domenica 25 aprile 2021

Il Grande Uno Rosso

The Big Red One

di Samuel Fuller.

con: Lee Marvin, Mark Hamill, Robert Carradine, Bobby Di Cicco, Kelly Ward, Sigfried Rauch.

Guerra

Usa 1980














Un cineasta del calibro e del valore di Samuel Fuller meriterebbe davvero molto più riconoscimento di quanto gli sia effettivamente dedicato. Non che i cinefili non si siano accorti della valenza delle sue opere, tutt'altro: già ai tempi della Nouvelle Vague, Fuller era riverito come uno dei massimi cineasti viventi e le sue pellicole erano divorate con passione dai giovani filmmaker. Semmai, sarebbe opportuno dargli un posto di rilievo all'interno di quella corrente della cultura popolare che idolatra i grandi artisti cinematografici, giacché i suoi film potrebbero davvero rivaleggiare con quelli dei maestri della New Wave americana.


Fuller era in tutto e per tutto un cineasta americano, ma nell'approccio al mezzo filmico dimostrava una sensibilità tipicamente europea, che alla classicità della narrazione affiancava metafore e simbolismi totalmente visivi in grado di dare un significato diretto e ulteriore alle singole immagini.
"Il Grande Uno Rosso" rappresenta, all'interno della sua filmografia, una sorta di punto d'arrivo: per lui che aveva partecipato alla Seconda Guerra Mondiale come corrispondente dal fronte, seguendo le imprese del vero Big Red One (ossia la prima divisione della fanteria dell'esercito americano), far rivivere i ricordi di quarant'anni prima, già rielaborati in parte con lo splendido "Corea in Fiamme", rappresenta una catarsi personale. Nonché uno dei migliori war-movie mai realizzati, al cui valore, purtroppo non è stato dato grande riconoscimento; la theatrical cut del film, sul quale Fuller non aveva diritto al final cut, era una mera frazione dell'intera opera, che viene distribuita solo nel 2004, in seguito alla "reconstruction", ossia il restauro totale della pellicola con l'aggiunta di 8 sequenza inizialmente tagliate, curata dallo storico Richard Schickel. E' solo a partire dalla creazione di questa "quasi director's cut" che il valore del film viene effettivamente riconosciuto: chi lo tacciò all'uscita di retorica pro bellica si accorse della sua onestà, con la quale Fuller ritrae eroismo e aberrazioni belliche in modo schietto e impietoso.


Quello di Fuller non è tanto un apologo contro la guerra, quanto un ritratto preciso e per questo veritiero dell'esperienza bellica, la quale viene purgata da ogni ottimismo e risvolto positivo che non sia il solo cameratismo tra soldati o sparuti atti di coraggio. Da questo punto di vista, è schietto sin dall'inizio: già nelle prime sequenze il Sergente (un granitico Lee Marvin) pone la differenza tra uccidere e assassinare. L'uccisione in guerra è moralmente accettabile dato lo stato selvaggio cui l'uomo deve regredire per sopravvivere; l'uccisione fuori dallo stato di conflitto è il vero peccato, con cui lo stesso Sergente deve convivere. Non per nulla, la prima scena si svolge dinanzi ad una statua del Cristo privo di occhi: nemmeno Dio può guardare l'orrore che le macerie del Primo Conflitto Mondiale rappresentano; ed è quasi ironico che quando quella location tornerà ad essere teatro di scontri, ospiterà anche una nascita, in contrasto con la morte che la circonda.


I quattro ragazzi del Big Red One e il Sergente altro non sono che degli alter ego dello stesso Fuller: il cecchino Griff (un Mark Hamill intenso come non si era mai visto prima) rappresenta la sua innocenza, che finisce per implodere; incapace di uccidere, riuscirà a trovare l'istinto omicida solo verso la fine e la piena realizzazione di ciò che è diventato ne disturba la mente, facendolo arrivare alla soglia della pazzia. Il soldato Zab, lo scrittore mancato, è Fuller quando esegue il suo lavoro di reporter sul fronte, mentre il Sergente rappresenta il suo lato più vissuto, quello che si forgiato proprio grazie all'esperienza in guerra. Mentre l'italoamericano Vinci e il "villico" Johnson rappresentano i camerati ideali con cui ha vissuto le sue esperienze.


La progressione narrativa segue in tutto e per tutto la campagna di liberazione: comincia dal Nord Africa, finisce in Cecoslovacchia, passando per lo sbarco in Sicilia, quello a Omaha e per la terra fiamminga. progressione che prende le forme di una narrazione episodica, che segue le varie tappe della liberazione. Ogni tappa è una battaglia, che Fueller ricostruisce in modo secco, decisamente meno artefatto rispetto ai suoi lavori passati, con il montaggio che ricompone le immagini ridotte a frammenti, scaglie di un'unica visione il cui imperativo è la verosomiglianza. Stile dovuto anche per mascherare lo scarso budget, al quale si deve anche il ricorso obbligatorio ad immagini di repertorio per allargare lo spettro degli eventi. Stile che, benché rivoluzionario, si rivela solidissimo e perfetto per ritrarre i quotidiani orrori della guerra, complice anche la coreografia delle battaglie e la costruzione della storia totalmente ancorata alle manovre di guerra del gruppo. L'azione diviene così narrazione, veicolo per lo spaccato umano e materiale del conflitto.


Il che non impedisce all'autore di usare una forma di vernacolo nel ritrarre la quotidianità della guerra; i soldati sono sodali tra loro e si divertono a discutere di sesso. Non sono figure idealizzate, ma veri uomini calati in un contesto verosimile, reso maggiormente tale da quell'aneddoteddistica che solo chi ha vissuto in prima persona quelli eventi può conoscere, come l'uso dei preservativi per proteggere la canna del fucile.



E oggi è forse questa verosomiglianza "caustica" e non apologetica a colpire; come spettatori, siamo da almeno vent'anni a questa parte abituati ad una ricostruzione idealistica della guerra, data da chi l'ha vissuta lontana dal fronte, per il tramite dei cinegiornali e, talvolta, dalla propaganda. Fueller fa tutt'altro e lo ribadisce nell'ultimo atto: l'unica gloria della guerra è sopravvivere, l'unica cosa che conta sono i compagni che ti coprono le spalle. Non c'è vera gloria nell'uccisione di un uomo, tantomeno nel combattimento; il che è chiaro anche nella sequenza del manicomio, dove uno degli internati raccoglie un mitra e inizia a sparare a caso dicendo di essere come i soldati. La guerra altro non è che una follia controllata, pronta a spazzare via l'innocenza e la sanità mentale. Se Griff è l'incarnazione di una volontà di uccidere che si fa pazzia, i diversi bambini che si avvicendano insieme ai protagonisti sono l'innocenza distrutta: dal piccolo siciliano che decide di aiutarli solo per poter garantire degna sepoltura alla madre, alla bambina "innamorata" del Sergente che viene uccisa a sangue freddo, il cecchino della gioventù hitleriana, giovane "plagiato" dalla retorica militarista, sino all'ultimo infante, prigioniero di un campo di concentramento che, liberato, dona al Sergente un fugace momento di pace.


E a colpire ancora è l'assenza di manicheismo nella descrizione del nemico. Il nazista Schroeder altro non è se non una versione altra del Sergente, il quale si differenzia da lui solo per il fanatismo che ne muove le azioni, portandolo talvolta a compiere atrocità. Sempre nel finale, l'intero plotone e in primis lo stesso Sergente sottolinea come, in fondo, loro abbiano più cose in comune con quel nemico affiatato piuttosto che con i loro stessi commilitoni defunti: tutti sono reduci, sopravvissuti che saranno segnati a vita da quella turpe esperienza.


L'onestà della storia e la solidità granitica del racconto rendono "Il Grande Uno Rosso" una testimonianza imprescindibile sugli orrori della II Guerra Mondiale, ricostruiti in prima persona da chi li ha vissuti. Un'opera forte e oggi necessaria al ricordo preciso degli eventi, capolavoro in grado di coinvolgere e stupire.

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