giovedì 30 gennaio 2020

Lo Sceicco Bianco

 di Federico Fellini.

con: Alberto Sordi, Brunella Bovo, Leopoldo Trieste, Giulietta Masina, Ernesto Almirante, Lilla Landi, Fanny Marchiò, Gina Mascietti.

Commedia

Italia 1952
















E' abitudine consolidata quella di ritrarre Federico Fellini come un intellettuale che, durante la sua vita, è stato uno dei (se non il) miglior regista italiano. Il che è sbagliato e limitante.
Fellini ha avuto una formazione popolare, il "sense of wonder" alla base di tutte le sue fantasmagorie si è creato quando, in giovane età, tradusse per la versione italiana le tavole del Flash Gordon di Alex Raymond: quei mondi alieni, abitati da creature fantastiche, ne segnarono indelebilmente l'immaginario, tanto che tutto il suo cinema può essere concepito come una rielaborazione personalissima del fantasy pop dei primi del '900; il che è evidente in molte delle sue opere, da "8 1/2" sino al terminale "La Voce della Luna". E va inoltre considerato come il buon Federico prediligesse la lettura dei fumetti a quella dei libri, al punto da essere divenuto, negli anni '60, persino amico di Stan Lee, dopo averne scoperto i comics.




Pensare, poi, a Fellini come un autore importante all'interno della storia della sola cinematografia italiana ne limita incredibilmente la portata delle opere così come la sua figura sia su di un piano sia artistico che storico. L'influenza del cinema di Fellini, allora come ora, è ravvisabile in decine di autori sparsi per tutto il globo, i quali ne hanno assimilato e rielaborato lo stile. Basti pensare anche solo a Sylvain Chomet, il cui prossimo progetto è basato sulle esperienze di infanzia del regista del riminese. O a Jodorowsky e al suo "Santa Sangre", vera e propria rielaborazione della fantasmagoria circense fellininana in chiave dark.
E' più corretto affermare, di conseguenza, come Fellini sia stato un autore dalla portata globale, il cui cinema e la cui arte sono patrimonio mondiale; il che lo rende, obbligatoriamente, uno dei cineasti più importanti di sempre, prima ancora di uno degli autori migliori che il cinema tutto abbia avuto.




Dopo aver svolto un'intensa carriera da sceneggiatore e aver ricoperto il ruolo di assistente alla regia per Rossellini in "Roma Città Aperta" e "Paisà", Fellini dirige assieme ad Alberto Lattuada il bel "Luci del Varietà"; ma è con il successivo esordio in solitario "Lo Sceicco Bianco" che si pone all'attenzione del grande pubblico, portando in scena una favola moderna dell'Italia del Secondo Dopoguerra. Film che inizialmente doveva essere diretto da Michelangelo Antonioni, il quale si tira indietro perché non convinto del soggetto. Fellini si ritrova così alla sua prima esperienza dietro alla macchina da presa e ricorderà in proposito come la sua scarsa conoscenza della tecnica filmica lo portò ad essere addirittura sfottuto da parte degli operatori e macchinisti. Poco male: come lui stesso sottolineerà nel corso di una famosa intervista, si può essere degli ottimi narratori pur avendo scarsa padronanza tecnica; il che è del tutto evidente in questo suo esordio, dove i limiti tecnici dell'artista sono del tutto evidenti, ma non pregiudicano la riuscita dell'opera in sé.




L'uso sbarazzino del montaggio è palese,gli scavalcamenti di campo non mancano e non sono fluidi e innocui come quelli di Kubrick, ma più estrosi; l'uso di un montaggio ardito sembra però dipendere più dallo stile di ripresa di Fellini che dall'uso dell'edizione per sé: è cosa nota come il grande artista improvvisasse praticamente tutto sul set, lasciando che l'ispirazione lo guidasse al momento; in questo suo esordio, utilizza questo suo personale stile solo per quel che riguarda la messa in scena, lasciando che la scrittura sia ancora quella buttata giù in fase di sceneggiatura.




Script che Fellini usa per creare un piccolo spaccato dell'Italia del boom economico; le storie che narra in questa prima fase della sua carriera non sono, in fondo, diverse da quelle già portate su schermo da De Sica o da quelle che di lì a poco narreranno Pietro Germi e Monicelli; storie di gente comune che ha a che fare con una quotidianità talvolta asfittica; ma se De Sica, Germi e Monicelli adoperano uno stile più secco, figlio appunto dello sguardo disincantato del Neorealismo, Fellini filtra il quotidiano tramite la lente del fantastico, dell'immaginifico e dell'onirico.




"Lo Sceicco Bianco" è, alla sua base, la storia di una fuga di una sognatrice che sfugge all'aridità della vita coniugale per abbracciare quel mondo del piccolo spettacolo che tanto la entusiasma; è l'Italia dei fotoromanzi consumati voracemente sopratutto nelle province, giornaletti che propongono storie di pura evasione, ambientati in mondi fantastici, distanti anni luce dal quotidiano. La giovane Wanda è l'incarnazione di questo sogno della classe proletaria e piccolo borghese di ritrovarsi per davvero dinanzi ai propri idoli. Solo per poi scoprire come la magia esista solo su carta.




La produzione del fotoromanzo omonimo è caotica, con un regista che grida gli ordini tramite un gigantesco megafono, curiosi che appestano il set e, sopratutto, divetti capricciosi che sabotano ogni buona intenzione. Wanda è trascinata in questo caos dalla morbosa curiosità di conoscere il suo idolo, lo sceicco bianco, che ha il volto piacione di Alberto Sordi; uno sceicco "de borgata", il quale non fa altro che insidiare la giovane sposa, forte del suo status di celebrità, solo per poi insultarla quando, per uno scherzo del caso, non riuscirà a conquistare.
Se il principe azzurro è in realtà un donnaiolo trucido, non meno mostruosa è la figura del marito Ivan, che ha il volto tremendamente comune di Leopoldo Trieste, maschera perfetta di quell'Italietta ossessionata dall'immagine dell'onore piuttosto che dall'onore in sé stesso, il quale fa il diavolo a quattro per mantenere una virtuale rispettabilità dinanzi ai terribili parenti di città; un uomo gretto, quasi grottesco nella sua maschera di normalità ossessiva, spaventato a morte dall'abbandono della moglie, ma che non si fa scrupoli quando si tratta di tradirla a sua volta con una prostituta, un'amica di quella Cabiria che ha il volto buono di Giulietta Masina e che qualche anno dopo sarà protagonista di uni degli esiti migliori del cinema felliniano.




Sebbene non possa vantare né la carica visionaria, né la cattiveria dei suoi lavori più riusciti, "Lo Sceicco Bianco" resta un incipit interessante e riuscito per la carriera di Fellini, che già nell'arco del primo decennio della sua attività regalerà capolavori maturi quali i successivi "La Strada" e "La Dolce Vita".

mercoledì 29 gennaio 2020

Richard Jewell

di Clint Eastwood.

con: Paul Walter Hauser, Sam Rockwell, Olivia Wilde, Kathy Bates, Jon Hamm, Nina Arianda, Charles Green.

Biografico/Drammatico

Usa 2019
















L'archetipo di eroe che il cinema di Clint Eastwood propone da almeno una decina d'anni a questa parte sembra voler contraddire quello che lo rese celebre nei primi anni della sua carriera. E "Richard Jewell" ne è l'esempio più fulgido.
Come il capitano Sully, Jewell è un uomo di autorità che viene perseguitato dal sistema per il solo fatto di aver adempiuto al suo dovere; e come il Chris Kyle di "American Sniper", si ritrova suo malgrado ad essere il centro d'attenzione indesiderata.



La parabola di Jewell, morto nel 2007 per una crisi cardiaca, viene creata da Eastwood contrapponendolo ai due elementi essenziali della società americana, ossia il l'apparato governativo e quello dei media. Jewell è vittima di un accanimento ingiustificato da parte del FBI, che lo crocifigge nonostante l'assenza di prove a suo carico. I giornalisti, dal canto loro, sono costantemente pronti a sciacallare sulla sua figura, dandone per scontata la colpa.
Eastwood ritrae la sua storia e la sua figura in modo netto, senza neanche supporre una sua presunta colpevolezza nell'attentato del '96; questo non significa che lo idealizzi: come per Chris Kyle, anche per Richard Jewell lo status di eroe non copre i suoi difetti, come il suo attaccamento morboso alle armi o la sua storia di evasore del fisco.




Jewell finisce così per divenire l'emblema dell'uomo che crede nel sistema (sino ad idealizzarlo), ma che ne diviene suo malgrado vittima; e se per la giornalista Kathy Scrugg (la cui controparte reale ha citato in giudizio la produzione per il modo in cui è stata ritratta nel film) esiste una redenzione, non c'è scusa che regga per gli errori commessi dall'autorità, rei di aver perseguito un innocente per il solo gusto di trovare un colpevole da dare in pasto al pubblico.




Nel comporre il suo ritratto, Eastwood usa, come sempre, uno stile asciutto, "classico" nella migliore accezione del termine, restando sempre incollato al racconto e ai personaggi, creando una narrazione ferrea e appassionante.

lunedì 27 gennaio 2020

1917

di Sam Mendes.

con: Dean-Charles Chapman, George McKay, Daniel Mays, Colin Firth, Mark Strong, Benedict Cumberbatch, Toby Jones, Richard Madden, Pip Carter.

Guerra

Inghilterra, Usa 2019















Nel concepire e dirigere un'opera come "1917", Sam Mendes ha corso due grossi rischi; per primo, il rischio di creare una sorta di videogame non interattivo, dove solo la componente più spettacolare e distruttiva dell'esperienza bellica trovasse completa rappresentazione, come avveniva nella scena madre del nostrano "20 Sigarette", per chi se la ricorda; per secondo, il rischio di creare un semplice esercizio di stile, corretto nella rappresentazione della guerra di trincea, ma del tutto freddo.
Fortunatamente, entrambi i rischi sono stati evitati e l'ultima fatica del regista di "Skyfall" è un'opera densa, coinvolgente ed emozionante prima ancora che spettacolare.




Nel ritrarre le 24 nella vita di due soldati della Prima Guerra Mondiale, la distinzione tra ripresa oggettiva e soggettiva scompare, grazie all'uso dei lunghi piani sequenza; non c'è distinzione tra oggetto e soggetto e lo spettatore è chiamato a muoversi con i personaggi, a vedere e ascoltare quello che loro sentono e provano. La messa in scena oscilla così tra l'oggettività più cruda e concessioni all'espressionismo che culminano in immagini oniriche che squarciano il vero del reale per restituire la pura impressione.



Il punto di riferimento e probabile ispirazione sembra "Dunkirk" di Nolan, al quale anche la fotografia secca di Roger Deakins sembra ispirarsi.
Nella sua azione costruttiva, Mendes lascia che siano le sole immagini a parlare; non esistono sovrastrutture dialogiche, tutto viene comunicato tramite la macchina da presa, tramite le azioni che riprende e che scorrono su schermo. L'orrore della guerra, lo squallore della trincea e la tensione sono, di conseguenza, più palpabili che mai.



E se si vuole azzardare, si potrebbe sottolineare come, probabilmente, "1917" sia destinato a divenire un piccolo classico del cinema di guerra; di sicuro non un capolavoro, ma un tour de force nella Prima Guerra Mondiale di due ore che difficilmente resterà inosservato.

venerdì 24 gennaio 2020

Storia di un Matrimonio

Marriage Story.

di Noah Baumbach.

con: Scarlett Johansson, Adam Driver, Azhi Robertson, Wallace Shawn, Laura Dern, Ray Liotta, Kyler Bornheimer, Alan Alda.

Usa, Inghilterra 2019















In un'ideale premiazione per i cineasti più sopravvalutati degli ultimi due decenni, Noah Baumbach avrebbe quantomeno una menzione d'onore. Fautore e fondatore del movimento mumblecore, Baumbach è un artista in grado di dirigere attori, ma del tutto incapace di distaccarsi dai propri punti di riferimento artistici, i quali vengono riciclati sino allo sfinimento, nella costante ricerca di uno stile personale, che finisce, paradossalmente, per essere pedissequo sfoggio di cultura cinefila.
"Storia di un Matrimonio" da questo punto di vista non fa eccezione, ma riesce perlomeno ad avere una genuina carica romantica che gli permette di coinvolgere; anche grazie alle superbe performance di Scarlett Johansson e Adam Driver.



Baumbach crea i personaggi di Charlie e Nicole prendendo (ovviamente) spunto dalla sua biografia: lui è un regista teatrale ambizioso e dotato, lei un attrice che ha avuto un buon exploit ad Hollywood, ma che ha deciso di seguire il marito a New York, sacrificando la carriera per la famiglia. Il rapporto tra i due si incrina, senza un motivo apparente, il che li porterà a scontrarsi frontalmente con le proprie e altrui mancanze.
Nel ritrarre la crisi umana e matrimoniale dei due protagonisti, la messa in scena si fa reminiscente della lezione di Godard: come in "Fino all'Ultimo Respiro" e "Il Disprezzo", anche Baumbach segue con il proprio sguardo le interazioni dei due personaggi, lasciando gli attori perennemente al centro della scena. Gli incontri, gli scontri, le carezze e gli urli divengono protagonisti assoluti della narrazione e la regia riesce sempre a prendere il meglio senza quasi mai scadere nel patetico (mossa che molti finti-autori italiani dovrebbero appuntarsi).




Charlie e Nicole sono, in senso lato, l'immagine speculare l'uno dell'altra: entrambi talentuosi, entrambi ancora affascinati e in un certo senso legati al proprio partner, eppure lontani a causa di piccole incomprensioni. Due anime gemelle che potrebbero ancora unirsi, ma che elementi esterni continuano a tenere lontano. A cominciare dal figlio, vero e proprio oggetto di contesa nella battaglia legale che segue alla separazione, il quale, paradossalmente, non sembra curarsi affatto dell'amore dei genitori. Continuando, ovviamente, con gli avvocati, superbamente interpretati da un'altra ottima coppia, Ray Liotta e Laura Dern, mai troppo lodati anche loro, i quali incarnano il lato più distruttivo e antipatico della separazione, due veri e propri sciacalli pronti a cibarsi della carcassa dell'avversario.




La separazione diviene così una lotta per affermarsi sul partner, sotto la quale brucia ancora la fiamma di una passione mai sopita o passata e pronta a riesplodere; se non fosse, appunto, per la rotta di collisione che entrambi si ostinano a seguire.
Baumbach, oltre a rifarsi ai classici della Nouvelle Vague, innaffia di citazioni colte lo script, scadendo talvolta nel pretenzioso (davvero troppo compiaciuta è la querelle sul costume di David Bowie), ma sa sempre quando tagliare una scena, lasciando ogni esagerazione fuori campo; eccezion fatta per la scena del taglierino, davvero fuori luogo.




Inappuntabili sono invece le prove dei due protagonisti, che infondono di vera vita i due personaggi e non si tirano indietro davanti a nulla, divorando ogni scena con la loro magnetica presenza.
A conti fatti, "Storia di un Matrimonio" è un ottimo film d'attori, dove la regia è messa quasi esclusivamente a loro servizio e, per questo, risulta riuscito e coinvolgente.

giovedì 23 gennaio 2020

Killer Elite

The Killer Elite

di Sam Peckinpah.

con: James Caan, Robert Duvall, Arthur Hill, Bo Hopkins, Mako, Burt Young, Gig Young, Tom Clancy.

Azione/Spionaggio

Usa 1975














Sin dalla giovane età, Sam Peckinpah ha dovuto combattere contro il demone dell'alcool, piaga che ne ha deformato e irrigidito il carattere. Ma verso la metà degli anni '70, su insistenza di sua moglie e con l'aiuto dell'amico Warren Oates, riuscì a distaccarsi dalla bottiglia... solo per divenire schiavo della cocaina, che proprio Oates gli fece provare per la prima volta. Questa nuova dipendenza ne acuì un tratto particolare della personalità, ossia la paranoia verso complotti occulti architettati dal governo americano.
Paranoia personale che fa il paio con quella nazionale, largamente diffusasi nella popolazione americana a seguito dell'assassinio di JFK e dello scandalo Watergate: il governo americano diviene il simbolo di un male nascosto, che trama dietro le quinte ai danni della popolazione nazionale e dei popoli mondiali per il proprio tornaconto personale.
E' con uno spirito del genere che il grande regista californiano si approccia a "Killer Elite", trasposizione del romanzo omonimo di Robert Syd Hopkins (firmato sotto lo pseudonimo di Robert Rostand), che porta in scena personaggi loschi legati a doppio filo con la CIA e coinvolti in intrighi internazionali. Exploit che esce quasi in contemporanea con il classico "I Tre Giorni del Condor" e che Peckinpah dirige con passione e gusto, ma che purtroppo non è aiutato da una sceneggiatura fiacca e poco ispirata.




Gli agenti Mike Locken e George Hansen (James Caan e Robert Duvall, di nuovo insieme dopo "Il Padrino") sono gli uomini di punta di un'organizzazione privata di mercenari alla quale la CIA si rivolge per portare a termine lavori sporchi in modo pulito. Dopo la riuscita di una missione, Hansen tradisce il compagno e lo ferisce agli arti, per renderlo inservibile sul campo. L'occasione di riscatto per questi si avvererà grazie ad una missione di protezione di un politico cinese (Mako) che la CIA vuole scortare, ma che membri della classe politica cinese e nipponica vogliono eliminare, facendo ricorso proprio a Hansen.




Peckinpah fa suoi i personaggi di Rostand, i quali divengono quasi due controparti moderni di Pat Garrett e Billy the Kid, ossia due amici che il denaro e l'opportunismo mettono l'uno contro l'altro; e se Hansen è più smaliziato, cosciente del proprio ruolo di pedina in un gioco più grande di lui, il quale può ottenere unicamente un guadagno economico dalle situazioni in cui è invischiato, Locken è più idealista, ancorato ad un codice morale ma pur sempre cosciente della sua insussistenza in un'era dominata dall'idea del guadagno. Caan riesce infonde nel personaggio un tocco di disincanto ironico, che lo rende immediatamente simpatico, mentre Peckinpah ben enfatizza il suo legame con gli altri due compagni di missione, il maniaco delle armi Miller (Arthur Hill) e il rozzo ma efficace asso del volante Mac (Burt Young), presentandoli come un "mucchietto selvaggio" di idealisti in lotta contro le avversità e uniti dal legame indissolubile dell'amicizia virile.




Sfortunatamente, lo script non lo assiste: lo svolgersi degli eventi è farraginoso e i colpi di scena non sono enfatizzati a dovere, lasciando lo spettatore perplesso più che spiazzato. Peckinpah fa quel che può per salvare la visione, con il suo stile moderno dal montaggio frammentato perfetto nelle tempistiche e ammantando il tutto con un'ironia sardonica, ma la vicenda non decolla mai davvero. L'unica intuizione davvero riuscita risiede nell'ultimo atto, con l'attacco dei ninja contro il gruppo di eroi, che anticipa le influenze orientali che il cinema action americano subirà a partire dalla fine degli anni '80.




"Kller Elite" si pone così come una mera anticipazione del ben più riuscito e memorabile "Osterman Weekend", nel quale Peckinpah riuscirà a dare corpo ai medesimi fantasmi in modo più completo ed efficace. Una pellicola tutto sommato dimenticabile, anche se adorata dal suo cast, James Caan in primis.

domenica 19 gennaio 2020

Piccole Donne

Little Women

di Greta Gerwig.

con: Saoirse Ronan, Florence Pugh, Emma Watson, Eliza Scanlen, Timothée Chalamet, Laura Dern, Meryl Streep, Bob Odenkirk, Louis Garrel, Chris Cooper.

Commedia

Usa 2019













Impostasi all'attenzione della critica grazie al successo di "Lady Bird", la Gerwig torna alla regia per portare su schermo un progetto voluto da Amy Pascal: un nuovo adattamento del classico di Louisa May Alcott "Piccole Donne", che torna al cinema dopo il bell'exploit del 1994 diretto da Gillian Armstrong. E questa nuova versione si impone come la migliore, non solo rispettosa del tono del romanzo e dei suoi splendidi personaggi, ma anche moderna nella decostruzione del classicismo narrativo alla base della narrazione.




Le piccole gioie, i dolori, i sogni e gli amori delle sorelle March rivivono grazie ad un ensamble di attrici semplicemente strepitoso; sarebbe facile lodare in particolare le prove di Saoirse Ronan e Florence Pugh, candidate all'Oscar, ma sono solo le stelle più brillanti di un cast dove persino Emma Watson, solitamente inespressiva, riesce a donare spessore e simpatia al suo personaggio.




Nell'adattare il romanzo, la Gerwig infrange la linearità del racconto e lo spezza in una serie di flashback e flashforward; un'intuizione ottima, che rende il ritmo più veloce e permette di enfatizzare alcuni tra i momenti clou.
Sopratutto, l'autrice dimostra di aver assimilato il contenuto dell'opera originale, enfatizzando la crescita dei personaggi, il loro trasformarsi da ragazze a donne e lo spirito della loro unione.



Laddove la Gerwig si dimostra meno sicura, è nell'uso del montaggio spezzato e dell'otturatore chiuso per dare un ritmo artificialmente veloce alle singole inquadrature, bruttura estetica che sembrava scomparsa dalle produzione hollywoodiane e che invece ricompare proprio dove meno ce la si aspetta.
Difetto in fin dei conti da poco: una scrittura intelligente, una bella fotografia e l'ottimo cast rendono questo nuovo adattamento un gioiello di grande bellezza.

mercoledì 15 gennaio 2020

Hammamet

di Gianni Amelio.

con: Pierfrancesco Favino, Livia Rossi, Luca Filippi, Claudia Gerini, Renato Carpentieri, Silvia Cohen.

Biografico

Italia 2020

















Se c'è un tratto essenziale in "Hammamet" è quello di riportare l'attenzione su di un politico che sembra scomparso dalla coscienza collettiva; Bettino Craxi, odiato, vituperato e ridicolizzato in primis, solo per poi essere rivalutato dalla propaganda berlusconiana nel decennio scorso, sino a scomparire totalmente dai discorsi dei politici, fatta eccezione per un recente pamphlet di Renzi, che ne riprende sfacciatamente intere dichiarazioni.
Da Gianni Amelio, autore da sempre sensibile e intelligente, ci si aspettava una pellicola coraggiosa e scomoda; e, in un certo senso, "Hammamet" lo è... ma per i motivi sbagliati: è un tentativo, maldestro e autoassolutorio, di riabilitare la figura del suo protagonista, finendo per scadere in una retorica indifendibile.



Il prologo, in tal senso, è menzoniero: assistiamo alla ricostruzione del trionfo di Craxi, eletto segretario del partito, giustapposto al pentimento di uno dei suoi seguaci e amici, il quale sembra prevedere la stagione di Mani Pulite e si tira fuori dal malaffare; un confronto tra un politico rampante e gradasso contro un uomo che ha ritrovato l'onestà, un contrappunto volto a svelare il marcio che si cela sotto la coltre di egoismo del leader, al quale però seguono 120 minuti durante i quali Amelio fa un vero e proprio santino del suo protagonista.
La morale è semplice: Craxi era solo uno dei tanti lestofanti, né migliore, nè peggiore; quindi, secondo una classica retorica populista, se tutti rubano nessuno è colpevole; la sua diviene così una figura quasi cristologica, un agnello sacrificale esiliato (si dica mai che era latitante) che si fa carico dei peccati di un'intera classe dirigente; un uomo debole, afflitto dalla malattia nel corpo e nello spirito, contro cui il mondo sembra accanirsi. In questo panegirico sfrenato, persino la figura del ragazzo, figlio dell'ex amico e collega, finisce per ricredersi, per recedere dagli intenti omicidi per divenire testimone e complice affascinato dalla grandezza della figura dell'ex leader.




In una messa in scena volutamente vaga e simbolica, si alternano così diversi personaggi del passato del leader, tutti trasfigurati in maschere che ne celano l'identità piuttosto che risaltarne il ruolo: un'amante ancora innamorata (Moana? Ania Pieroni?), una figlia ribattezzata "Anita" come la donna di Garibaldi, un figlio privo di nome (Bobo) che si dibatte per avere l'amore del padre e un ex avversario politico che torna quasi a riconciliarsi con l'avversario. Il ruolo del "presidente", così come viene ribattezzato, è sempre lo stesso: un uomo triste e solo, stanco, divorato dal malessere fisico, sulla soglia della morte, eppure incredibilmente dignitoso, una figura tragica nella sua sconfitta totale, che annega nella solitudine imposta dagli "altri", dai giudici divoratori e da quegli ex alleati (Berlusconi, unico citato esplicitamente) che lo hanno abbandonato.




Una rilettura della persona ai limiti del vomitevole, perfettamente compiaciuta nella sua posizione, che dimentica la dimensione politica per focalizzarsi, codardamente, su quella umana: se il politico è stato un gradasso e corrotto, bisogna perdonare l'uomo, la figura sofferente e patetica; che poi questi non si sia mai davvero pentito delle sottrazioni economiche è un mero dettaglio; che abbia aperto la strada ad un'intera classe dirigente di ladri, corrotti e collusi, è un altro dettaglio di poco conto; che abbia esaltato la retorica del leader supremo e del relativo culto, in un rigurgito di ideologie para-fasciste, non conta ancora. Il tutto perfettamente confezionato in un'opera che, diabolicamente, è stata prodotta con i capitali pubblici della RAI, ovverosia soldi pubblici sottratti alla cittadinanza per produrre un ritratto che vuole riscattare la figura di un politico che sottraeva soldi pubblici per scopi personali. C'è davvero poco da aggiungere.




Se il tentativo di riabilitazione, maldestro e ruffiano, fallisce nel convincere, a salvare la visione sono unicamente il mestiere della regia e la straordinaria interpretazione di Pierfrancesco Favino, che fa riviere Craxi su schermo annullando la linea di demarcazione tra attore e personaggio, in una performance che da sola meriterebbe tutti i premi possibili, fin troppo lussuosa per un compiaciuto panegirico.

domenica 12 gennaio 2020

The Nightingale

di Jennifer Kent.

con: Aisling Franciosi, Sam Caflin, Baykall Ganambarr, Damon Herriman, Harry Greenwood, Ewen Leslie, Michael Sheasbie.

Australia, Usa, Canada 2018



















Presentato tra (ingiusti) insulti gratuiti e premi più dovuti che meritati a Venezia 75, "The Nightingale" è decisamente una pellicola di rottura, che non vuole fare compromessi e che si può solo (in teoria) amare o odiare visceralmente.
Polarizzazione dovuta non tanto agli argomenti trattati, ossia la sottomissione, la misoginia e la barbara violenza del maschio bianco, quanto per la sua volontà di trincerarsi dietro un racconto secco, privo di qualsiasi sfaccettatura (o quantomeno dotato di ben poche sfaccettature), che urla in faccia le proprie tesi allo spettatore, senza ritegno né vergogna anche quando le ritratta.
E', di conseguenza, facile tacciare Jennifer Kent di faciloneria, oltre che di quel manicheismo che la avvicina più ai Social Justice Warriors che al vero femminismo; eppure, "The Nightingale" è dotato di una forza non comune e riesce, sia pure nel modo più semplicistico possibile, a smuovere.




La Kent rinchiude i personaggi in fotogrammi in 4:3, inquadrature serrate che negano una visione d'insieme, lasciando i singoli personaggi isolati in una zona negativa dalla quale si dibattono senza mai riuscire a liberarsi.
Forma che racchiude la sostanza di una storia che definire cupa sarebbe eufemistico: nella Australia del colonialismo, Clare (Aisling Franciosi) è una giovane donna di origini irlandesi condannata all'esilio, la quale è sottomessa, sia fisicamente che mentalmente, allo spietato capitano Hawkins (Claflin), giovane ufficiale frustato dal mancato avanzamento di carriera. Usata come "usignolo" per sollazzare le truppe, Clare viene ripetutamente stuprata da Hawkins, finché, una sera, suo marito Aidan (Sheasbie) non decide di ribellarsi, finendo ucciso per mano di Hawkins, il quale causa anche la morte della loro piccola figlia. Annegando nel dolore fisico e spirituale, Clare decide di attuare la propria vendetta contro il capitano, inseguendolo per i boschi, aiutata unicamente dal tracker aborigeno Billy (Ganambarr).




Una storia di violenza e sopraffazione, quella imbastita dalla Kent, dove la divisione tra vittime e carnefici è sempre netta; la donna è, in primis, oggetto da sfruttare e sottomettere, prigioniera di nome e di fatto del maschio, il quale la usa unicamente per soddisfare i propri bisogni. Al suo pari, il nero, quell'aborigeno che tutt'oggi risulta schiacciato dal colonizzatore bianco, è soggetto da sfruttare, deridere e distruggere, prima ideologicamente e poi fisicamente.
La violenza, in "The Nightingale" è quasi sempre esplicita e brutale: corpi bucati da rudimentali lance, colpi di pistola che forano le carni in modo esplicito e, prima ancora, grida disumane che impongono la sottomissione al dominatore. La Kent si tira indietro solo in due occasioni: la prima, più condivisibile, è la morte del bambino aspirante soldato, ucciso per puro sollazzo una volta capita l'impossibilità di irregimentarlo al pari degli altri sottoposti. La seconda, più ipocrita, è l'uccisione del canguro, unico strumento di sopravvivenza; e non si capisce perché si dovrebbe essere più dignitosi verso la morte di un animale che di un neonato.




Presa di posizione che, si diceva, rende semplice il lavoro alla Kent, la quale riesce a disturbare senza mai davvero infastidire (mai sia far riflettere gli animalisti sui bisogni dell'essere umano...), la quale costruisce la storia come un lungo inseguimento all'interno di spazi angusti, tutti uguali, una selva mentale prima ancora che fisica.
Se il ribaltamento di ruolo tra vittima e carnefice si attua per i primi 3/4 del racconto, con la protagonista che uccide spietatamente almeno uno dei suoi aguzzini, nel finale la Kent sembra perdersi rincorrendo una forma di moralità aliena al resto del racconto. Non si capisce come mai, messa di fronte alla fonte di tutti i suoi mali, la protagonista non riesca ad andare in fondo con il suo intento vendicativo, limitandosi ad imbastire un discorsetto moralistico sulla cattiveria gratuita e lasciando il lavoro sporco all'aborigeno, ossia al maschio, quasi a voler confinare la violenza ad una dimensione prettamente maschile, in un rigurgito di moralismo manicheo del tutto indigesto e indifendibile.
Decisamente più riuscita e condivisibile è invece la trovata di far aiutare i protagonisti, nel momento del bisogno, da un anziano bianco, quasi l'incarnazione del patriarcato riletto in chiave positiva, che allontana, in parte, le posizioni della Kent dalla sfacciata e stupita dialettica veterofemminista anglofona degli ultimi anni.




Nel contraddire le proprie posizioni e ricercando una dimensione sessuata e sessista nella violenza, la Kent finisce per inciampare nelle trappole più ovvie di una morale in fondo falsa. Se il grido accusatore verso una razza che ha fatto della sopraffazione lo strumento dello propria affermazione risulta veritiero, anche storicamente, più ignobile è l'affermazione di una figura femminile vista come unica depositaria della ragione, sia essa affermata tramite la violenza, sia essa decantata a belle parole. Non tanto e non solo per la contraddizione mostruosa che una tale affermazione porta in sé, quanto anche e sopratutto per la convenienza retorica che genera: bello e semplice è dire che la donna ha sempre ragione, anche quando rifugge codardamente dai propri propositi.




Contraddizioni retoriche a parte, "The Nightingale" ha comunque dalla sua una forza espressiva inusitata e viscerale, in grado di fare leva facilmente sul ventre dello spettatore nel migliore dei modi; un racconto cupo e forte che prova, comunque, il talento della sua autrice.

mercoledì 8 gennaio 2020

Jojo Rabbit

di Taika Waititi.

con: Roman Griffin Davis, Thomasin McKenzie, Taika Waititi, Scarlett Johansson, Sam Rockwell, Rebel Wilson, Alfie Allen, Stephen Merchant, Archie Yates.

Commedia/Grottesco

Nuova Zelanda, Usa, Repubblica Ceca 2019














In un periodo storico caratterizzato dal ritorno in auge dell'estrema destra, con le masse popolari che (per ignoranza e ingordigia più che altro) riscoprono vecchi slogan xenofobi e si atteggiano a suprematisti del sabato sera nello sterile tentativo di ottenere un vantaggio (economico o meno che sia), è importantissimo ricordarsi dei disastri passati, di come la cecità mascherata da bisogno abbia condotto all'orrore più nero intere nazioni. E Taika Waititi lo fa nel modo più radicale, riesumando il fantasma di Hitler per sbeffeggiarlo, ridurlo a caricatura folle e fuori da ogni logica per svelarne le ipocrisie, proprie e dei propri seguaci, in una commedia irriverente e riuscita.



Commedia che riprende il punto di vista più scomodo, quello di un bambino cresciuto durante il III Reich, Johannes "Jojo" (interpretato con sfavillante efficacia dal giovanissimo Roman Griffin Davis), virgulto della Gioventù Hitleriana che, a causa di un surreale incidente con una granata, è costretto a ritirarsi dal campo di addestramento e a restare a stretto contatto con la madre (Scarlett johansson); il che lo porta a scoprire un insospettabile segreto: non solo la madre è una fervente anti-hitleriana, ma ha anche nascosto in casa una giovane ragazza ebrea, Elsa (Thomasin McKenzie).



Il racconto viene spezzato in due, con una prima parte più caotica e leggera ed una seconda più stoica e drammatica. Al centro, la storia di un rapporto, quello tra Jojo e Elsa, basato sulla conoscenza dell'oggetto dell'odio. Jojo è un fervente nazista, che ha assimilato le fandonie della propaganda come solo un bambino può, ossia nel modo più radicale. E' pienamente convinto che gli Ebrei siano la razza inferiore, veri e propri mostri parassiti della società in grado di mesmerizzare e divorare il prossimo. La formazione del giovane hitleriano viene cucita in parte addosso agli sketch iniziali, folli e divertenti nella loro cinica impertinenza, in parte dal rapporto con la figura idealizzata del führer, interpretata con trasporto dallo stesso Waititi; una figura caricaturale, che nei suoi istrionismi riesce per davvero a svelare le contraddizioni, ridicole e al contempo spaventose, della dottrina nazista.



Il superamento dell'indottrinamento avviene tramite la graduale conoscenza dell' "altro", l'ebreo, il nemico, figura detestata e al contempo mai davvero conosciuta. Conoscenza che avviene nel modo più singolare, con un primo incontro durante il quale tutte le certezze del giovane nazista vengono sovvertite in un sol colpo; allo xenofobo rampante non resta così che appigliarsi con tutte le sue forze a quella oscurantistica dottrina che tante false certezze inculca, solo per poi esserne gradualmente liberato; il rapporto tra Jojo e Elsa, benché divenga una vera e propria storia d'amore, non si adagia mai su classici schematismi della medesima, essendo sempre narrata come la storia di una scoperta, quella della dignità del presunto avversario.




Nella seconda parte, Waititi carica di orrore la vita del giovane Jojo e dei comprimari, portando in scena una morte improvvisa, dolorosa e spiazzante, solo per poi far precipitare tutto nel vortice della violenza, la quale, condita da visioni grottesche e ciniche, risulta ancora più brutale.
Ma è con l'arma della commedia che Waititi riesce a fare il maggior danno; lo sberleffo, per sua stessa natura, non riconosce la dignità del suo oggetto, il quale viene così ridotto ad una serie di istrionismi privi di senso, gesti e parole (i continui "Heil Hitler!" scambiati dai personaggi) che si fanno meccanica applicazione dell'ottusità mentale, a sua volta causata da principi semplicemente idioti nella loro vis intollerante.




Come Chaplin ne "Il Grande Dittatore", Waititi riesce perfettamente a "mettere a nudo il re" ridicolizzandone i difetti, con una commedia dolceamara irresistibile.

sabato 4 gennaio 2020

The Lighthouse

di Robert Eggers.

con: Robert Pattinson, Willem Dafoe, Valeriia Karaman.

Canada, Usa 2019




















Dopo i consensi raccolti con il bel "The Vvitch", la curiosità verso la nuova opera di Robert Eggers era davvero tanta; curiosità accresciuta una volta che le prime immagini di "The Lighthouse" sono state pubblicate: caratterizzate da un bianco e nero livido e contrastato, da un'alternanza di luci e ombre a dir poco espressionista, quei pochi frame facevano già capire come l'opera seconda dell'acclamato regista sarebbe stato tutto fuorché qualcosa di convenzionale.
Tant'è che si potrebbe scambiare questo suo secondo film come il suo esordio: ancora più intimo e stilizzato, sperimentale sin nel midollo, ha tutto ciò che un buon cinefilo potrebbe aspettarsi da un enfant prodige pronto a stupire.



Adattando il racconto (rimasto incompiuto) "Il Faro" di Edgar Allan Poe, Eggers crea un nuovo spaccato di una discesa, lenta e inesorabile, verso la follia. Nel faro dove Tom (Dafoe) e Ephraim (Pattinson) sono custodi, qualcosa di sinistro sembra celarsi dietro ogni angolo, da una creatura lovecraftiana che forse investa l'isola sino alle visioni di una sirena spiaggiata che ammalia con la sua voce, passando per i rapaci gabbiani, i quali forse sono davvero le anime dei marinai morti che non trovano pace. O forse nulla di tutto questo è reale, forse sono solo superstizioni e impressioni dovute alla solitudine e all'alcool.



Proprio come in "The Vvitch", anche in "The Lighthouse" il confine tra realtà è allucinazione è inesistente; confusione che la regia sottolinea grazie alla fotografia: il formato video in 4:3 permette di chiudere i personaggi in inquadrature asfittiche, mentre il bianco e nero, talmente livido da riportare alla mente quello di "L'Ora del Lupo" di Bergman, dona un tocco ancora più visionario alle ricercatissime immagini.



Quello di Ephraim è un viaggio allucinato verso il fondo dell'anima, dove peccati rimossi incarnati da veri e propri demoni marini si dibattono selvaggiamente, alimentati dal senso di straniamento dovuto alla solitudine e alla percezione sballata del reale a causa dei fumi dell'alcool. Nulla di quanto mostrato è reale, tutto è una proiezione immaginifica del disturbato subcosciente del personaggio. Il che avvicina il racconto al cinema di David Lynch, in particolare al folgorante "Eraserhead", dal quale però Eggers sa distaccarsi creando un proprio stile, ricercatissimo e elegante, dove ogni singola immagine ha la forza espressiva di una foto d'epoca. E se Robert Pattinson stupisce per espressività e carica drammatica, Dafoe si conferma interprete straordinario, donando al suo personaggio una furia ancestrale tangibile.




Meno complesso rispetto a "The Vvitch", più secco e viscerale, "The Lighthouse" è un'opera affascinante e elegante, la conferma del talento di un autore che, si spera, avrà una rosea carriera davanti a sé.