusione di forze extraterrestri, venute fuori letteralmente dal nulla: messi da parte gli Shi' ar, vengono introdotti i mutaforma D'Bari (inutile sottolineare la ridicola assonanza che il nome trova nella lingua italiana) i quali atterrano di punto in bianco sulla Terra solo per essere i cattivi principali della vicenda, antagonisti privi di ogni minima caratterizzazione che non sia quella del villain di turno.




Script che non riesce nemmeno a far convivere il gran numero di personaggi introdotti: anche Magneto diviene un mero antagonista, Nightcrawler ha un arco caratteriale gettato a caso, Ciclope resta bene o male sempre sullo sfondo degli eventi mentre Quicksilver viene letteralmente riposto nell'armadio a metà film.
La stessa storia non ha le ambizioni epiche di "Giorni di un Futuro Passato" o di "Apocalisse", caratterizzandosi come più piccola, quasi timida nel riscalare ogni singolo evento ad una dimensione inferiore. E dulcis in fundo, non mancano dialoghi scontati, con esclamazioni tipo "E' il tuo destino!" o riferimenti neo-femministi che lasciano il tempo che trovano.
Sceneggiatura che trova poi una messa in scena di stampo televisivo, tutta basata sui primi piani alternati nei dialoghi, colpa della poca esperienza di Kinberg come regista.




Tanto basterebbe a decretare la cattiva riuscita di un film a cui, tra l'altro, nessuno teneva, vista la pessima tempistica che lo ha visto distribuire all'indomani dell'acquisizione da parte della casa di Topolino. E ben si potrebbero accettare quelle critiche che lo hanno visto paragonato addirittura a quel macello che fu il "Fantastic Four" di Josh Trank, anch'esso "commesso" da Kinberg. Eppure, per una strana ed inspiegabile alchimia, "Dark Phoenix" riesce a funzionare, pur al netto di difetti che cui è impossibile soprassedere.




Il ritmo lento ed il tono quasi intimista consentono davvero di entrare nella psiche della protagonista, di lasciarsi coinvolgere in un dramma visto e rivisto quanto si vuole, eppure portato in scena con passione. La trama esile e scontata non cade mai nello stupido o nel ridicolo involontario (cosa che invece accadeva con "Conflitto Finale" e "Apocalisse"). Riuscito è anche l'arco caratteriale dato a molti personaggi, tra i quali Xavier e Bestia, che divengono più che semplici "Buoni" all'interno di una storia che vorrebbe rendere la distinzioni tra eroi e malvagi fluida, a tratti riuscendoci per davvero.
Ed è forse proprio il tono mesto e contenuto, in ultima analisi, a rendere digeribile la storia; oltre al lavoro degli attori, tutti in parte, persino Sophie Turner, che di certo non ha mai brillato per doti che vadano al di là della sua bellezza.




Il primo viaggio filmico degli X-Men si chiude così in tono minore, con un sussulto anzicchè con un boato, in una pellicola dalla scarsa ambizione eppure più riuscita di quanto si voglia ammettere.

lunedì 17 giugno 2019

I Morti non Muoiono

The Dead Don't Die

di Jim Jarmusch.

con: Bill Murray, Adam Driver, Tom Waits, Chloe Sevigny, Tilda Swinton, Steve Buscemi, Danny Glover, Caleb Landry Jones, RZA, Sara Driver, Selena Gomez, Rosie Perez, Carol Kane, Iggy Pop.

Usa, Svezia 2019













Il cinema di Jarmusch è, in un modo o nell'altro, perennemente sospeso in quella zona di confine tra omaggio sentito e parodia, tra passione viva e pulsante verso il "genere" e distruzione totale dei suoi elementi caratterizzanti; laddove "Dead Man" era un western onirico che distruggeva a suon di splatter l'epica classica e leoniana,  "Ghost Dog" un omaggio sentito al polar di Melville infarcito di un sottilissimo umorismo acido, "I Morti non Muoiono" compie un percorso a loro simile, eppure diverso, omaggiando i propri numi tutelari e virando, al contempo e clamorosamente, verso i territori dello sberleffo più puro, per abbracciare e sbeffeggiare il filone zombi.




Si parte dal setting più classico possibile, la piccola cittadina di Centerville, dove vive letteralmente un pugno di personaggi, rappresentazione talmente perfetta di quel mid-west americano di romeriana memoria da divenirne esplicita iperbole, con un corredo di personaggi sin troppo aderenti ai rispettivi archetipi: dallo sceriffo Cliff Robertson (Bill Murray, che nella tradizione dell'autore porta il nome di un corrispettivo famoso, in questo caso il compianto caratterista omonimo), paterno eppure scazzato, al barbone filosofo Bob (Tom Waits), passando per lo zotico di fiera ispirazione trumpiana Frank Miller (Steve Buscemi), il nerd Bobby (Caleb Landry Jones), la nuova impresaria delle pompe funebri e patita di filosofia zen Zelda (Tilda Swinton) fino agli hipster di passaggio capitanati dalla peperina Zoe (Selena Gomez).
Centerville è, nel modo più puro e semplice, l'archetipo di ogni ambientazione di ogni horror possibile, corredato dai personaggi più ricorrenti. Non per nulla, Jarmusch mette subito in chiaro quali sono i suoi numi tutelari, ossia Romero, ma anche John Carpenter, richiamati esplicitamente non solo nella costruzione dello script, quanto e sopratutto dall'oggettistica esposta nell'antro del nerd, vero e proprio coacervo di tutto il cinema dell'orrore possibile dal "Nosferatu" di Murnau sino ai classici del neo-horror americano degli anni '70 e '80.



Anche nella costruzione degli eventi, Jarmusch riprende il modello "classico", con un primo atto che introduce i personaggi, un secondo in cui l'orrore comincia a strisciare a poco a poco tra le case ed un terzo in cui l'incubo esplode. Le tempistiche vengono dilatate, ogni tensione viene volutamente disinnescata dal ritmo lento e dall'umorismo sarcastico e feroce, mai così vicino a quello dei fratelli Coen per asciuttezza ed efficacia. Il ribaltamento del canone è così servito, ma è solo il primo passo dell'opera de-costruttiva.
Tutti i personaggi sono, bene o male, parodie, caricature di sé stessi che si muovono all'interno del feroce gioco al massacro intessuto dall'autore. A partire dagli sceriffi, uomini d'azione che, a differenza di quanto accadeva ne "La Notte dei Morti Viventi", non riescono a tenere a bada l'invasione, anzi non sanno davvero cosa fare nonostante vivano in universo in cui la fiction sugli zombi esiste ed è di comune conoscenza. Il nerd di turno, l'outsider che sarebbe stato l'eroe in qualsiasi trama negli anni '80 e '90, non riesce a combinare nulla, nemmeno a fare colpo sull'interesse amoroso di turno, tantomento a salvarsi la vita, pur combattendo fianco a fianco con il personaggio di Danny Glover, afroamericano reminiscenza dell'eroe del capolavoro di Romero.



Lo stesso non-morto è al contempo doppio sbiadito di ciò che era nei tempi passati e sua perfetta rappresentazione: nuovamente redivivo che ripete meccanicamente tutte le azioni fatte in vita, chiuso in cerchio infinito di consumismo che non porta a nessuna forma di soddisfazione (come in "Dawn of the Dead"); eppure la metafora anti-capitalistica (così come quella ecologista data dalla causa scatenante il risveglio) resta sempre sullo sfondo, secondaria a quello che è davvero il cuore del film.
Poiché Jarmusch non vuole tanto ripetere la lezione di Romero, né semplicemente omaggiarla o scompaginarla, quanto crearne una versione iperbolica, totalmente fuori controllo, dove nulla segue quegli schemi preimpostati da anni di imitazioni e omaggi. Non per nulla, già nei primissimi minuti fa abbattere la quarta parete al personaggio di Adam Driver, il quale, nell'ultimo quarto, finisce addirittura per confessare di aver già letto la sceneggiatura e sapere che tutto finirà come da tradizione, ossia male per i protagonisti. E anche in questo finale "telefonato" non c'è davvero nulla di scontato: non la dipartita dei tutori dell'ordine, purgata da ogni valenza eroica, non l'esplicitazione della metafora, semplicemente spiattellata allo spettatore dal narratore onnisciente, non la certezza della salvezza di quei personaggi (l'eremita di Waits, i tre ragazzini chiusi in riformatorio) che, vivendo al di fuori del sistema sociale, sarebbero anch'essi perfetti eroi da film di genere.



Quello di "I Morti non Muoiono" è così un lavoro non dissimile da quello fatto anche in "The Limits of Control", ossia una riflessione sull'arte del tutto autocosciente e metareferenziale, che ora tocca quel cinema che, ancora oggi, ci si ostina a credere di serie B, guarnendo il tutto con un umorismo distruttivo atto a sovvertirne ogni elemento caratterizzante; oltre a distruggere persino quelli che sono gli elementi caratterizzanti dello stesso cinema di Jarmusch e persino di sé stesso, come dimostra il personaggio di Tilda Swinton, dapprima riproposizione del samurai di "Ghost Dog", poi vero e proprio colpo di scena vivente.


Una riflessione che riesce ad essere al contempo divertita e divertente, adagiandosi su di un lavoro degli attori semplicemente irresistibile e su di uno humor sempre riuscito, persino quando si fa cartoonesco, nonché una carica dissacrante che farebbe invidia a molte altre commedie ben più blasonate presso il grande pubblico ("Zombieland" in primis), impostandosi se non come il film più interessante del suo autore, quanto meno come uno dei suoi più riusciti.

domenica 16 giugno 2019

R.I.P. Franco Zeffirelli


1923 - 2019

Benché il suo cinema non abbia mai raggiunto le vette di molti suoi illustri colleghi, la dipartita di Zeffirelli è notizia assai triste. Con lui se ne va un altro pezzo di quella stagione irripetibile per la filmografia nazionale. A ricordarlo, i suoi film meglio riusciti, tra i quali vanno annoverati almeno "Romeo & Giulietta", trasposizione del dramma attentissimo all'ambientazione storica, l'immortale "Gesù di Nazareth", rievocazione dell'intera vita del Cristo, nonché l' "Otello" con Plàcido Domingo.

mercoledì 12 giugno 2019

I Fratelli Sisters

Les Fréres Sisters

di Jacques Audiard.

con: John C. Reilly, Joaquin Phoenix, Jake Gyllenhall, Riz Ahmed, Rebecca Root, Rutger Hauer, Carol Kane.

Western

Francia, Usa Spagna, Belgio, Romania 2018













Confrontarsi con un "genere" blasonato e usurato come il western può essere compito arduo, data forte la difficoltà di unire le istanze sue proprie con quelle personali del singolo autore al fine di avere un prodotto originale prima ancora che riuscito. Ma Jacques Audiard non è un regista qualsiasi e alla sua prima esperienza americana mette da parte il polar e il noir per gettarsi a capofitto nel filone fondativo del genere americano classico, solo per sovvertirlo totalmente, al punto di creare qualcosa di sinceramente spiazzante ma anche altamente riuscito.


I pezzi fondamentali del western sono tutti presenti: i paesaggi immensi caratterizzati da una natura ancora selvaggia, la corsa all'oro, i bandidos (o presunti tali) dietro cui corrono i bounty killer, finanche i grossi imprenditori (il "commodoro") malintenzionati; eppure questi pezzi del puzzle, una volta combinati, danno un risultato diverso, lontano anni luce da quanto ci si aspetterebbe.
Audiard mette le cose in chiaro sin dalla prima scena, con una sparatoria che avviene letteralmente al buio. Non vediamo le azioni dei due protagonisti, le quali vengono così spogliate di ogni valenza (epica o antieroica che sia) per farsi puro gesto, quasi routine. Ma quando la vera missione ha inizio che le cose cominciano davvero a farsi bizzarre e strane.
Il rapporto fraterno tra Eli (John C.Reilly) e Charlie (Joaquin Phoenix), benché burrascoso, non è mai davvero conflittuale; tanto calmo il primo quanto autodistruttivo il secondo, i due non finiscono mai davvero nei guai a causa dei loro tratti caratteriali.



Amicizia virile che si ritrova anche nel rapporto tra John Morris (Jake Gillenhall), terzo cacciatore di taglie, e la "preda" Hermann Kermit Warm (Riz Ahmed), i quali scopriranno una reciproca complicità data dal disgusto per l'avidità imperante.
Il conflitto non viene neanche ingenerato dallo scontro tra un sistema di valori di stampo familiare con l'ideologia del profitto data dalla corsa all'oro, il quale diviene mero punto di trama. Tantomeno, Audiard si lascia trasportare dalla nostalgia per il codice d'onore cavalleresco dei pistoleri contrapposto alla miserevole logica capitalistica alla base del progresso, come invece la tradizione di Peckinpah insegna; il progresso è anzi un mero dato di fatto, come sottolineato dal soggiorno a San Francisco dei due protagonisti. Manca, infine, quel senso di elegia verso il tramonto dell'età d'oro del Selvaggio West alla "C'Era una Volta il West".



Audiard disinnesca così ogni possibile declinazione crepuscolare verso il western finendo per chiedersi se l'epica, il "mito del West", di fatto sia mai esistito, avvicinandosi così a quanto fatto, in modo ancora più radicale, da Robert Altman ne "I Compari". Ogni gesto eroico viene infatti negato: le sparatorie sono puro caos, dove il montaggio spezzato rende praticamente impossibile seguire l'azione. Il confronto finale con il cattivo viene negato, mentre il midpoint, con un incredibile colpo di scena che ribalta la storia, avviene quasi per caso, annullando quel determinismo del tutto umano che solitamente è alla base dell'azione nel western classico.




In questa operazione decostruttiva (se non distruttiva) non è però mai presente quel compiacimento postmoderno che molti cineasti si prenderebbero la briga di avere. Così come fatto con il noir e il gangster movie, Audiard dimostra una vera e propria reverenza verso la materia trattata e i suoi personaggi, rendendo così anche la semplice visione superficiale godibile, in un'opera ambiziosa e di ottima caratura.

giovedì 6 giugno 2019

Noi

Us

di Jordan Peele.

con: Lupita Nyong'o, Winston Duke, Elisabeth Moss, Shahadi Wright Joseph, Evan Alex, Tim Heidecker, Yaha Abdul-Mateen II, Anna Diop.

Thriller/Horror

Usa, Giappone 2019














---CONTIENE SPOILER---


Il successo a sorpresa di "Scappa- Get Out" è stato del tutto meritato e ha permesso a Jordan Peele di imporsi come un filmmaker a dir poco rimarchevole, le cui ambizioni di commentatore sociale sono ben supportate da un talento per la narrazione di genere che, oggi come oggi, si vede ben di rado nel cinema mainstream. E questo nonostante quelle strambe dichiarazioni fatte poco prima dell'uscita del suo secondo lavoro, l'atteso "Us": è davvero razzista affermare di non volere un attore bianco come protagonista dei propri film? Forse no, non c'è vera discriminazione, quanto la presa di coscienza di poter fare qualcosa di inedito, ossia un film prodotto da una major con un grosso budget totalmente interpretato da afroamericani.
Più che le dichiarazioni di Peele per loro stesse, è inquietante il contesto nel quale sono state espresse, ossia l'America dell'era di Trump, dove tra conservatori ottusi, social justice warrior piagnucoloni e femminaziste che hanno distrutto la reputazione del movimento femminista, sembra davvero che il trend sia dato da chi spara la provocazione più grossa; da qui l'incapacità di scindere affermazioni davvero offensive da quelle effettivamente inclusive (vedasi in proposito la figuraccia fatta da Brie Larson qualche mese fa).
Al di là delle polemiche, Peele riesce a regalare, in questa sua seconda prova, un thriller interessante, dove la metafora, benché meno incisiva rispetto al suo esordio, è lo stesso affascinante.



"Us" come "noi", ossia la società americana, quella medio-borghesia nera oramai lontana dalla segregazione, che si è costruita una comfort-zone fatta di case in riva al lago e barche comprate a poco prezzo; arrivata in cima ad una vetta eppure incredibilmente invidiosa di quell'uomo bianco che svetta ancora su di lui, per questo sempre pronta a criticarlo a denti stretti. Una borghesia che sembra essersi dimenticata di tutto, prima fra ogni cosa le proprie origini: il concetto del passato rimosso è l'incipit e la fine del film; all'inizio è il 1986, anno di pieno furore per la Reaganomics, con la lunga catena umana che attraversa il continente da New York a Santa Monica come opera benefica a favore dei meno abbienti. Ovverosia, una pura dimostrazione senz'anima, dove l'unità sociale è solo uno specchietto per le allodole, un'immagine priva di anima.
Così come speculari privi di anima sono le misteriose creature che fuoriescono dal sottosuolo, da quei tunnel e canali dimenticati da secoli (tra i quali, forse, rientra anche la fantomatica ferrovia sotterranea che consentiva agli schiavi di fuggire dal sud verso il Canada); "Us" quindi anche come "United States", ossia un paese che è l'ombra senz'anima di ciò che dovrebbe essere, un ultracorpo nato non nello spazio profondo, ma in quei meandri della nazione dove risiedono seppelliti i valori ormai dimenticati.



I doppi sono nulla più che gli stessi protagonisti (da qui anche quel colpo di scena finale intuibile e neanche spiazzante). Se il padre di famiglia è un omaccione che sbraita, la figlia è un'atleta un pò viziata e il figlioletto è patito di magia che vive chiuso nella propria passione, la madre di famiglia e punto di vista di tutta la vicenda altro non è se non un riflesso continuo, un personaggio privo di qualsivoglia tratto caratteristico che non sia la reazione all'ambiente che la circonda; da qui la sua duplice valenza di unica persona in grado di distaccarsi da quella società omologatrice e dimentica di sé, nonché di "carta bianca", di essere privo di una identità che non sia rispecchiata nel suo ruolo di madre di famiglia.




Il doppio diviene così versione deformata e deformate del sé, o quantomeno di quella percezione del sé che i personaggi hanno o credono di avere. Una società nella società dove tutto è un'iperbole, ogni azione un'imitazione di quella reale, ripetuta senza senso, come pura azione speculare, in un rito privo di raziocinio e passione, quindi privo di senso.
Questi "zombi ancora in vita" cercano di impadronirsi del mondo in un meccanismo narrativo non troppo dissimile da quello visto ne "La Notte dei Morti Viventi"; ma se nel classico di Romero il diverso era l'incarnazione della paura strisciante, per Peele il diverso è simile all'ultracorpo, appunto, del classico di Don Siegel, ossia una copia carbone dell'essere umano, privo però di anima, per questo creatura mostruosa e grottesca, riflesso ghignante di un paese che ha dimenticato i propri valori, le proprie radici e la cui identità è data unicamente dalla ripetizione di gesti; persino l'atto di ribellione culmina nella riproposizione di quella catena umana che già nella sua forma originale era puro atto di omologazione privo di effettiva volontà di ripercussione nell'ambito sociale.




Se la metafora è forte e ben supportata da un simbolismo basilare ma estremamente efficace, meno convincente è la costruzione della mitologia dei doppi, troppo vaga e scontata, sino a mettere a dura prova la sospensione dell'incredulità.
Peccato tutto sommato scusabile a fronte di un'esecuzione quasi impeccabile, nella quale Peele riesce a infondere una sensazione di terrore strisciante sin dalla prima scena, usando come mezzo terrorifico la sola inquadratura, prova della sua ottima preparazione di cineasta di genere.

sabato 1 giugno 2019

Godzilla II - King of the Monsters

Godzilla - King of the Monsters

di Michael Dougherty.

con: Vera Farmiga, Kyle Chandler, Millie Bobby Brown, Ken Watanabe, Ziyi Zhang, Sally Hawkins, Charles Dance, Bradley Whitford.

Catastrofico/Fantastico

Usa, Giappone 2019













Quando nel 2014 il "Godzilla" di Gareth Edwards invase i cinema di tutto il mondo, gli spettatori si ritrovarono davanti ad uno spettacolo a dir poco deludente: il secondo tentativo di americanizzare l'icona pop nipponica per antonomasia era, a conti fatti, un film pretenzioso, che metteva totalmente sullo sfondo il godzillosauro del titolo per appiattirsi su tutti gli stereotipi del cinema catastrofico made in Usa, con personaggi monodimensionali, situazioni improbabili ed un grado di spettacolarità che non riusciva davvero mai a stupire, proprio come avveniva, in un certo senso, con il "Godzilla" di Roland Emmerich due decenni prima. Ma il successo di quella seconda versione made in Usa del lucertolone di Ishiro Honda fu immane, anche presso la critica, tanto che la Toho decise di riappropriarsi del personaggio con il più riuscito e interessante "Shin Godzilla" del 2016.
Un'incarnazione, quella americana, in grado di raccogliere oltre cinquecento milioni di dollari in tutto il mondo; il franchise su di un "Godzilla" a stelle e strisce vide così la luce, ma il primo passo per questa nuova serie è stato in realtà quel "Kong: Skull Island", sequel indiretto del "King Kong" di Peter Jackson che avrebbe fatto da viatico per il prossimo "Godzilla vs. Kong" atteso per il 2020; e prima del quale si pone questo "King of the Monsters", sequel diretto dell'exploit di Edwards che riunisce il Re dei Mostri con i suoi colleghi kaiju più noti, ossia Mothra, Rodan e sopratutto la sua nemesi naturale, il drago a tre teste King Ghidorah.
Messo in cabina il Michael Dougherty già autore dei simpatici "Krampus" e "Trick r' Treat", "Godzilla II" si caratterizza come un kolossal a dir poco spettacolare, in grado di tenere incollato alla poltrona anche lo spettatore più smaliziato... purché si accettino le premesse a dir poco bislacche della storia.




Messo da parte lo stile para-documentristico con cui Edwards guardava i suoi kaiju, Dougherty riprende la forma del dramma familiare a lui cara, usandola come punto di partenza per dare il via al combattimento tra titani; dopo gli eventi del primo film, la dottoressa Emma Russell (Vera Farmiga), che nell'attacco dei Muto ha perso un figlio, crea un marchingegno in grado di comunicare con i mostri, essenziale poiché nel mondo ne vengono ritrovati circa 17 in stato di sonno criogenico. Tuttavia, un gruppo di eco-terroristi guidati da Jonah Alan (Charles Dance) rapisce lei e sua figlia Madison (la divetta Millie Bobby Brown, al suo primo ruolo su grande schermo); toccherà all'ex marito e scienziato Mark (Kyle Chandler), assieme al dottor Serizawa (Ken Watanabe), mettersi alla loro ricerca, mentre questi sembrano voler risvegliare tutti i mostri.



Una storia che è puro pretesto, che porta in scena un conflitto ridicolo, quello tra i terroristi che vorrebbero far estinguere la razza umana per poter salvare il pianeta (?!?!?) ed un gruppo di scienziati decisamente più saggio, che opta per una coesistenza tra uomini e mostri, dove questi ultimi, come nei film precedenti, sono i guardiani dell'ecosistema. Conflitto usato come mero espediente per portare in scena personaggi e kaiju decisamente più simpatici; laddove gli umani sono quel gruppo familiare scoppiato che, nell'affrontare la tragedia, si ricompatta (riportando alla mente il ben più riuscito "The Host" di Bong Joon-Ho, ma anche il "Krampus" dello stesso Dougherty), i kaiju sono creature terrestri che si scontrano con un invasore, Ghidorah, le cui origini aliene vengono riprese dai vecchi film e perfettamente implementate in un universo dove tutti i titani sono antichi miti risvegliatisi.
Proprio la mitologia alla base di questo "Monsterverse" è l'aspetto più riuscito della storia, divenendo parte essenziale del racconto e base per la risoluzione; anche quando Dougherty decide di calcare la mano, inserendo dei simbolismi cristologici francamente risibili.


Quello che conta, alla fine, è lo spettacolo. Se il "Godzilla" di Edwards moriva per difetto, centellinando le apparizioni dei mostri in una sorta di coito interrotto perenne, "King of the Monsters" arriva quasi alla sovraesposizione, lasciando spesso e volentieri la scena ai mostroni, con risultati efficaci: si è davvero rapiti dalle immagini dei combattimenti apocalittici, dalla distruzione, gratuita ma incontrovertibilmente divertente, di città e veicoli, nonché dalla varietà delle creature, tutte classici della Toho con oltre quarant'anni di carriera sulle spalle, ma che mai come ora bucano lo schermo. E Dougherty riesce anche a caratterizzare esteticamente le singole scene di lotta appaiando ad ogni creatura un cromatismo particolare, in un tripudio visivo quasi pari a quello del "Pacific Rim" di Del Toro.


Tutto sommato, vale la pena fare un giro su questo nuovo ottovolante del Re dei Mostri: spettacolo e divertimento sono garantiti e anche quando la sospensione dell'incredulità crolla, non si scade mai nell'idiota; il rispetto verso il pubblico c'è sempre e, al di là di luci e colori, è forse proprio questo uno dei maggiori pregi di "King of the Monsters".