sabato 29 febbraio 2020

Convoy- Trincea d'Asfalto

Convoy

di Sam Peckinpah.

con: Kris Kristofferson, Ali McGraw, Ernest Borgnine, Burt Young, Magde Sinclair, Franklyn Ajaye, Seymour Cassel, Brian Davies.

Commedia/Azione

Usa 1978














Data la caratura della sua filmografia, è ovvio pensare a Sam Peckinpah come ad un autore vero e proprio, dotato di un proprio e originale stile, nonché di una sua filosofia umanistica. E come tutti i grandi autori, lo zia Sam è riuscito ad essere coerente anche quando chiamato a dirigere un film su commissione. E' il caso del bel "Convoy" del 1978. basato su di uno script di Bill Norton a sua volta ispirato dall'omonima hit western di C.W. McCall. Una canzone che grazie agli anni e all'exploit filmica è divenuta un classico immediatamente riconoscibile. E per la sua controparte filmica, Peckinpah chiama gli amici Kris Kristofferson e Ernest Borgnine per i due protagonisti e Ali McGraw per l'interesse amoroso. Sul set è però spesso sostituito da James Coburn, accreditato come regista della seconda unità, ma fautore di molte sequenze; la dipendenza dalla coca di Peckinpah raggiunge in quell'anno il picco e persino il presunto sconfitto demone dell'alcool torna a tormentarlo. Paradossalmente, "Convoy" si configura come il suo film più divertito.




Lo scontro tra i due protagonisti, Anatra di Gomma e lo sceriffo Dirty Lyle Wallace, potrebbe tranquillamente essere declinato in chiave seria; da un lato un camionista romantico e anarchico, insofferente ad ogni forma di autorità, che cavalca il suo Mack per le strade dell'ovest americano senza freni; dall'altro un tutore della legge corrotto, che vive solo per compiacere sé stesso. Due reliquie del passato che rivivono nel presente come gli ultimi esponenti di un'antica razza, con tanto di epilogo che mima quello de "Il Mucchio Selvaggio".




Ma al buon Sam questa volta non va di cantare la fine di un'era o di un ideale; il romantico sopravvive, anzi rinasce a nuova vita dopo la sconfitta, pronto per continuare a cavalcare con la sua carovana, reminiscenza di quelle dei pionieri del West.
Allo stesso modo, il tono epico e drammatico viene simpaticamente scansato, quasi scimmiottato da una messa in scena che estremizza lo stile proprio dell'autore: da antologia la rissa nel diner, dove il montaggio spezzato a diversa velocità diviene ossessivo; o anche la scena in cui i tir danzano il walzer nel deserto, quasi una parodia del sentimento di libertà che i camion rappresentano.




Camion che, come le moto di "Easy Rider", divengono simbolo di ribellione, formando una moderna carovana che fugge dal presente per ripercorrere il percorso degli avi, in antitesi alla corruzione, morale e materiale, dilagante; carovana che rifiuta qualsiasi ideale e compromesso, se non quello religioso, in ossequio alla tradizione, divenendo incarnazione di un'anarchia quasi totale, ma mai distruttiva, quanto reminiscenza di un'idea di libertà primigenea e per questo dimenticata, mentre le highway vengono inquadrate come la Monument Valley al tramonto, nuova "terra vergine" da scoprire un miglio alla volta.



Ed è proprio il tono scanzonato che rende gustosissima quest'ultima escursione di Peckonpah nel mito del west. "Convoy" è una pellicola poco ambiziosa, ma deliziosa, ormai un piccolo classico di quel cinema "Grindhouse" tanto amato da Tarantino, che da qui riprende il feticcio del fregio a forma di anatra, dimostrando come anche il cinema meno pretenzioso possa talvolta divenire seminale.

mercoledì 26 febbraio 2020

I Due Papi

di Fernando Meirelles.

con: Anthony Hopkins, Jonathan Pryce, Renato Scarpa, Juan Minujin, Luis Gnecco, Cristina Bangas, Sidney Cole, Libero De Rienzo.

Biografico

Inghilterra, Italia 2019















L'inconciliabilità caratteriale a volte determina davvero una forma di comunione; questa è, in fondo, la lettura principale che Fernando Meilleres e lo sceneggiatore Anthony McCarten danno agli incontri tra i due papi, due figure, quelle di Ratzinger e Bergoglio, agli antipodi sia come persone che come ministri del culto.
I due autori partono dai più terreni degli avvenimenti: la morte di Giovanni Paolo II nel 2005 e l'abdicazione di Benedetto XVI nel 2013; due eventi che hanno scosso la Chiesa e il mondo, cambiandone per sempre la percezione da parte dei fedeli. Da un lato la fine di un pontificato che è riuscito a riportare la fede in quegli strati sociali più poveri che, nel corso del Secondo Dopoguerra, sembravano incontrovertibilmente indirizzati verso una forma di laicismo che rasentava l'ateismo. Dall'altro, la rinuncia di un pontefice gravato da un'eredità storica e politica insostenibile.
Il racconto intessuto dai due autori, tuttavia, parte dall'attualità per farsi subito racconto privato di due vite vissute in modo opposto.



McCarten già aveva dimostrato di saper descrivere l'uomo dietro la figura pubblica in "L'Ora più Buia" e "La Teoria del Tutto", mentre Meirelles, sudamericano, è per forza di cose attratto da quel Bergoglio che ha fatto della sua identità nazionale un punto di forza. Bergoglio diviene così figura cardine nella ricostruzione della storia umana e politica che dall'Argentina si fa cartina di tornasole per tutto il Sud America: la vicinanza alle classi più povere, il rapporto ondivago con i gruppi rivoluzionari, la coesistenza forzata con la dittatura e la difficoltà di rimanere coerenti in un contesto dittatoriale. Bergoglio, perfettamente incarnato nella performance divertita e empatica di Jonathan Pryce, si fa così figura predominante e sfumata, uno e mille, persona e personificazione di un intero continente. La sua colpa, il suo peccato e la relativa penitenza divengono universali, travalicando ogni forma di particolarità.




Se il papa argentino si fa figura nella quale immedesimarsi e perdersi, Ratzinger è per forza di cose figura più ostica, lontana dall'empatia eppure al contempo straordinariamente umana; un uomo chiamato a sostituire nell'immaginario collettivo quel Karol Wojtyla che ne adombra da subito il pontificato; uno studioso, prima ancora che uomo, il cui carattere ai limiti del marziale ne aliena le simpatie; la sua è una storia privata, il suo peccato mai davvero svelato: tolleranza verso la pedofilia? Verso la malversazione imperante in Vaticano? Non è dato sapere, né è necessario; ciò che conta è la sua visione del pontificato, più antiquata ma anche più vicina al ruolo storico del Papato, forse fuori tempo massimo ma sicuramente solida nella sua impostazione.




Il gap caratteriale tra i due personaggi è immane e per paradosso puro è proprio questo che crea una forte stima reciproca; due teologi e uomini agli antipodi, eppure capaci di comprendersi a vicenda, di trovare il buono annidato persino nelle peggiori azioni dell'altro. Un rapporto che da turbolento si fa subito rispettoso, sino a sfociare nell'amicale. E dal confronto delle due persone emerge un quadro completo dell'importanza istituzionale del Papa, come guida umana prima ancora che spirituale.




Mereilles rinuncia in parte ai suoi soliti virtuosismi, relegando l'eleganza ai soli flashback sulla giovinezza di Bergoglio; adotta uno stile secco, dove le singole immagini ritrovano senso solo nel montaggio, spezzato e basato sulle giustapposizioni; stile che sfiora il documentaristico e che gli permette di avvicinarsi maggiormente ai suoi personaggi anche sul piano meramente estetico.
La ricerca di autenticità trova così una piena applicazione e il ritratto che segue, oltre che veritiero, appare giusto e condivisibile; oltre che graziato da due prove attoriali a dir poco ottime.

mercoledì 19 febbraio 2020

I Vitelloni

di Federico Fellini.

con: Alberto Sordi, Franco Interlenghi, Leopoldo Trieste, Franco Fabrizi, Riccardo Fellini, Leonora Ruffo, Jean Brochard, Claudia Farrell, Carlo Romano.

Italia, Francia 1953
















Quando "Lo Sceicco Bianco" uscì al cinema, tra le sale deserte e i fischi della critica, nessuno avrebbe puntato una lira sulla carriera di Federico Fellini, il quale, anzi, veniva già dato per spacciato come regista. Fortunatamente, la sorte decise di dargli una seconda occasione, che prese la forma de "I Vitelloni", secondo lungometraggio e incredibile successo, sia di critica che di pubblico, che trasformò Alberto Sordi in una star e consentì a Fellini di vincere il Leone d'Argento alla XIV Mostra del Cinema di Venezia.





Un'opera seconda che ha fatto scuola sin dalle premesse, che vedono il giovane autore narrare in prima persona fatti e personaggi privati; dove, però, a differenza di quanto sarebbe stato fatto da altri in seguito, nulla di quanto portato su schermo è effettivamente vero.
Bisogna sempre tenere conto di come il grande artista riminese si contrappose, quasi in polemica, con la verosomiglianza del cinema neorealista, preferendo un approccio più visionario alla realtà. Quella de "I VItelloni" non è la vera storia della giovinezza di Fellini (così come non lo sarà davvero neanche "Amarcord"), ma è una storia ispirata a quella giovinezza, dove fatti e personaggi vengono rielaborati in modo fantasioso, distrutti e ricreati per divenire più veri del reale, più vicini alla realtà di quanto le loro controparti reali meramente trasposti su schermo potessero essere. Fellini "il gran bugiardo" ha ammesso in prima persona di essersi creato una giovinezza, sottolineando la sua opera come finzione, restando però sempre fedele a quella veridicità che restituisce in modo simbolico, quasi astratto. E, di fatto, i cinque Vitelloni sono personaggi di un'umanità a tratti disarmante.




Cinque giovani uomini letteralmente spiaggiati all'interno di un microcosmo chiuso, un piccolo paese (anch'esso fasullo e simbolico, ricreato cucendo gli esterni di Viterbo, Ostia e Firenze) lontano dal mondo, che vive di piccole gioie e piccoli drammi, dove nulla sembra contare davvero per loro, di certo non le relazioni amorose, rincorse ma mai davvero ricercate, né i rapporti familiari, che anzi talvolta finiscono solo per stritolarli, tantomeno il lavoro, schivato e schifato apertamente. I vitelloni sono degli scansafatiche che vegetano al sole, incapaci di fare qualcosa della loro vita anche e sopratutto perché tutto ciò non interessa loro, persi come sono nelle chiacchere e nelle finte aspettative. Ed ognuno di loro finisce così per essere una facciata del medesimo personaggio.




Fellini delinea questi suoi personaggi di concerto con Ennio Flaiano e Tullio Pinelli; i tre iniettano nel quintetto virtù e sopratutto vizi che rispecchiano non solo i propri, ma anche quelli comuni agli italiani dell'epoca.
Primo fra tutti, Fausto (Franco Fabrizi), il riconosciuto "leader spirituale del gruppo", è un individuo sottilmente disgustoso, ai limiti dell'apertamente stomachevole, un ragazzetto che vede le donne come un passatempo, il quale non si assume mai la responsabilità del suo ruolo di padre, di marito o di adulto, nonostante pretenda il rispetto dagli altri. Un piccolo-grande mostro di egoismo che ha una giusta catarsi solo quando viene messo spalle al muro, percorso da quella violenza educativa che solo un genitore può dispensare, unico viatico per fargli comprendere l'importanza dell'amore e del rispetto che gli altri provano per lui.




Vera e propria nemesi di Fausto è il mite Moraldo (Franco Interlenghi), un vero e proprio spettatore degli eventi, che accompagna di volta in volta l'amico protagonista del singolo segmento sorreggendolo e talvolta guidandolo. Un personaggio che rispecchia il punto di vista più mite del suo autore, quello passivo, che assiste al dipanarsi degli eventi senza riuscire mai ad esserne veramente  al centro. E sarà proprio lui, alla fine, a decidere di fare il grande salto, di abbandonare il paese e le chiacchere sul futuro per prendere questo in mano e realizzarsi; un'azione che arriva solo nel finale, riscattandone il protagonista e facendolo evolvere: il suo punto di vista, alla fine, rispecchia in toto quello dello stesso Fellini, provincialotto di belle speranze che decide di emanciparsi abbandonando gli scanzonati amici; tanto che quell'ultima battuta che recita sul treno in partenza per Roma è doppiata dallo stesso regista, che si immerge totalmente nel suo personaggio.




Altro punto di vista di certo vicino a quello dell'artista è sicuramente quello di Leopoldo, l'autoruncolo di drammoni da camera, incarnato nel volto da perdente di Leopoldo Trieste, che lo rende come un eterno sconfitto, un uomo di sicura ambizione, che lo fa distingue dai coetanei, ma che il destino decide di prendere in giro, calandosi nelle fattezze di un rinomato attore che si diverte a stuzzicarlo solo per ottenerne in cambio i favori; scambio che, ovviamente, spiazza il giovane e ne stronca in definitiva ogni volontà.




Se il personaggio di Riccardo, interpretato dall'omonimo fratello di Fellini, costituisce una sorta di punto di vista interno alla vicenda nonché presenza virtuale dell'autore nella sua stessa opera, di ben altro spessore è l'Alberto interpretato da Sordi, vera e propria maschera tragica calata all'interno di una commedia beffarda.
Alberto è un clown triste, un uomo che cerca di schivare il dolore così come la responsabilità, ma che viene di volta in volta costretto a fronteggiarli, nelle forme dell'abbandono della sorella; un personaggio che si lascia sopraffare dalle emozioni negative sino al punto di sprofondare nella depressione (così come farà il personaggio di Marcello ne "La Dolce Vita"), dalla quale riemerge solo sbeffeggiare il prossimo, ossia quei lavoratori che, asserviti nel bene e nel male alle responsabilità, sono per lui dei falliti che meritano il famoso gesto.




Fellini posa sul suo mondo uno sguardo agrodolce, lo sguardo maturo di chi riguarda al passato sapendo coglierne i lati più simpatici così come quelli che lo sono di meno. Se la descrizione del microcosmo in cui i personaggi si muovono è a tratti acida nel sottolinearne gli aspetti più immaturi e infantili, senza mai davvero arrivare a sbeffeggiarli con vera cattiveria, del tutto feroce è il modo in cui descrive il quintetto di personaggi e le loro pecche, esagerando i toni, gonfiandone i difetti e rendendo i pregi come delle vere e proprie debolezze; Fellini fa a pezzi quasi ogni loro aspetto, mettendone a nudo la codardia, la scarsa intelligenza e la quasi nulla considerazione di sé, il tutto mentre adotta un tono leggero per il racconto, che si dischiude su schermo come una favola sospesa in un'atmosfera rarefatta, magnificamente sottolineata dallo score di Nino Rota.
Una favola dove ciascun personaggio è oscilla costantemente tra il ruolo dell'eroe e quello del mostro, sino a divenire la maschera di un'Italia meschina nella propria piccolezza, pronta a fagocitare quanto di buono possa esserci nella società per omologare tutto e tutti alla mediocrità imperante e, sopratutto, asservita ad un egocentrismo distruttivo che, un po' alla volta, spazza via quanto di buono possa esserci.




Una nazione amara, una società che distrugge quanto c'è di buono per puro spirito di autoaffermazione; conflitto che viene confinato dapprima nella relazione (che oggi definiremo "tossica") tra Fausto e Sandra, dove quest'ultima viene costantemente dileggiata solo perché buona sino all'ingenuità, per poi farla deflagrare addosso e per il tramite degli altri personaggi, i quali, in un modo o nell'altro, finiscono sempre per essere atterriti dagli eventi; persino la fuga di Arnaldo è incorniciata nell'ambito di un processo di presa di coscienza che si avvia con la mera testimonianza e termina con la piena realizzazione di quanto di sbagliato ci sia nella non-vita dei Vitelloni.




Un punto di vista, quello di Fellini, che appartiene a chi ha saputo distanziarsi da uno stile i vita dedito all'autocompiacimento e che riesce ad essere sempre sincero, perché schietto e mai compiaciuto. Abilità che solo i grandi artisti possono vantare.

giovedì 13 febbraio 2020

La Croce di Ferro

  
Cross of Iron

di Sam Peckinpah.

con: James Coburn, Maximillian Schell, James Mason, David Warner, Klaus Löwitsch, Senta Berger, Vadim Glowna, Roger Fritz.

Guerra

Inghilterra/Germania Ovest 1977








Il fatto che un film come "La Croce di Ferro" non venga elogiato o discusso quanto dovrebbe risulta essere un vero mistero, sopratutto se si pensa alla piega che il cinema di guerra avrebbe preso a partire dalla fine degli anni'70. Il piccolo capolavoro di Peckinpah anticipa infatti molte delle tematiche presenti nei war-movie a venire, prima fra tutte la descrizione della guerra come trionfo di una follia anarchica che distrugge i soldati prima su di un piano psicologico che su quello fisico, che di lì a poco sarebbe stato messo nero su bianco da capolavori quali "Apocalypse Now" e "Và e Vedi".
E di cose da dire sul lavoro svolto dal grande cineasta californiano ce ne sono davvero parecchie, denso com'è nei suoi 132 minuti di durata.



Adattando le pagine del romanzo di Will Heinrich, Peckinpah crea una dualità totale tra i personaggi di Steiner (James Coburn) e Stransky (Maximillian Schell); il primo eroe del popolo, coraggioso e attaccato sino alla morte ai suoi camerati, non un soldato, né un semplice sottufficiale, ma un vero e proprio guerriero d'altri tempi, il cui coraggio è sinonimo di correttezza e umanità; Stransky è invece un nobile, tronfio e sin troppo orgoglioso delle proprie origini prussiane, un aristocratico che sottomette con il ricatto i suoi ufficiali, un codardo che non guida i propri uomini in missione, verso i quali non prova alcun sentimento e che mira ad ottenere la croce di ferro del titolo solo per dimostrare il proprio valore all'interno della propria famiglia, come un bambino mandato in collegio.
Steiner è un uomo d'onore, Stransky un vigliacco bardato in un'uniforme che gli permette di fare il buono e cattivo tempo; il loro scontro è totale.




Steiner finisce per rappresentare al contempo sia l'anarchia, sia quel coacervo di ideali che da sempre contraddistinguono l'eroe peckinpaiano; il rifiuto verso l'autorità, sia essa quella del codardo Stransky che quella degli ufficiali a lui più vicini, è netto e fondato sul rifiuto di quella subordinazione gerarchica che permette a questi di decidere vita e morte del prossimo. Al contempo, egli rappresenta quello spirito di cameratismo e di sacrificio comune al vecchio codice d'onore, che, cronologicamente, durante la II Guerra Mondiale non è andato solo perduto e dimenticato, ma del tutto distrutto da una modernità che ha spazzato via quanto c'era di buono nel passato.




Allontanandosi in parte dai suoi schemi abituali, Peckinpah sottolinea la differenza tra i due personaggi anche in un modo inedito nel suo cinema, ossia tramite la dissertazione dell'omosessualità. Per Stransky, l'attrazione che un suo ufficiale prova per il proprio attendente è motivo di vergogna e, per questo, di ricatto, tanto che finisce per usarla per manipolarlo sino alle estreme conseguenze. Di tutt'altra natura è invece il bacio che viene scambiato tra i due camerati di Steiner, in pubblico, una dimostrazione affettiva (che anticipa, di nuovo, quanto farà Nagisa Oshima in "Furyo") non strettamente confinata nei limiti dell'attrazione, ma inserita nel contesto più ampio del cameratismo, che lo rende, di fatto, atto di comprensione totale, consumato in pubblico e senza remore alcuna, poiché reso dinanzi a uomini il cui codice morale è in armonia con comportamenti del genere; non ci sono pregiudizi né vergogna laddove tutti gli uomini si sentono eguali.




Lo scontro tra le due personalità è brutale e si consuma sino alle estreme conseguenze. Ma ancora più brutale è il contesto in cui questo avviene. La guerra, nello sguardo di Peckinpah, non è lotta per l'affermazione di un ideale o per affermazione individuale, bensì un massacro nel quale gli uomini tentano solo di sopravvivere; da qui la scelta di prendere il punto di vista degli uomini della Wehrmacht durante gli ultimi giorni dello'Operazione Barbarossa, dove la disfatta si fa via via più totale. La guerra è l'incarnazione della follia, ossia della perdita di ogni forma di rispetto verso la vita, la quale viene spogliata di ogni forma di umanità. E, anche qui, non è un caso il fatto che una delle prime vittime sia un ragazzino, reminiscenza di quella "Infanzia di Ivan" di Tarkovsky che viene sfrondata da ogni innocenza. Allo stesso modo, torna la visione della donna come vittima della violenza, nella sequenza dell'avamposto con le soldatesse russe, le quali regrediscono a ninfee assassine pur di sopravvivere.





Una follia, quella bellica, dalla quale è possibile fuggire per tornare a quella vita borghese la cui bellezza e serenità sono simboleggiate dall'apparizione di un'angelica Senta Berger; salvezza che viene però rifiutata, da Steiner, per senso del dovere, per poter tornare da quei commilitoni il cui pensiero non lo ha mai abbandonato.





L'effetto distorsivo che lo scenario bellico opera sul protagonista viene ricreato da Packinpah acuendo quelli che sono i tratti caratteristici della sua messa in scena; il montaggio spezzato e l'uso di diverse velocità per le inquadrature intercalate creano ora un effetto straniante, dove tutte le coordinate spazio-temporali vengono meno. Si resta spaesati durante i bombardamenti e le sparatorie, come in preda ad una sensazione di paura che corrompe i sensi, divenendo tutt'uno con i personaggi.
Dinanzi al dipanarsi degli eventi, ci si sente come dei bambini catapultati in un mondo adulto dove nulla ha davvero senso, se non l'istinto di sopravvivenza.




La narrazione cruda e schizofrenica crea così una sorta di anti-epica bellica nella quale lo spettatore è chiamato a riflettere attivamente su quanto assiste; un racconto duro come un pugno allo stomaco che il grande regista decide però di chiudere in modo beffardo, con una risata che forse anticipa il trionfo della follia, di sicuro il trionfo dell'anarchia sull'aristocrazia; oltre che con un monito, ripreso da Brecht, secondo il quale ciò a cui si è assistito non è per forza di cose superato; dopotutto, la madre dei bastardi è sempre incinta.

lunedì 10 febbraio 2020

Birds of Prey (e la fantasmagorica rinascita di Harley Quinn)

Birds of Prey (and the fantabulous emancipation of one Harley Quinn)

di Cathy Yan.

con: Margot Robbie, Mary Elizabeth Winstead, Ewan McGregor, Jurnee Smollett-Bell, Rosie Perez, Ella Jay Basco, Ali Wang, Chris Messina.

Azione/Commedia

Usa 2020












Tra l'underperforming di "Batman v. Superman" e il flop di "Justice League", la DC Comics al cinema non ha avuto pace, almeno sino all'arrivo dei successi di "Aquaman" e "Shazam"; nel mezzo c'è stato il solo esito positivo, di pubblico ovviamente, di quella strana creatura nota come "Suicide Squad" che, nata sulla scia del successo dei Guardiani della Galassia della Marvel, è per lo meno riuscita a dominare il box office estivo.
In quella pellicola girata in un modo e montata in un altro, c'era per lo meno un elemento memorabile, ossia la Harley Quinn della bellissima Margot Robbie, la quale, d'altro canto, altro non era se non una gioia per gli occhi, restando confinata, come personaggio, all'interno dello stereotipo del bell'oggetto sessuale.
Eppure la Robbie, poi giustamente divenuta una diva, sembra aver visto qualcosa di più nella fidanzatina del Joker creata nel 1992 da Paul Dini per la serie animata di Batman; tanto che, per lo spin-off a lei dedicato, ha deciso di ricoprire anche il ruolo di produttrice e di avere pieno controllo sul progetto, affidando la regia alla semi-esordiente Cathy Yan e lo script a Christina Hodson, che con "Bumblebee" è riuscita nella non facile impresa di dare dignità ai Transformers.
Ma "Birds of Prey", come il titolo suggerisce, non è solo uno spin-off sulla sensuale clown di Dini, quanto un'adattamento dell'omonima testata che fa qualcosa di mai visto prima, almeno su schermo: unire un gruppo di super-eroine tutte donne e una più scatenata dell'altra.



Testata che, creata nel 1996, proponeva un team con tutte le più note ragazze di Gotham City; a capitanarle c'era inizialmente Barbara Gordon, dapprima nelle vesti di Batgirl, poi di Oracle; membri fissi nel team restano tutt'oggi la Black Canary di Carmine Infantino e Huntress (o "Cacciatrice"), mentre si sono avvicendate come comprimarie, nel corso degli anni, anche Catwoman, Poison Ivy e la seconda Batgirl, Cassandra Cain, adolescente figlia di uno dei sensei di Bruce Wayne, allevata come una letale assassina. L'introduzione nel gruppo di Harley Quinn avviene solo di recente, proprio in virtù della notorietà ottenuta dal personaggio grazie al film sulla Task Force X e, prima ancora, al rilancio in versione sexy avvenuto nei New 52 e nella serie videoludica di Arkham.




L'adattamento su grande schermo delle Rapaci di Gotham arriva in un momento di grande fermento nell'ambito del filone supereroistico, con le supereroine che, per la prima volta, sembrano ottenere quasi più consensi dei loro colleghi maschi, come testimoniano i successi di "Wonder Woman" e "Captain Marvel"; e "Birds of Prey" riesce non solo nell'intento di intrattenere a dovere per tutta la sua durata, ma anche nella non facile impresa di imporsi come il primo vero film super-eroistico femminista a tutto tondo, superando persino gli exploit di Diana di Temyschira e, sopratutto, di Carol Danvers



Le quattro protagoniste sono tutte personaggi in cerca di emancipazione e affermazione, schiacciate, chi in un modo, chi nell'altro, da figure maschili; Harley, la più scontata, lasciata dal Joker, deve dimostrare di valere qualcosa anche senza l'ala protettrice del Clown Principe del Crimine; Black Canary è sottomessa a Roman Sionis, dalla quale dipende per la vita e la morte, mentre Renee Montoya è costantemente ostracizzata da un capo arrivista e da una ex moglie che ne tarpa le ali; meno riuscito è l'arco narrativo della Cacciatrice, semplice assassina in cerca di vendetta, così come stramba appare l'idea di trasformare Cassandra Cain nella donzella in pericolo.



La trovata di contrapporre questo gruppo di "stronze cazzute" ad un boss della malavita effeminato e apertamente omosessuale eradica del tutto l'idea veterofemministra del patriarca come nemico naturale della donna: non è la figura virile per sé a togliere spazio a quella femminile, quanto una forma di potere esercitata da un soggetto le cui qualità si danno, a torto, per scontate.
La "guerra dei sessi" che ne consegue è più veritiera di qualsiasi trovata vista in "Captain Marvel" e nel reboot di "Ghostbusters", non per altro perché per brillare, le ragazze di Gotham non vengono inserite in un contesto dove sono le uniche ad avere due neuroni funzionanti, evitando così il cattivo gusto e la misandria gratuita.



Ma "Birds of Prey" è per prima cosa un piccolo blockbuster divertente nella messa in scena; l'umorismo distruttivo e violento regala serie risate di pancia, mentre le scene d'azione, dirette dal Chad Stahelski di "John Wick", sono coreografate ed eseguite con gusto. Il punto di riferimento è il cinema pulp anni '90, con Tarantino citato esplicitamente, ma molto dello stile ripreso dai gangster movie di Guy Ritchie. Ed è davvero impagabile vedere una antieroina che si diverte a spezzare le gambe di chi la insulta o andare in botta di cocaina durante un combattimento.
Il tono generale diviene così quello di un cartone animato folle e iperviolento, pur nei limiti che un blockbuster deve avere. E il divertimento non manca davvero mai, rendendo questo pazzo exploit se non memorabile, almeno incredibilmente riuscito.

venerdì 7 febbraio 2020

Diamanti Grezzi

Uncut Gems

di Benny e Josh Safdie.

con: Adam Sandler, LaKeith Stanfield, Julia Fox, Kevin Garnett, Pom Klementieff, Eric Bogosian.

Usa 2019

















Che Adam Sandler fosse un attore capace di dare il meglio di se in ruoli seri, lo si era capito già ai tempi di "Ubriaco d'Amore", nel 2002; i fratelli Safdie, con "Uncut Gems", alzano però la posta e decidono di cucirgli addosso un intero film, lasciandolo sempre al centro dell'attenzione. Una scommessa rischiosa, ma che il duo di filmmaker riesce a vincere sbancando quasi tutto.



Howard Ratner (Sandler) è un grosso gioielliere e trafficante di preziosi con il vizio del gioco; rincorso dagli strozzini, tenta il tutto per tutto con un opale grezzo del quale il cestista Kevin Garnett si innamora e che può fruttargli una somma in grado di saldare tutti i suoi debiti.




Un noir metropolitano, questo "Uncut Gems", che ci porta nella vita di un personaggio ai limiti della legalità e oltre i limiti della moralità. Ratner è in tutto e per tutto una persona immorale, che tradisce la moglie con le sue impiegate, gioca con il denaro altrui e ha sempre la faccia tosta di atterrare in piedi. Il suo gioco è un continuo rialzo, sino alle conseguenze estreme, che lo trascinano via, inesorabilmente, verso il baratro.
Lo sguardo dei Safidie rispecchia, nella messa in scena, quello del loro protagonista, fatto com'è di inquadrature strette e prive di profondità, montate in modo nervoso e frammentato a mimarne il punto di vista caotico e privo di limiti.




Se il loro stile è solido, è il tipo di ritratto che vogliono dare a suscitare qualche perplessità; sopratutto nei primi minuti, lo sguardo è spezzato tra lo stile realistico e metropolitano e concessioni lisergiche che non trovano mai piena affermazione, piccole digressioni che finiscono per essere corpi estranei in una narrazione di tutt'altro tipo.
Allo stesso modo, sembrano non sapere se voler creare un apologo morale vero e proprio piuttosto di una cronaca cinica, oscillando costantemente tra i due registri.
Molto tirato è anche il racconto per sé, per il quale 132 minuti sono davvero troppi, tant'è che spesso gira a vuoto in scene inutili che nulla aggiungono né alla storia, né ai personaggi.




"Uncut Gems" è così un racconto grezzo, ma affascinante, nel quale l'interpretazione di Sandler brilla come il vero gioiello in grado di salvare la visione.

R.I.P. Kirk Douglas


1916 - 2020


Se 103 anni sono un traguardo incredibile per una persona normale, a maggior ragione lo sono per un divo. Kirk Douglas è, in fondo, sempre stato un uomo dei record, il quale è riuscito a regalare performance indimenticabili facendo spesso leva sulla sola componente fisica dei personaggi. E con la sua longevità, si può davvero dire che sia stato l'ultimo grande divo della Vecchia Hollywood.

martedì 4 febbraio 2020

Jonathan degli Orsi

di Enzo G.Castellari.

con: Franco Nero, John Saxon, Floyd "Red Crow" Westerman, David Hess, Knifewing Segura, Melody Robertson, Rodrigo Obregòn, Bobby Rhodes.

Western

Italia, Russia 1994
















L'avventura dello Spaghetti Western comincia ufficialmente nel 1964 con "Per un Pugno di Dollari" e trova una prima conclusione nel 1976 con "Keoma"; nel mezzo, circa 350 film che hanno ridefinito, nel bene e nel male, un intero genere e hanno segnato indelebilmente l'immaginario collettivo di più di una generazione.
Negli anni '80, il cinema italiano sprofonda nel baratro della mediocrità e, un po' alla volta, l'intera industria del cinema di genere affonda inesorabilmente verso il dimenticatoio. Poi arrivano gli anni '90 e il successo di pellicole quali "Balla coi Lupi" e "Gli Spietati" fa comprendere ai produttori come il pubblico apprezzi ancora quello spettacolo vecchio stile a base di duri dagli occhi di ghiaccio e revolverate. Diviene così relativamente semplice per Enzo G.Castellari e Franco Nero trovare i finanziamenti per un'ultima cavalcata nelle distese dell'America del XIX secolo: "Jonathan degli Orsi" esce nel 1994, lo stesso anno di "Dellamorte Dellamore" e, proprio come il film di Michele Soavi, è l'ultimo esponente di una razza antica e preziosa, l'ultimo vero exploit western italiano (de "Il Mio West" meno se ne parla, meglio è).



Un revival che riprende molti degli elementi caratterizzanti di "Keoma" e li fonde con elementi da favola ecologista ed una morale anti-razziale. Jonathan, ritrovatosi orfano a causa dell'attacco di una spietata posse di banditi, viene cresciuto prima dagli orsi, poi dai Nativi; divenuto adulto, diviene il tutore della fauna del nord, ma si scontra subito con l'avarizia dell'uomo bianco, che viene poi incarnata dal magnate Goodwin (Johan Saxon), proprio colui che si era macchiato dell'assassinio dei suoi genitori e ora divenuto petroliere assetato di denaro, il quale non si fa scrupoli a dissacrare il terreno sacro dei nativi.




Anche qui, come in "Keoma", Franco Nero veste i panni di un bianco allevato dagli Indiani e che si scontra con l'ottusità dei suoi simili; e anche qui il pistolero solitario diviene figura cristologica, che si sacrifica per il bene altrui per poi risorgere e trionfare.
La regia di Castellari riprende molti degli elementi più spettacolari del film del '76 e li ripropone, creando un omaggio sentito ad un tipo di cinema che, allora come ora, era scomparso, schiacciato dalla bruttezza imperante. Il gioco, bene o male, regge: l'uso evocativo della musica e del montaggio incrociato, ancora più vicino al Peckinpah più puro, restituisce un senso autenticità tale da far sembrare questa produzione degli anni '90 uscita dritta dritta dagli anni'70, mentre la fotografia dai colori lividi dona un tocco di originalità estetica alla visione.




Così come riuscito è il piccolo apologo morale sulle tensioni razziali, che trova spazio sopratutto alla fine tramite il personaggio di Bobby Rhodes. Castellari riesce ad intessere un discorso convincente, anche se basilare, dove il razzismo è sinonimo di infamia, mentre, come ancora nel cinema di Peckinpah, la modernità è sinonimo di corruzione morale, che porta con se anche i germi della conflittualità sociale: laddove nel paesino di frontiera coesistevano pacificamente uomini di tutte le razze, l'arrivo di Goodwin e la prospettiva di arricchimento risvegliano le tensioni sopite, portando ad un massacro.




"Jonathan degli Orsi" si impone così come il canto del cigno non solo di un genere, ma di un'intera industria. Un film fatto con tanto mestiere e ancora più amore, che testimonia il tramonto del cinema italiano di genere... purtroppo.